il manifesto 14.4.16
L’inutile attesa della minoranza Pd
Sinistra.
Il partito si svuota mentre l’opposizione interna rinvia la sfida al
congresso. Dove è perdente per costituzione. Questo non può
tranquillizzare Sinistra italiana e la sua sfida
di Antonio Floridia
Cosa
sta succedendo a sinistra? Per un verso, l’avvio del progetto di
Sinistra italiana sembra oscurato dalle vicende legate al prossimo voto
nelle città; per altro verso, il convegno delle minoranze del Pd, a
Perugia, ha confermato la scelta di restare dentro il partito,
rilanciando la sfida alla leadership di Renzi.
Un certo
logoramento di questa leadership, e sondaggi piuttosto inquietanti per
il Pd, potrebbero far pensare che questa sfida, oggi, abbia maggiori
possibilità di successo, rispetto ad un recente passato. Ma è proprio
così?
Le discussioni nel Pd e sul Pd, in genere, non sono fondate
su un’adeguata riflessione sul modello organizzativo di questo partito.
In questi ultimi anni, vi è stata una fuga silenziosa di migliaia di
militanti, uno stillicidio di defezioni individuali. Ma solo in parte è
un esito imputabile ai limiti della condotta politica delle minoranze
del Pd: è il concreto modo di essere del partito che, se rende ancora
plausibile l’esercizio di un qualche ruolo di minoranza nelle sedi
istituzionali, ha reso invece del tutto ininfluente la posizione del
semplice militante.
Non vi è alcun incentivo, per chi dissente
dalla linea della maggioranza, a restare dentro: non vi sono luoghi di
effettiva agibilità politica. E in un partito senza una cultura politica
condivisa che faccia da collante, il dissenso poi si può tradurre solo
in distacco: né «lealtà», né «protesta», ma solo «exit», per riprendere
le note categorie di Albert O. Hirschman.
Tutto ciò sta rendendo
sempre più debole la posizione delle minoranze all’interno del partito,
semplicemente perché la loro possibile base di riferimento sta
allontanandosi o disperdendosi; e rende piuttosto velleitario anche il
guanto di sfida lanciato a Perugia, in vista del congresso: sembra
ignorare che non di congresso si tratterà, ma di quella cosa anomala
detta «primarie aperte».
A quale base si possono appellare le
attuali minoranze del Pd per poter sperare di rovesciare gli equilibri
nel partito? Sarebbe interessante sapere quale è il tasso di turn-over
degli attuali iscritti: non solo il saldo, comunque negativo, ma il
ricambio intervenuto in tutti questi anni.
E poi, se anche le
primarie sono «aperte» – e quindi, in linea di principio, tutti possono
partecipare -, non si considera un semplice fatto: chi ha maturato una
rottura, una vera e propria disconnessione sentimentale, con questo
partito, ben difficilmente si sentirà coinvolto in quella contesa. A
sinistra, vivaddio, c’è ancora un senso della propria identità, e quindi
alle primarie che non sono più sentite come tue, non si partecipa.
A
Perugia molte voci autorevoli si sono levate contro la «vocazione
minoritaria»: non c’è salvezza o spazio vitale, fuori dal partito. Ma
siamo di fronte alla classica profezia che si auto-avvera. Mettere in
guardia dai rischi di una deriva minoritaria appare paradossale: in
realtà, se si mettesse in conto la possibilità di costruire
politicamente una vera separazione (anche nelle forme consensuali di cui
ha scritto Franco Monaco), o anche una scissione con tutti i crismi e
tutte le ritualità del caso, e con il peso rilevante che le attuali
minoranze hanno nei gruppi parlamentari e nelle istituzioni locali (o
per meglio dire, che hanno ancora: ma fino a quando?), tutto ciò farebbe
immediatamente svanire l’alone di minoritarismo da cui (giustamente) si
vuole rifuggire.
Manca, in generale, un’adeguata riflessione su cosa è diventato questo partito.
Di
solito si dice: «Un amalgama mal riuscito», una «fusione a freddo». Ma
forse la metafora chimica più appropriata è un’altra: nell’alambicco del
Pd, a suo tempo, sono state immesse due «sostanze», ma l’una al
contatto con l’altra l’ha fatta immediatamente evaporare, volatilizzare.
Dieci anni fa sono venute a contatto due diverse tradizioni di cultura
organizzativa, due modi di costruire le reti di relazioni tra gruppi
dirigenti e base: ma la costituzione materiale del nuovo partito,
fondata sulle primarie aperte, ha fatto sì che solo una si rivelasse
perfettamente funzionale ed efficace. L’altra è progressivamente
svanita, resa del tutto inservibile dall’idea di contendibilità che si è
affermata nei fatti.
