il manifesto12.4.16
E ora subito l’Egitto «Paese non sicuro»
Italia/Egitto.
Come ha detto la madre, Giulio Regeni era «un giovane contemporaneo»:
perché non operare affinché i suoi coetanei, le centinaia di migliaia di
«giovani contemporanei» del nostro continente considerino, anch’essi,
un paese «non sicuro» quello dove Giulio Regeni è stato sequestrato
seviziato e ucciso?
di Luigi Manconi
Troppi
discorsi (e qualche invettiva) tra quelli ascoltati in questi giorni
offrono una rappresentazione singolarmente deformata della politica
internazionale e, in special modo, dei rapporti tra gli stati.
Una
rappresentazione spesso primitiva e, per così dire, otto-novecentesca,
che rischia di tradursi in una alternativa netta al punto da risultare
implacabile. Insomma, o le cannoniere o le complicità in sordidi
rapporti politico-economici. Non dico che tutto ciò sia estraneo alle
relazioni tra stati, figuriamoci.
Dico, piuttosto, che non è a
questa oscura dicotomia che quelle relazioni possono essere ridotte. É
una premessa indispensabile, la mia, per sostenere che la difficilissima
questione dei rapporti tra Italia ed Egitto “dopo il caso Regeni” va
affrontata in termini autonomi e originali.
La tesi per la quale
«tutto dipende dai petroldollari» e quella, correlata, «ma poi chi
comanda è l’Eni» è tanto vana e impotente quanto la tesi della
intangibilità assoluta degli equilibri geo-politici e dei rapporti
bilaterali in atto. Ci si deve sottrarre a questa falsa alternativa,
considerando che le relazioni con l’Egitto possono essere un campo
aperto dove c’è ancora spazio e tempo (non troppo, ma c’è) per agire con
determinazione e, allo stesso tempo, con duttilità.
Se ne è avuta
prova inequivocabile in queste ore, quando i provvedimenti da noi
proposti nei confronti del regime egiziano, contestati fino a un attimo
prima perché estremisti e irresponsabili, ora vengono condivisi dalla
gran parte degli osservatori e, sembrerebbe, dei decisori politici. Va
da sé: il discrimine tra accettabilità e non accettabilità di quelle
proposte è stato determinato, in questa circostanza, dal realizzarsi di
una scadenza. Ovvero l’incontro, nei giorni 7 e 8 Aprile, della
delegazione egiziana con quella italiana. Il fallimento di questo
confronto ha determinato una forte accelerazione e ha reso possibile ciò
che il giorno prima appariva impensabile (come il richiamo per
consultazioni dell’ambasciatore italiano al Cairo).
Non si tratta,
ora, di recriminare sul tempo perduto aspettando “La Scadenza”. Si
tratta, piuttosto, di non dissipare altro tempo, e di assumere
immediatamente quelle decisioni – come la pressione sui flussi turistici
– che fino a ieri scandalizzavano tanti e oggi appaiono necessarie e
ragionevoli, oltre che realistiche. E altrettanto può dirsi a proposito
della necessità di rivedere in profondità le relazioni
diplomatico-consolari tra i due Stati, nelle loro molte articolazioni:
dalla cooperazione tra università a quella in campo sportivo, dai molti
programmi culturali condivisi ai progetti di ricerca comuni. Non c’è il
minimo dubbio che tutto ciò comporti un costo per l’Italia, ma implica
un costo altrettanto o assai più rilevante per l’Egitto.
È questo
fattore che finora è sembrato sfuggirci. Gravati come sembravamo, da una
sorta di complesso di inferiorità, che non ci faceva riconoscere la
posizione obiettiva di forza in cui l’Italia si trova rispetto
all’Egitto. Si prenda il caso del giacimento di gas Zohr: non c’è dubbio
che esso rappresenti per l’Eni e per l’Italia un’importante risorsa
economica, ma se non ci rendiamo conto che lo è ancor più per l’Egitto,
rischiamo di precipitare in una visione paranoide. Una visione secondo
la quale sarebbe l’ente nazionale idrocarburi a decidere, in base ai
propri interessi aziendali, la sorte delle indagini sulla morte di
Giulio Regeni. Allo stesso tempo, se a non rendersi conto dell’entità
della forza di cui dispone fosse proprio il governo italiano, il nostro
paese perderebbe un essenziale strumento di pressione nei confronti di
quel regime.
Perché questo è il punto: il richiamo
dell’ambasciatore e un salto di qualità e di asprezza nelle relazioni
con l’Egitto non devono comportare necessariamente la rottura dei
rapporti politico-diplomatici, bensì il passaggio a una fase di più
intensa negoziazione dove l’Italia possa esercitare con la massima
determinazione la sua forza democratica e i suoi strumenti non bellici
di condizionamento e di conflitto.
Per questo mi è capitato di
insistere tanto – e l’ipotesi sembra essere considerata ora anche dal
governo italiano – sulla possibilità che la Farnesina, attraverso
l’unità di crisi, dichiari l’Egitto paese non sicuro. Non sicuro per
migliaia e migliaia di anonimi egiziani così come è stato per Giulio
Regeni e così come rischia di essere per tanti turisti, lavoratori,
studenti e ricercatori italiani e europei che vogliano recarsi in Egitto
per le più diverse ragioni. Come ha detto la madre, Giulio Regeni era
«un giovane contemporaneo»: perché non operare affinché i suoi coetanei,
le centinaia di migliaia di «giovani contemporanei» del nostro
continente considerino, anch’essi, un paese «non sicuro» quello dove
Giulio Regeni è stato sequestrato seviziato e ucciso?