giovedì 28 aprile 2016

Il Sole 28.4.16
Se torna l’Europa di un secolo fa

Rifugiati, diseguaglianza, declino della classe media, crisi dell'euro, sfiducia nell'establishment. Non c’è penuria di spiegazioni per il messaggio irritato che gli elettori europei fanno sentire ad alta voce ogni volta che sono chiamati a votare. La maggior parte delle volte, facciamo finta che sia una temporanea manifestazione di ira che alla fine si esaurirà da sé. Continua pagina 28
di Carlo Bastasin

Continua da pagina 1 Da oltre venti anni, ci vogliamo convincere che l’irritazione degli elettori rappresenti solo un prezzo da pagare a un sistema che altrimenti funziona.
In realtà, il consenso per i partiti radicali e anti-establishment non ha smesso di crescere. I partiti tradizionali cresciuti nella cultura dell’integrazione sovranazionale – cristiano-democratici o social-democratici – sono minacciati in tutti i paesi. Nuovi partiti anti-sistema, particolarmente all’estrema destra, stanno crescendo ovunque, rappresentano unaforza minacciosa che sembra avere il tempo dalla propria parte. Ogni quattro anni, l’Unione cristiano-democratica tedesca perde un milione di propri elettori solo per ragioni demografiche. Lo stesso fenomeno di invecchiamento degli iscritti e dei sostenitori colpisce il partito socialdemocratico. Vittime dell’alta disoccupazione e di un senso di esclusione che non è solo economico, i giovani in Germania, Italia, Austria, Francia, Danimarca o Spagna votano in modo diverso e spesso imprevedibile.
Chi sostiene che una nuova era sia iniziata non aveva compreso l’era in cui stava vivendo. È tempo di considerare i fenomeni politici in corso come un cambiamento permanente nel paesaggio politico europeo. Domenica scorsa, le elezioni presidenziali austriache hanno dimostrato ancora una volta che i partiti tradizionali possono essere messi un angolo da un partito xenofobo e nazionalista fino a diventare un’entità trascurabile nel conteggio dei consensi.
C’è ragione di credere che l’Europa dopo quasi un secolo sia di nuovo vicina a forme di populismo autoritario. Può sembrare allarmistico, ma ci sono forti analogie con quanto è successo nella prima metà del secolo passato. Soprattutto, le società europee si trovano su un piano inclinato che offre un’inerzia favorevole a politiche autoritarie. Un’inclinazione che è il risultato congiunto della crisi economica e di quella dei rifugiati che, insieme, danno una forza irresistibile alla promessa elettorale di chiudere i confini degli Stati nazionali.
Abbiamo già visto barriere di filo spinato ai confini dei paesi dell’Est Europa.
Ora l’Austria vuole erigere muri ai confini con la Slovenia e l’Italia. Dopo aver costruito barriere più o meno simboliche non ci vorrà molto tempo prima che siano seguite da forme di rivalsa commerciale o di limitazione dei commerci che cominceranno a erodere le fondamenta del progetto dell’Unione europea, il mercato unico.
Con i primi segni di protezionismo e di ostilità per gli accordi di libero commercio già visibili, anche politiche dichiaratamente autarchiche potrebbero diventare attuali. In modo strisciante è quello che sta avvenendo da alcuni anni. La rinazionalizzazione delle politiche è stata una caratteristica essenziale che ha definito la crisi europea dal 2009 in poi.
Come ho cercato spesso di spiegare, la retorica del “ciascuno per sè” o del “fare i compiti di casa” o – nella formulazione attuale – della “riduzione dei rischi senza condivisione” va oltre la semplice riluttanza a condividere strumenti solidali per combattere una minacciqa comune.
In realtà è l’eredità di secoli di bellicosità degli Stati nazionali che hanno fondato la propria stessa legittimità sul principio dell’auto-sufficienza anziché su quello dell’interdipendenza in ragione del fatto che essere autonomi economicamente era una necessità nel caso frequente di guerra.
L’autarchia può diventare una tentazione irresistibile per politici che non riescono far fronte alle molte sfide dell’economia globale e che sono desiderosi di sventolare le bandiere nazionali a fronte di minacce esterne reali o inventate.
L’isolamento economico era nocivo nel secolo scorso, ma per società come le nostre che da decenni si sono consolidate e sviluppate attorno all’idea di economie aperte di mercato, la minaccia è addirittura esistenziale.
Povertà e disoccupazione di massa potrebbero essere la conseguenza del fallimento di interi settori economici e sociali, piccole e grandi industrie esportatrici o importatrici, imprese integrate nelle grandi catene produttive globali e così via.
Oltre agli effetti convenzionali causati dalla limitazione della circolazione degli individui e dei beni, la mobilità potrebbe essere ulteriormente soffocata attraverso i n uovi strumenti di sorveglianza elettronica.
Come è sempre accaduto nella storia dei conflitti europei, una risposta perfino più violenta e autoritaria potrebbe sembrare la logica conseguenza delle ostilità politiche ed economiche.