Il Sole 5.4.16
La narrativa di reazione di Matteo Renzi
di Paolo Pombeni
Si
è parlato tanto e si continua a parlare della “narrativa” renziana come
di uno strumento essenziale nella strategia di gestione del potere da
parte del Presidente del Consiglio. Bisogna dire che nell’intervento di
ieri alla direzione del Pd si è avuta una ulteriore prova della accurata
scelta che il segretario/premier fa nell’uso di questo strumento. Renzi
si trovava in posizione delicata, perché la vicenda innescata dai
materiali usciti dalle indagini della procura di Potenza era di quelle
tipiche da offrire materia incendiaria alle molte opposizioni con cui ha
a che fare: intrecci affari-famiglia, petrolieri nazionali e
internazionali, ambientalismo e sospetti di collusioni fra politica e
poteri più o meno forti. Tutte cose che trovano nell’immaginario
collettivo nazionale, che in fondo non si è mai liberato dal trauma di
Tangentopoli, fertile terreno di semina. Proprio per questo val la pena
di sottolineare tre passaggi chiave del suo intervento che non è stato
indirizzato a contestare i fatti (o i misfatti) che le opposizioni gli
addebitano, ma a cambiarne il segno.
Primo punto. Viene accusato
di avere preso decisioni a favore di opere pubbliche e private che si
immaginano nell’interesse di questa o quella lobby? Ebbene di questo si
trae vanto: il governo ha sbloccato una lunga serie di opere ferme da
anni (con inevitabili slide). Questo è un crimine o un elemento per far
marciare l’economia del paese? La domanda è ovviamente retorica, come è
retorica l’affermazione a condimento: se è un crimine io (Renzi) ne sono
direttamente responsabile e pronto a risponderne.
Secondo punto.
Viene accusato di non esercitare una azione ferma di prevenzione dei
reati di tipo in senso più o meno lato corruttivo? Anche qui una
risposta piccata. Siamo il governo che ha promosso l’autorità
anticorruzione di Cantone, che ha inasprito pene e possibilità di
repressione della corruzione. Vogliamo fare la legge sul conflitto di
interessi e basta che il Senato acceleri perché giunga al termine.
Immancabile il “da noi chi sbaglia paga”.
Terzo punto. Viene
rimproverata una mancanza di rispetto per la magistratura e per le sue
indagini. Falso. Noi non siamo il partito che chiede immunità, tutele
per le posizioni politiche, prescrizioni, ma al contrario vogliamo non
solo che la magistratura indaghi, ma che concluda le indagini ed emetta
in tempi rapidi i giudizi relativi. Altrimenti, si lascia capire, è
tutta scena e niente sostanza.
Come si vede è una narrativa di
reazione che punta, con abilità, a spostare l’accento su altri nervi
scoperti della comunità politica. Col primo punto si fa appello alla
opinione comune che vede nei cantieri sempre aperti e mai conclusi una
classica prova dell’inconcludenza dello stato. In più si fa leva sul
facile argomento che tutto dipende da una burocrazia incapace e
interessata solo a bloccare qualsiasi spinta. Dunque una opinione
pubblica che chiede efficienza riconosca i meriti di un governo che
taglia il nodo di Gordio delle eterne pastoie della politica e della
amministrazione. Col secondo punto si accarezza la domanda
giustizialista che pure alberga ancora in tanta gente. Cosa poteva fare
un governo più che mettere in piedi una autorità indipendente contro la
corruzione e inasprire un po’ di leggi in tema? Un maligno potrebbe
obiettare che forse qualche sforzo in più per incrementare una etica
pubblica di cui siamo carenti in troppi settori non guasterebbe, ma
questo non è un tema popolare. Col terzo punto si solletica in fondo un
radicato pregiudizio contro la sfera giudiziaria. Rapida, forse, a
denunciare, lentissima a concludere (quando ci riesce). Certo colpa di
farraginosità, privilegi, garantismi eccessivi, ma pur sempre tale che
per uno che si colpisce dieci la fanno franca, specie se possono avere
abbastanza quattrini per pagarsi ottimi avvocati. Lasciamo perdere
quanto questa rappresentazione sia vera, è un fatto che si tratta di un
modo di sentire piuttosto diffuso.
Renzi è un politico abituato a
difendersi attaccando e sa anche come fare: lo dimostra proprio la
strategia scelta in questo passaggio difficile, strategia rivolta più
che al suo partito all’opinione pubblica. Il suo problema è nell’eccesso
di personalizzazione che mette sempre in queste scelte, cosa che lo fa
assomigliare più ad un tribuno che ad uno statista. È uno stile che
passa anche ai suoi più stretti collaboratori (vedi la Boschi che deve
subito ribadire che lei è “tosta” e non si lascia intimidire). Poiché,
come si usa dire, talora è il tono che fa la musica, si dovrebbe
chiedere se queste argomentazioni, indubbiamente abili ed anche fondate,
non riuscirebbero più efficaci con un minor tasso di teatralizzazione.
Perché alle volte il personaggio finisce di rimanere più impresso nelle
menti di quanto non lo siano gli argomenti e si è già visto in altri
casi che questo poi in determinati frangenti gioca a sfavore.