il manifesto 21.4.16
Il pericolo di scrivere
Reporters
sans Frontieres. L’Italia scivola di altre quattro posizioni in fondo
alla classifica sulla libertà di stampa. Al 77esimo posto su 180 per le
intimidazioni, minacce e querele subite dai giornalisti
di Gilda Maussier
«Il
livello di violenza contro i giornalisti (comprese intimidazioni
verbali e fisiche, e minacce di morte) è allarmante»: no, non è la Corea
del sud, non è la Georgia, né il Lesotho, la Bosnia Herzegovina o il
Nicaragua. E neppure la Moldova. Tutti Paesi che precedono il nostro,
nell’annuale classifica sulla libertà di stampa, considerati un po’ più
sicuri per chi fa il mestiere di cronista. Gli analisti di Reporters
sans frontières (Rsf) parlano così invece dell’Italia, che perde quattro
posizioni anche quest’anno, scivolando dal 73esimo posto del 2015 al
77esimo. Sebbene non sia il tracollo dell’anno scorso, quando rispetto
al 2014 Roma aveva perso 24 postazioni in un sol colpo, la ong con sede a
Parigi motiva però il pessimo ranking già con il titolo del dossier che
ci riguarda: «Sotto scorta della polizia».
«Le minacce mafiose
sono ricorrenti», contro i giornalisti italiani. Gli autori di
«inchieste sulla corruzione o sul crimine organizzato sono i primi a
finire nel mirino». Tanto che «da 30 a 50 giornalisti sono sotto
protezione dopo minacce pronunciate nei loro confronti», scrive Rsf
riportando notizie uscite sui quotidiani italiani. E ancora: un motivo
particolare di preoccupazione è destato dal sistema giudiziario del
Vaticano che «attacca la stampa, nel contesto degli scandali Vatileaks e
Vatileaks 2. Due giornalisti – ricorda il report annuale francese –
rischiano 8 anni di carcere per la pubblicazione di libri che rivelano
il malaffare della Santa Sede». Questa volta – differentemente dal 2015
quando l’Italia precipitò dal 49esimo al 73esimo posto della classifica
stilata prendendo in considerazione pluralismo, indipendenza dei media,
ambiente generale e autocensura, quadro legislativo, trasparenza e
infrastrutture – Rsf non menziona nel suo rapporto la concentrazione dei
media e la pressione del potere sui giornalisti italiani.
Una
problematica che invece viene evidenziata per motivare la 45esima
postazione della Francia dove «un pugno di uomini d’affari con interessi
estranei al mondo dei media possiedono la maggior parte delle testate
private nazionali». In Gran Bretagna (38esima) i problemi sono simili ai
nostri, secondo gli osservatori internazionali: contro i cronisti
britannici infatti «la polizia ricorre al Regulation of investigatory
Powers Act per tentare di violare il segreto delle fonti», mentre in
Italia «si moltiplicano le irruzioni di polizia con lo stesso
obiettivo».
L’Europa però, nel suo insieme, detiene il primato di
continente dove la libertà di stampa è più tutelata, malgrado le leggi
speciali contro il terrorismo rischiano di comprometterne il modello
virtuoso. In cima alla classifica che viene stilata dal 2002 si trovano
la Finlandia (in testa per il sesto anno consecutivo), l’Olanda (che
guadagna due posizioni rispetto all’anno scorso), la Norvegia (indietro
di un posto), la Danimarca (retrocede anch’essa di una postazione) e la
Nuova Zelanda (che avanza di un gradino). In fondo, su 180 Paesi presi
in considerazione, rimangono Sudan, Vietnam, Cina, Siria, Turkmenistan,
Corea del Nord e – ultima – Eritrea. Al netto del Medio Oriente, che è
posto decisamente out per i cronisti e dell’Egitto (al 159esimo posto),
che è surclassato perfino dall’Iraq, l’Africa però per la prima volta
supera l’America latina. Ma è solo per colpa del clima che si vive in
Paesi come Venezuela, Honduras, Colombia ed Ecuador. Al contrario,
particolare menzione merita la Tunisia (96esima), che guadagna 30 posti
per «il consolidamento degli effetti positivi della rivoluzione», e si
conferma il più libero – almeno per i media – tra i Paesi arabi.
Se
continua così, tra otto mesi la Tunisia potrebbe superare l’Italia.
D’altronde, nemmeno l’Fnsi è sorpresa dal pessimo risultato italiano e
anzi denuncia problemi nell’«organizzazione complessiva di tutto il
sistema» mediatico. Da noi, ricorda in una nota il segretario generale,
Raffaele Lorusso, «vige ancora l’articolo 595 del codice penale che
prevede il carcere per i giornalisti, anche se da anni si parla di
intervenire: non aiuta certo in una classifica sulla libertà di stampa».
Non solo: «Si va dall’assenza di normative antitrust ai meccanismi di
nomina della governance dell’ente radiotelevisivo di Stato, che resta
legato all’esecutivo in carica». E infine la questione urgente delle
«querele temerarie spesso usate a scopo intimidatorio, tema che non è
stato ancora affrontato». «C’è un dibattito, è stato fatto un primo
passo con l’emendamento approvato nell’ambito della proposta di legge di
riforma del processo civile -ricorda Lorusso -, ma non ancora un
provvedimento definitivo e siamo lontani dalle linee guida auspicate
dall’Europa, secondo le quali la querela intimidatoria deve portare, in
caso di sconfitta del querelante, non solo al pagamento delle spese
processuali ma anche a sanzioni proporzionali all’entità del
risarcimento richiesto con la querela».