Corriere 21.4.16
Renzi e la giustizia, una partita difficile
di Goffredo Buccini
Superato
il referendum anti-trivelle, resta tuttavia sul cammino di Matteo Renzi
e del suo governo lo strascico dell’inchiesta di Potenza, che per
qualche settimana ha infiammato la consultazione popolare, altrimenti
incomprensibile ai più: con le intercettazioni del «quartierino» e la
generosa illusione di votare per i buoni contro i cattivi, paladini
dell’ambiente di qua e sodali dei petrolieri di là. Il problema non
attiene tanto alla sostanza penale, che potrebbe rivelarsi fumosa quanto
il reato di traffico di influenze che la genera; riguarda piuttosto
l’ombra politica che i faldoni di Tempa Rossa proiettano nel rapporto
tra poteri dello Stato. In questo senso l’inchiesta lucana si pone come
una specie di spartiacque nelle relazioni tra Renzi e i giudici. Una
questione che il premier non potrà eludere troppo a lungo, nemmeno
volendolo.
Renzi s’è risentito, e molto, nei giorni più caldi che
hanno preceduto il referendum di domenica 17, per quelle che gli sono
apparse irruzioni dei magistrati nell’iter legislativo: è, infatti, la
legge di Stabilità che ha sbloccato la protratta paralisi dell’impianto
lucano e proprio su un suo emendamento hanno messo gli occhi i pm,
provocando l’ira renziana con l’audizione da teste di Maria Elena Boschi
che, in quanto ministro per i rapporti col Parlamento, accompagnava
quell’iter.
Il premier pareva propenso al contropiede («in
Basilicata le inchieste sul petrolio si fanno ogni quattro anni, come le
Olimpiadi. Non si è mai arrivati a sentenza!») politicizzando a sua
volta il referendum sulle trivelle e l’inchiesta stessa. Un’occhiata al
calendario deve averlo indotto a cambiare toni: le amministrative di
giugno — con il rischio di perdere a Roma, Milano e Napoli — ma
soprattutto il referendum istituzionale di ottobre, al quale Renzi ha
legato la propria sopravvivenza politica, non sono appuntamenti da
affrontare avendo in corso uno scontro con la magistratura, specie se
questa ha deciso di affidare il proprio organismo di rappresentanza,
l’Anm, a un giudice famoso e affilato nel dibattito come Piercamillo
Davigo, l’antico dottor Sottile di Mani pulite. Dunque il premier ha
frenato, assicurato che non meditava interventi a gamba tesa sulle
intercettazioni, sostenuto che voleva solo incitare i magistrati a
celebrare processi veloci. Ma in queste ore è tornato a picchiare sulla
«barbarie giustizialista», quasi d’impeto. Il tema è delicato e
controverso. Del resto il reato di traffico di influenze — che può fare
da innesco a uno scontro di più vasta portata — fu una fattispecie
sponsorizzata dal Pd bersaniano quattro anni fa, al tempo della
Severino, e non è certo semplice sconfessarlo ora. Esiste in tutta
Europa, dove però è normalmente disciplinata l’attività di lobbying : il
che traccia un confine tra il lobbismo lecito e la pressione illecita
da noi inesistente. Questo vuoto nel nostro ordinamento assieme alla
peculiarità del rapporto politica-giustizia in Italia, fa sì che, nella
malaugurata assenza di un attento lavoro di vaglio, il traffico di
influenze diventi un reato omnibus, su cui caricare tutto e il contrario
di tutto, riempiendo i faldoni di intercettazioni irrilevanti
penalmente ma dal forte contenuto di contesto e dunque micidiali
all’approssimarsi di qualsiasi appuntamento politico. Chi ha capito
davvero di cosa è accusato Ivan Lo Bello, icona dell’antimafia
siciliana? Anonimi a parte, in quali parole si coglie la responsabilità
penale dell’ammiraglio De Giorgi, artefice dell’operazione Mare Nostrum?
Dove arriva il lecito dialogo tra soggetti pubblici o privati e
comincia il lavorìo del faccendiere?
Le intercettazioni, su cui il
presidente Napolitano ha riaperto il dibattito, potrebbero dunque
essere (magari accompagnandole alla attesa revisione dei termini di
prescrizione dei reati) il primo passo d’un percorso quasi obbligato:
solo il primo, se i pezzi sulla scacchiera sono questi. Con una domanda
inevitabile: quale riformismo immagina Renzi sulla giustizia?
Il
presidente del Consiglio è stretto tra la necessità di non sembrare «un
altro Berlusconi» evitando così il cementarsi di una nuova Santa
Alleanza ventennale simile a quella contro il Cavaliere (Massimo
Cacciari di recente ne evidenziava giustamente i rischi, in primis la
paralisi del Paese) e il bisogno di proteggere provvedimenti di sviluppo
come lo Sblocca Italia o la ripresa delle grandi opere da iniziative
giudiziarie talvolta così elastiche da coprire nei faldoni grandi
distanze geografiche e logiche (si pensi al salto tra l’inquinamento
ambientale di Viggiano e le telefonate per il porto di Augusta).
Difficile non pronosticargli un anno accidentato, da qui alla primavera
del 2017 nella quale, secondo molti, potrebbero collocarsi elezioni
politiche anticipate. Semmai ne nascesse un esecutivo infine forte,
starebbe quasi nelle leggi della fisica l’urto con la magistratura che,
essendo stata chiamata per oltre vent’anni alla supplenza di una
politica debole e ricattabile, potrebbe trovare innaturale qualsiasi
passo indietro.
Perciò l’indagine di Potenza, con le sue
suggestioni e le sue velleità «sistemiche», è assai diversa
dall’inchiesta sulla Banca dell’Etruria, concretamente per tabulas , e
assume il contorno di una profezia. Se Renzi avrà modo di proiettarsi in
una strategia di medio periodo, pur tenendosi lontano da guerre di
religione con le toghe (le direttive di procuratori saggi come Pignatone
e Spataro in questo lo aiuterebbero) difficilmente potrà scansare il
nodo della giustizia: quello vero. Che potrebbe portare con sé persino
scelte gravi e complesse come una reale separazione delle carriere, la
riforma del Csm e la discrezionalità dell’azione penale. Scogli su cui,
solo a parlarne, più d’uno prima di lui s’è arenato.