giovedì 14 aprile 2016

Il Sole 14.4.16
Anche il fronte anti-Renzi lasci i toni muscolari e discuta nel merito
di Paolo Pombeni

La grande battaglia è cominciata. L’uscita teatrale di tutte le opposizioni dall’aula della Camera prima che Renzi pronunziasse il suo discorso chiedendo il voto definitivo sulla riforma costituzionale vuole essere un messaggio chiaro per quel che ci aspetta.
Non si tratta ovviamente di consenso o dissenso nei confronti di un testo di riforma pur impegnativo al massimo livello: si tratta dell’apertura di quella che vorrebbe essere l’ultima fase dello scontro per bloccare la trasformazione del panorama politico italiano. Solo così infatti si può spiegare la saldatura fra la destra e l’estrema sinistra, che sono unite solo dalla necessità di mettere fine alla dinamica di rinnovamento sostanziale degli equilibri interni alla classe politica.
Renzi ha capito da tempo che questo era l’obiettivo dei suoi avversari (anche interni al suo partito) ed ha fatto di tutto per renderlo esplicito, ciò per accentrare su di sé i riflettori e per presentare la contesa come un referendum sulla sua persona. Ora le opposizioni hanno accreditato questa impostazione e c’è da chiedersi se fosse davvero conveniente per loro farsi attirare su questo terreno.
La partita è confusa e viene giocata con molti trucchetti di bassa politica, di quelli buoni per muovere gli istinti irrazionali di un paese. Il primo, che non regge ad una analisi distaccata, ma che ha conquistato anche studiosi di rango, si basa sull’argomento che una riforma istituzionale non deve passare a colpi di maggioranza, ma deve coinvolgere le opposizioni. Se in astratto potrebbe anche essere auspicabile che così fosse, in concreto si debbono notare due cose. La prima è che la costituzione della Quinta Repubblica francese, tutt’ora vigente, è passata con una maggioranza a cui si contrapponeva una minoranza ostile ed è stata validata da un successivo referendum. Si può discutere se la Francia sia un ottimo modello, ma è difficile negare che sia una buona democrazia e che abbia conosciuto una storia di alternanze fra
le forze di governo.
La seconda notazione è che per ottenere un concorso fra maggioranza e opposizioni nel fare le riforme ci vuole una disponibilità delle seconde. Ora la nostra storia, dalla commissione Bozzi (1983-85!) in avanti, rivela che non si è mai riusciti a cavare un ragno dal buco in questo campo proprio perché non c’è mai stata una disponibilità delle forze politiche a convergere, ma sempre una convinzione che ciascuna possedesse dei poteri di veto in grado di bloccare tutto e dei comportamenti conseguenti a questa premessa. Quando Renzi rivendica di avere sbloccato la situazione non consentendo più questo giochetto ha le sue ragioni. Che poi questa ottusità delle opposizioni abbia alla fine favorito il passaggio di un testo non sempre equilibrato non può essere ascritto a colpa del governo che si è trovato incitato (e agevolato) a tirare dritto per una sua strada.
Un altro aspetto molto discutibile di come viene impostata la battaglia è mischiare la questione della riforma costituzionale con quella della nuova legge elettorale. Non si nega che i due aspetti abbiano connessioni, ma quella elettorale è una legge ordinaria, cioè facilmente modificabile se ci saranno maggioranze diverse alla Camera, e la nuova formulazione degli articoli della seconda parte della nostra Carta non sono scritti in maniera tale da impedire il loro funzionamento con un sistema elettorale diverso.
Naturalmente sono tutti ragionamenti che si potrebbero sviluppare se ci fosse un qualche interesse a fare del confronto sul referendum costituzionale un vero dibattito politico. Tanto per fare l’esempio minore, chi si oppone a questa riforma dovrebbe spiegare in che modo intende riformare poi la nostra Carta, visto che molte sue debolezze sono denunciate davvero da un larghissimo schieramento. Non siamo però tanto ingenui da non sapere che nel momento in cui davvero si entrasse in questo campo il fronte delle opposizioni si sfalderebbe, perché non c’è fra loro altra unità che l’anti-renzismo, così come in passato l’anti-berlusconismo è stato l’unico collante di coalizioni eterogenee che non è che abbiano lasciato un ottimo ricordo di sé.
Il problema politico a cui non dovrebbe sfuggire chi propone la grande battaglia è dire come poi, una volta che si fosse riusciti a mandare a gambe all’aria il ridisegno attuale degli equilibri politici, si governerà questo paese che manterrà magari la mitica “costituzione più bella del mondo”, ma dovrà gestire una situazione interna e internazionale non esattamente idilliaca (dalla questione del Brennero al caso Regeni anche chi è osservatore distratto della vita politica potrebbe essere indotto a capire quali rischi corriamo).
In secondo luogo varrebbe la pena di chiedersi cosa succederà anche nel caso di una vittoria di Renzi ottenuta di fronte ad uno schieramento così imponente e variegato di oppositori. L’esaltazione di un leader drogandolo con gli effetti di un successo che sbaraglia gli avversari è sempre un evento rischioso. La trasformazione del sistema politico italiano dopo la lunga transizione della seconda repubblica ha bisogno di un andamento migliore di quello del meccanismo dell’ “asso pigliatutto”, soprattutto perché poi accanto all’asso ci stanno figure non sempre all’altezza
di un successo.
La lotta all’ultimo sangue fra fronti contrapposti non fa mai bene ad una democrazia. Renzi in qualche ultima occasione sembra averlo capito e di fatto ha talora optato per un approccio meno arrembante. Ma non si può pretendere troppo dalla natura umana.