il manifesto 8.4.16
La vera posta in gioco il 17 aprile
di Alberto Asor Rosa
L’attuale
vuoto politico, che rischia di diventare catastrofico, e di cui la
cosiddetta sinistra è al tempo stesso vittima e corresponsabile, fa
emergere con forza la valenza probabilmente decisiva delle prossime
consultazioni referendarie.
È sempre più evidente che dal loro
esito dipenderanno (per dirla in modo un po’ enfatico) le sorti del
paese. In questo quadro, è difficile non prendere atto del fatto che
quella fra loro che riguarda il problema delle trivellazioni marine (17
aprile) stenta a decollare, quasi che il quesito fosse di significato e
dimensioni minori.
Io penso che non sia così, almeno per due buoni motivi.
Il
primo è più specifico, anche se presenta anch’esso valenze
generalissime. Questo governo, e il partito che in questo momento esso
rappresenta, esprimono la posizione più risolutamente antiambientale
(attenzione: antiambientale, non semplicemente antiambientalista), che
nel nostro paese sia stato dato di vedere da molti decenni (forse da
sempre?).
L’ambiente, il paesaggio, il territorio, i beni
culturali sono considerati, nel migliore dei casi, come degli oggetti o
realtà morte, in cui investire più che si può, per ricavarne più che si
può (spesso, però, sbagliando anche il calcolo dei rapporti fra
investimenti e ricavati).
Se una società petrolifera o un
consorzio di palazzinari glielo chiedesse, pianterebbero trivelle o
edificherebbero ecomostri anche di fronte a Piazza San Marco a Venezia o
in Piazza della Signoria a Firenze.
Il caso lucano è ormai sotto gli occhi di tutti, non si può più girare la testa dall’altra parte.
Osservo
che, della stessa natura del caso delle trivelle, sono altri casi
clamorosi come quelli del sottoattraversamento ferroviario di Firenze e
dell’ampliamento sconsiderato e dissennato dell’aeroporto di Peretola,
anch’esso a due passi da Firenze (la quale rischia di diventare la
“città martire”, e come tale meriterebbe d’esser proclamata, di questa
fase produttivistico-ambientale). Del resto, in ambedue questi casi
basterebbe scavare appena più a fondo (non dico «più a fondo»; dico:
«appena più a fondo»), per arrivare a scoprire le stesse logiche che
hanno sovrainteso alle operazioni speculative lucane.
Per cui: chi
vota sì al referendum sulle trivellazioni marine, vota
contemporaneamente contro tutto questo, – contro tutto questo, e contro
il suo probabile, anzi, facilmente e assolutamente prevedibile,
peggioramento. Anche a tremila metri c’è dunque un interesse profondo (è
il caso di dirlo) a votare al prossimo referendum sulle trivelle
sottomarine.
Il secondo motivo è di carattere politico generale.
Non
s’è mai visto in questo paese un governo che inviti la cittadinanza a
non andare a votare a una forma di qualsiasi consultazione elettorale.
Questo governo conta sulla stanchezza, la disaffezione, lo scontento,
persino sull’incazzatura («vadano tutti al diavolo, non voglio più
saperne!»), per continuare a governare.
Qui, a proposito delle
trivelle, – tema, come ho già detto, apparentemente marginale e
interesse di pochi, – si manifesta la stessa linea, non soltanto
politica, ma ideologico-culturale, che si manifesta a proposito della
materia dei referendum d’autunno, e cioè: quanto più si restringe la
base del potere, tanto meglio è per chi governa.
Può governare
meglio, con meno impacci e più libertà di movimento e di azione. Per
esempio: fare quel che si vuole dell’ambiente italiano, se petrolieri,
palazzinari e costruttori di strade e autostrade glielo chiedono
(oppure, magari, prendere l’iniziativa di andarglielo a chiedere, se il
giro dei soldi, degli investimenti e delle ricadute di potere, dovesse
troppo abbassarsi).
Ma di più, molto di più: fare quel che si
vuole in ogni ganglio dell’azione di governo, accantonando o eliminando
del tutto controlli, verifiche, inutili discussioni (perdite di tempo,
gufismi d’altri tempi).
Di fronte a questo stato di cose, e a questa prospettiva, più si vota meglio è.
Nonostante
tutto, perdura qualcosa di vivo anche nella stanchezza, nella
disaffezione, nello scontento, persino nell’incazzatura. Bisogna che
venga fuori, per riprendere la strada comune, comune per noi, certo, ma,
a pensarci bene, persino per gli altri che non la pensano come noi.