Renzi ha solo portato alle estreme conseguenze questo stato delle cose.
Il
modello di costruzione del consenso tipico del renzismo ha unito poi
alla classica sapienza correntizia democristiana una capacità tutta
post-politica di coltivare reti di relazioni extra-corporee:
letteralmente, non c’è più un «corpo» del partito, a cui appellarsi o da
conquistare, ma forze sociali e gruppi di potere che, in questo tipo di
«congresso-primarie», trovano modo di esaltare il proprio ruolo. Forze
che entrano in azione solo quando è il momento: non occorre essere nel
partito. E, in più, Renzi ha aggiunto una ferrea organizzazione
gerarchica, fatta di colonnelli, ufficiali di collegamento e sergenti di
complemento: ciascuno chiamato a presidiare la propria zona di
competenza e adeguatamente gratificato.
Basterebbe risalire alle
origini stesse della scalata di Renzi, non a caso avvenuta a Firenze e
in Toscana, per capire cosa è avvenuto: il primo esempio di una fusione
in cui non si crea qualcosa di nuovo, ma in cui una formula schianta
l’altra (anche perché, quest’ultima, si era andata colpevolmente
logorando).
Insomma, il ceto politico proveniente dalla tradizione
del Pci-Pds-Ds, semplicemente, non ha il know-how necessario per
competere su questo terreno. Può essere considerato, al limite, un
merito; ma certo non consente di considerarlo una carta vincente.
Occorre essere schietti: una sfida congressuale siffatta parte sconfitta
in partenza (salvo, forse, e in parte, al Sud: dove, non a caso, vigeva
e vige il regime del notabilato).
A meno che una (improbabile)
repentina caduta del capitano di ventura produca delle truppe allo
sbando, in cerca di nuove insegne sotto cui rifugiarsi. Ma, stando così
le cose, la sfida interna rischia di avere un solo possibile
significato: presidiare una ridotta, aspettando che Renzi inciampi in un
qualche incidente di percorso. Ed è così viene generalmente letta
all’esterno: ma con ciò stesso se ne indebolisce la credibilità
politica, facilmente stigmatizzata sotto il segno del sabotaggio.
Tutto
ciò pone non pochi problemi anche al progetto di Sinistra italiana:
l’insidia maggiore non viene da un possibile risultato elettorale
deludente. Sarebbe un errore legare le sorti di questo progetto
all’esito del voto nelle città, su cui incideranno tante variabili
locali, e molto diverse tra loro.
No, l’insidia maggiore viene da
uno scetticismo diffuso e serpeggiante sulla possibilità che questo
progetto riesca veramente a produrre qualcosa di nuovo: anche tra molti
potenziali interlocutori, sembra aver fatto breccia l’idea che a
sinistra del Pd ci sia spazio solo per una forza minoritaria, che non
possa andare molto oltre i confini della tradizionale sinistra radicale.
In questo senso, pesano soprattutto alcuni nodi politici irrisolti, che
solo il congresso di dicembre potrà sciogliere.
È bene essere
molto netti: se il nuovo partito viene inchiodato, o si fa inchiodare,
su un’immagine di minoritarismo, la sua sorte è segnata. Il nuovo
partito ha un compito non facile: costruire un’identità politica che
riesca a coniugare, da una parte, una critica radicale del capitalismo
contemporaneo, e delle politiche che oggi lo assecondano, e – dall’altra
– una prospettiva credibile di azione riformatrice, come potenziale
forza di governo.
Un’identità che si traduca in una reale capacità
egemonica, nella capacità di parlare ad una platea di elettori e
militanti che, se non sono ancora dentro il Pd, si sono comunque
ritratti in una posizione di attesa e/o di sfiducia. Elettori e
militanti che vivono con crescente disagio e distacco gli approdi del
renzismo ma che, nello stesso tempo, non sono disposti affatto a
riconoscersi nella prospettiva di un partito isolato, destinato alla
pura testimonianza.
Il compito principale, e per molti versi una
drammatica responsabilità, sia per Sinistra italiana che per le
minoranze del Pd, è quello di riuscire a non far disperdere
ulteriormente un patrimonio di identità e di esperienze: ricomporre e
mobilitare forze oggi prive di un reale punto di riferimento. Come
questo possa accadere, è il tema dei prossimi mesi.