giovedì 21 aprile 2016

Il Sole 21.4.16
La sentenza shock di Oslo sui diritti del killer Breivik
di Ugo Tramballi

Era stato difficile sopportare la scoperta che alla polizia belga era vietato fare irruzione nelle case dei sospettati di reato, anche il più grave, dalle 21 alle 6 del mattino. Una garanzia rimasta intatta nonostante il terrorismo islamic o fosse una realtà concreta e sanguinosa in tutta Europa, prima degli attentati in aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles.
Ora però la giudice Helen Andenaes Seculik del tribunale distrettuale di Oslo apre nuovi orizzonti su quella zona grigia della democrazia occidentale, fra diritti fondamentali dell’individuo, diritti della collettività e ridicolo. «La corte ha concluso che le condizioni di detenzione costituiscono un trattamento inumano»: con questa motivazione è stato dato ragione all’appello di Anders Behring Breivik, tenuto in isolamento carcerario da 5 anni e impossibilitato – sosteneva lui – a rimanere in contatto epistolare con i suoi simpatizzanti.
Neanche gli orrori dell’Isis, i deliri del califfato e gli attentati terroristici possono far dimenticare e sminuire cosa Breivik ha fatto il 22 luglio 2011. Prima ha ucciso otto persone, facendo esplodere una bomba nel centro di Oslo. L’attentato era solo un diversivo per distrarre la polizia norvegese. Poi, mentre le forze di sicurezza si concentravano in città sul luogo del massacro, Breivik ha preso una barca, ha raggiunto la vicina isola di Utoya dove era in corso un raduno di giovani attivisti del partito di centro-sinistra e con calma, sapendo di avere tempo, ha incominciato a sparare: 69 ragazzi assassinati a sangue freddo in nome di un odio per neri, arabi, ebrei, comunisti, socialdemocratici, liberaldemocratici, centristi: per chiunque non sia nazista. Lo ha fatto guardando negli occhi le sue vittime, spesso ridendo, ignorando le richieste di pietà. E lamentandosi con se stesso, dopo l’arresto, di non aver portato con se abbastanza caricatori.
Anche per un caso straordinario come questo la placida Norvegia, luce smagliante del diritto individuale, un po’ meno del diritto collettivo e della Memoria d’Europa, aveva applicato la legge locale: non più di 21 anni di carcere, la massima pena prevista. Distendendo il braccio nel saluto nazista, come ha fatto in ogni udienza in tribunale, il trentasettenne Breivik uscirà dal carcere a 68 anni. C’è gente in Europa che a quell’età non prende ancora la pensione. Nel frattempo, se la sentenza del giudice Seculik verrà applicata – e non c’è nulla che lo impedirà nell’efficiente sistema giudiziario norvegese - l’imputato uscirà dall’isolamento, forse fraternizzerà con gli altri detenuti e potrà scrivere ai suoi sostenitori fuori dal carcere. In Norvegia alcune libertà formali restano più importanti dell’istigazione al nazismo.
Sarebbe troppo facile, e in qualche modo si raggiungerebbe il livello di Breivik, sostenere che un assassino così merita torture peggiori di quelle subite da Giulio Regeni in Egitto, fino a una morte lenta, dolorosa e di piazza. Ammettiamolo, per un attimo lo abbiamo desiderato tutti. Ma sapere con convinzione che non si può, è ciò che ha permesso all’Europa di sconfiggere il nazismo e, tra non molto, l’Isis. La colpa del giudice Seculik è solo di essere sprofondata nel ridicolo, applicando la legge con lo stesso freddo rigore di una formula matematica.