Il Sole 3.4.16
Isis, Libia, caso Regeni
La guerra in casa e il disordine mondiale
di Alberto Negri
In
Yemen i sauditi hanno ingaggiato contro gli Houti sciiti una guerra che
ha già fatto migliaia di morti: ci sono attentati dell’Isis, c’è
al-Qaeda, che fino a qualche tempo fa era un bersaglio dei droni
americani e ora controlla l’Hadramaut e il porto di Mukalla, c’è
soprattutto una popolazione allo stremo con migliaia di profughi. Eppure
questa sorta di Vietnam arabo è menzionato solo di sfuggita. Washington
l’anno scorso ha detto: ci pensano i sauditi. Ma vi fidereste di uno
Stato che provoca enormi tensioni nel Golfo con l’Iran sciita e da cui
provengono i finanziamenti agli imam più radicali dell’Islam? È questa
la geopolitica del caos.
Ovunque si volga lo sguardo ci circonda
un disordine mondiale che però trattiamo in maniera selettiva. Se a
produrlo sono i nostri clienti allora si chiude un occhio: dopo tutto la
penisola arabica è il cortile di casa di monarchie petrolifere che
hanno il buon gusto di investire nelle nostra finanza. È con questa
logica che siamo arrivati ad avere la guerra in casa: la stessa logica
perversa che scatenò l’11 settembre 2001.
L’Isis nel 2014 non
suscitava alcun interesse negli Stati Uniti: Obama, che oggi chiama alla
mobilitazione contro i jihadisti con ambizioni atomiche, definì lo
Stato islamico un competitore dilettante di al-Qaeda. Dobbiamo
aspettarci altri dilettanti allo sbaraglio?
Si parla tanto di
intelligence, ma proprio gli americani sono stati protagonisti del più
devastante fallimento dei servizi degli ultimi decenni: mai erano stati
bombardati in casa, e ci è riuscito Osama bin Laden la cui famiglia
andava a pranzo con i presidenti e che abitava indisturbato in Pakistan,
Paese alleato, compiacente con cellule terroristiche che fanno stragi
di musulmani e cristiani, dotato pure di armi nucleari di nuova
generazione. Ma gli Stati Uniti hanno la Cia, l’Fbi, controllano il
traffico mondiale delle comunicazioni e dal tavolo della loro rete fanno
cadere agli alleati soltanto briciole di informazioni: quel che basta
per tenerli a guinzaglio.
Siamo tutti alleati qui in Occidente, ma
definirci amici a volte è un po’ azzardato. In compenso siamo
sicuramente concorrenti, al punto che in ogni vicenda oscura, a torto o a
ragione, vediamo sullo sfondo, nell’ombra, l’artiglio di interessi
economici inconfessabili: non è così anche per il caso Regeni? Prendiamo
l’apertura a Teheran, dove sta per andare in missione il presidente del
Consiglio: gli Usa vogliono vendere i Boeing e hanno già pronte tutte
le triangolazioni finanziare necessarie, ma un’azienda italiana o
europea deve stare molto attenta, se non vuole incappare nelle sanzioni
Usa, a esportare qualunque prodotto che abbia un contenuto di tecnologia
Usa superiore al 25 per cento.
In Iraq - 12 anni di embargo -
inglesi e americani avevano un ufficio per controllare l’export “dual
use” (militare e civile): monitoravano con un sistema da incubo tutto
quello che entrava, un po’ meno quello che usciva, petrolio di
contrabbando che ingrassava il curdo Barzani, la Turchia e i dealer del
Golfo. Come poi è accaduto anche con l’Isis. Ma anche questo non
bastava: nel 2003 Bush jr. e Blair decisero di mettere le mani
direttamente sul Paese scoperchiando un vaso di Pandora che non hanno
mai richiuso.
Per noi l’Iran, Paese discretamente stabile anche se
implicato nel marasma mediorientale, è una cosa seria. Le commesse
degli ayatollah, buoni pagatori, devono coprire la perdita di altri
mercati, come la Libia e in prospettiva forse anche l’Egitto. Anche
l’Italia ha un cortile di casa, ma gli alleati ci fanno spostare
continuamente di posto come nel gioco dei quattro cantoni, un giorno in
Iran, un altro in Libia. Meno male che siamo ragazzi svelti, se non
proprio svegli.
L’intelligence europea fa acqua e quella belga
viene sbeffeggiata in barzellette da humor nero. Ma ha perfettamente
ragione Emma Bonino quando dice che se nell’integrazione europea la
sicurezza è rimasta esclusiva competenza nazionale, per rimediare
bisognerebbe rivedere i Trattati, e invece gli Stati dell’Unione si
illudono che chiudere le frontiere risolva il problema. È assolutamente
stucchevole immaginare un’intelligence europea senza una politica estera
e di difesa e sicurezza comuni. Quindi finché non avverrà sarà inutile
paragonarsi agli Stati Uniti e dire «siamo in guerra»: siamo chi, visto
tra l’altro che le forze armate non sono più di leva ma professionisti
che guardano anche loro ai bilanci? Siamo vittime, questo sì, ma non
combattenti.
Sono gli Usa che dettano le regole della guerra al
terrorismo, non il Califfato, e lo fanno in funzione dei loro interessi
che possono coincidere con i nostri ma non sempre. Gli europei
continentali hanno una colpa grave: sperano che siano gli altri a
occuparsi dei loro guai. Scaricano i profughi a Erdogan e nella guerra
all’Isis, dopo avere architettato per anni la caduta del regime di
Damasco, si affidano a Putin e Assad, due leader sotto sanzioni. E
quando intervengono provocano danni massicci come in Libia nel 2011.
Nello specchio deformante che riflette il caos europeo possiamo vedere
il nostro disordine politico, l’egoismo nazionale, gli inconfessabili
interessi che assegnano medaglie al valore, i fallimenti
dell’intelligence e persino i volti sfocati, colti dall’obiettivo delle
telecamere, dei jihadisti di casa nostra.