il manifesto 21.4.16
Renzi liquida la minoranza Pd: non contano
Riforme. Polemica per la mancata sottoscrizione alla (inutile) richiesta di referendum della maggioranza
di A. Fab.
ROMA
La mancata firma in calce alla richiesta di referendum costituzionale,
un «gesto di cortesia» nelle intenzioni della minoranza Pd, scatena la
dura reazione del presidente del Consiglio. Che, in viaggio in Messico,
non lascia cadere l’occasione per scavare ulteriormente il solco interno
al partito di cui è segretario: «C’è una parte del Pd che fa
opposizione ormai su tutto. Bisogna prenderne atto».
Quelle della
richiesta di referendum è una vicenda minore, diventata l’occasione per
scatenare la propaganda. Alla fine si è complicato (almeno per la
comprensione dei cittadini che dovranno votare a ottobre) un passaggio
semplice e previsto da mesi. La richiesta di referendum da parte dei
deputati di maggioranza, che è arrivata ieri con 237 firme, quasi il
doppio di quelle necessarie, è in realtà un atto inutile. Il referendum
era stato già chiesto in Cassazione il giorno precedente. Dai
parlamentari di opposizione che hanno votato contro la legge di
revisione costituzionale Renzi-Boschi in ognuno dei suoi sei passaggi
alle camere, negli ultimi due anni. Prevede così l’articolo 138 della
Costituzione, che ha introdotto il referendum come strumento per opporsi
a una modifica della carta fondamentale passata in parlamento senza una
maggioranza sufficientemente ampia. Per evitare il referendum servivano
214 voti in senato. Il 20 gennaio scorso la riforma Renzi ne ha
raccolti solo 180, da allora sappiamo che ci potrà essere il referendum.
E ci sarà non perché lo vuole il governo, che non ha modo di
intromettersi in una facoltà riservata ai parlamentari, ai consigli
regionali o ai cittadini (e infatti il comitato del no a partire dalla
data simbolo del 25 aprile proverà a raccogliere le 500mila firme
necessarie). Oltretutto il governo Renzi non ha mai cercato di contenere
sotto la soglia dei due terzi i favorevoli, in modo da consentire il
referendum. Ha invece fatto l’opposto, ha richiamato alla fedeltà di
partito e ha imbarcato tutti i voti possibili compresi quelli dei
seguaci di Verdini. L’allontanamento di Forza Italia a metà del
percorso, però, ha privato la riforma dei voti che avrebbero impedito il
referendum: la conferma popolare a questo punto è un passaggio che il
governo deve subire.
La presentazione delle firme da parte dei
deputati renziani è il tentativo di rovesciare lo stato delle cose. E
trasformare il referendum in una conferma non tanto della riforma,
quanto del mandato del leader. Che infatti ha messo sul piatto di
ottobre le sue dimissioni e fa campagna elettorale «con argomenti
demagogici» evitando accuratamente il merito della legge: il
funzionamento del nuovo parlamento. «Bisogna avere il coraggio di dire
che queste riforme riguardano il numero dei politici», è la sintesi
messicana proposta ieri da Renzi, «il senato non sarà più un luogo dove
prendere gli stipendi».
D’altra parte la minoranza Pd a giorni
alterni sostiene di non aver deciso come comportarsi ad ottobre. Nelle
aule di senato e camera ha votato a favore della riforma (che altrimenti
sarebbe stata fermata). Con Cuperlo e Speranza ha posto a Renzi tre
condizioni per fare la campagna per il sì – che il referendum non sia un
plebiscito, che si cambi l’Italicum e che sia fatta la legge elettorale
per i senatori-consiglieri – tutte già cadute. Fossero davvero
minoranza, i bersaniani avrebbero potuto firmare la richiesta di
referendum tranquillamente. Ma, sentendosi evidentemente maggioranza,
hanno non firmato (non tutti) per evitare, come dice Bersani, «un’altra
sgrammaticatura». Contorsioni? «Tanto non contano», è la sintesi di
Renzi.