il manifesto 6.4.16
L’ipocrisia di governi e commissione dopo i Panama Papers
Elusione
ed evasione fiscale legalizzata. Il fisco nazionale è oramai un cimelio
storico inadatto a un mondo globalizzato. Circa 32mila miliardi di
dollari ormai sono off-shore. E l’Ue non farà l’unica cosa che conta:
l’obbligo per tutti di pubblicare bilanci e tasse pagate
di Antonio Tricarico
La
divulgazione dei Panama papers scuote di nuovo l’opinione pubblica
mondiale sullo scandalo delle tasse non pagate dai più ricchi, che siano
singoli o multinazionali, e mette in difficoltà qualche governo, a
cominciare da quello islandese.
Come sempre accade in queste
circostanze – dai Swiss Leaks ai Lux Leaks – tanti commentatori si
interrogano se il cancro dei paradisi fiscali sarà finalmente estirpato.
«Nulla sarà più come prima», dichiarano a caldo i politici, che
promettono indagini fino a Panama.
Ma queste frasi le abbiamo già ascoltate ripetutamente sin dal 2009.
Fu
proprio allo storico vertice del G20 di Londra nell’aprile di
quell’anno, nel pieno della crisi economica e finanziaria mondiale, che i
leader che contano nell’economia globale decretarono la fine dei
paradisi fiscali producendo una lista nera di giurisdizioni «canaglia».
Lista
che però dopo qualche mese si svuotò di nuovo. È stato poi il turno
dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – l’Ocse
– che con la creazione di un Forum Globale ha promosso nuovi accordi
internazionali per lo scambio automatico di informazioni in materia
fiscale. Uno standard che il G20 nel 2014 ha poi decretato come globale e
quindi da attuare in tutti i paesi negli anni successivi.
A
fronte della constatazione che il sistema fiscale su base nazionale è
oramai un cimelio storico inadatto per un mondo globalizzato, l’Ocse ha
anche lanciato il progetto contro l’erosione dell’imponibile e lo
spostamento dei profitti delle multinazionali. La Banca mondiale calcola
che ogni anno siano circa mille miliardi di dollari i profitti delle
corporation che sfuggono alla tassazione lì dove i servizi o i beni
vengono prodotti e venduti. Tutto ciò provoca danni consistenti
soprattutto nei paesi più poveri e in quelli cosiddetti in via di
sviluppo.
Da questo altro processo è nato un decalogo di 15 azioni, che vari governi attueranno.
Dopo questo fior fiore di impegni e una rinnovata cooperazione internazionale, per davvero nulla sarà più come prima?
I
Panama papers ci dicono altro. Ossia che la geografia dei paradisi
fiscali è forse cambiata, anche in seguito alle timide azioni di alcuni
governi, ma che queste giurisdizioni sono vive e vegete e attraggono
ancora migliaia di miliardi di dollari di capitali.
L’autorevole e
indipendente Tax Justice Network li stima tra i 21mila e i 32mila
miliardi. Di questi, minimo 7.600 sarebbero di proprietà di soli
individui ricchi – quelli principalmente sbugiardati dalle ultime
rivelazioni, come dai Swiss Leaks in precedenza.
È noto da tempo
alle autorità di mezzo mondo come Panama sia un paradiso fiscale nodale
per il riciclaggio dei proventi del narcotraffico latino-americano e per
l’elusione fiscale di molti ricchi e di società multinazionali presenti
nelle Americhe.
Ma Panama è recentemente diventata una meta
sempre più ambita per chi cerca di pagare meno tasse, o semplicemente di
nascondere con maggior sicurezza i propri patrimoni all’estero. Il
Paese è infatti tra le varie giurisdizioni che ancora resistono
all’obbligo di rendere disponibili le informazioni sui patrimoni
depositati in banche o società di comodo ad autorità in altre
giurisdizioni. Per esempio Panama deve ancora avviare il secondo stadio
della peer review dell’Ocse, dopo un tira e molla di alcuni anni per
riuscire a superare il primo esame.
A oggi solo quattro
giurisdizioni al mondo non hanno preso ancora alcun un impegno per lo
scambio automatico delle informazioni – uno scambio che in ogni caso non
avverrebbe in maniera pubblica. Tra questi recidivi della segretezza
guarda un po’ c’è Panama, accompagnata da Vanuatu, Nauru e il Bahrein.
A
Panama non è difficile aprire una società di comodo. Stesso discorso
per gli altri «paradisi» come, tra gli altri, le Mauritius, che seguono
offshore la crescita delle economie asiatiche. Basta per l’appunto
utilizzare i servizi di società specializzate – quali la Mossack
Fonseca, appena finita nell’occhio del ciclone – e quindi trovare dei
prestanome che nascondano l’identità dei beneficiari ultimi, ossia i
veri proprietari.
La segretezza societaria e bancaria garantita
dal paradiso fiscale, anche prima dello stesso regime fiscale agevolato,
fa il resto.
In diversi si tirano su pensando che gli inquirenti e
le agenzie delle entrate di Italia e altrove questa volta non
lasceranno cadere la cosa.
Solo se però si troverà il modo di
ottenere anche prove certe dalle autorità panamensi riguardo ai
patrimoni nascosti al fisco nostrano.
E su questo il governo Renzi
un esame di coscienza se lo dovrebbe fare. Il ministro Pier Carlo
Padoan sbandiera la voluntary disclosure che sta finalmente muovendo
molti cittadini italiani a dichiarare quanto portato in Svizzera in
passato. Ma non in molti oggi ricordano che lo stesso governo lo scorso
anno ha di fatto depenalizzato l’elusione fiscale introducendo
nell’ambito della maxi delega fiscale l’istituto dell’abuso del diritto.
Insomma,
in gran parte dei casi i ricchi che eludono a Panama potranno sanare la
propria situazione con pene amministrative e rischiano oramai ben poco
penalmente. Un incentivo non da poco a continuare ad eludere scegliendo
il prossimo paradiso fiscale che resiste» alle nuove regole
internazionali.
Anche l’Unione europea sul tema specifico non è da meno in quanto a ipocrisia.
Nel
2015 Bruxelles ha compilato una lista nera di 30 paradisi fiscali –
anche questa frutto di una complessa media tra le liste dei singoli
paesi membri. E tra tutti spicca senza dubbio Panama.
Il prossimo
10 aprile è annunciata la pubblicazione del nuovo pacchetto di misure
fiscali della Commissione Juncker – che da tempo si sente in dovere di
rispondere allo scandalo Lux Leaks, che ha visto il coinvolgimento
proprio del suo presidente subito dopo la sua nomina.
La proposta
di direttiva è già stata svelata dai media internazionali. Ancora una
volta la Commissione ha ceduto alle lobby e non chiederà che la tanto
attesa rendicontazione paese per paese dei bilanci delle multinazionali –
inclusi ricavi, profitti e tasse pagate in ogni giurisdizione ben oltre
gli attuali bilanci aggregati – sia pubblica e obbligatoria per ogni
impresa, europea e non e di qualsiasi taglia essa sia.
La
pubblicizzazione per tutti sarebbe il vero deterrente contro l’elusione e
non avremmo allora più bisogno dei leaks. Ma per il momento tutto
rischia di restare amaramente come prima.
* L’autore fa parte di Re:Common