il manifesto 20.4.16
Pd e referendum, soluzione al 27%
Referendum.
In tutti gli elettorati molti di quelli che votano alle politiche non
vota ai referendum, questo 27% di elettori del Pd, orientato a votare,
non ascolta Renzi
di Aldo Carra
Gli elettori
italiani, malgrado le tante delusioni, sono sempre più concreti e seri
di tanti loro rappresentanti. Anche questa volta la mia impressione è
che chi era informato è andato a votare e che lo abbia fatto più per i
contenuti del referendum che per motivazioni politiche generali o per
seguire indicazioni di partiti ai quali sempre meno persone credono.
Parto
da una constatazione: la percentuale di votanti di oggi, 32%, è
perfettamente identica a quella dei sette referendum abrogativi del 2000
(tra il 31.9% ed il 32,5%). Per capire se il risultato debba essere
interpretato come una vittoria o una sconfitta è opportuno ricordare
alcune peculiarità. Ci sono, infatti, più che nelle occasioni
precedenti, molti fattori che hanno agito nella direzione di una minore
affluenza.
Vediamone i principali: 1)- in tutti in sondaggi
dell’ultimo anno la somma di indecisi ed astenuti si è stabilizzata
ormai intorno al 50%. 2)- questo referendum non è nato da una raccolta
di firme con i tavolini dei promotori alcuni mesi prima. E’ stato
richiesto da alcune regioni, istituzioni che non vivono di grande
prestigio tra la gente ed il suo svolgimento è stato incerto fino
all’ultimo.
3)- il quesito sul quale si è votato è l’unico rimasto
dei sei di partenza perché cinque sono stati risolti depotenziando
quello che restava; 4- il quesito rimasto riguardava un tema poco legato
ad effetti visibili ed immediati ed interessava più “direttamente” solo
alcune aree che lo hanno promosso (non a caso la percentuale di votanti
dell’area adriatica è stata superiore di quasi dieci punti rispetto a
quella delle altre regioni); 5- il connotato ambientalista che lo ha
caratterizzato ha riproposto un tema divisivo come quello della
contrapposizione ambiente-lavoro abilmente sfruttato e che ha diviso
anche il sindacato; 6- l’informazione di merito avrebbe dovuto essere,
proprio per la complessità detta, più ampia di quella registrata nelle
precedenti occasioni; è stata, al contrario, molto più bassa.
Considerando
l’insieme di questi aspetti, che sedici milioni di elettori siano
andati a votare ed oltre tredici milioni abbiano votato Si è un fatto di
non poco conto. Certamente i comportamenti elettorali sono stati
influenzati dalle appartenenze politiche, ma solo in minima parte.
Stando alle indagini sulle intenzioni di voto degli elettori dei singoli
partiti avrebbero votato la metà degli elettori del M5S e della
Sinistra Italiana, il 27% degli elettori di destra, ed, udite, udite, il
27% degli elettori del Pd. Poiché in tutti gli elettorati una parte
consistente degli elettori che votano alle politiche non va a votare ai
referendum questo 27%, orientato a votare, fa pensare che gli obbedienti
a Renzi siano stati non molti di più di quelli disobbedienti.
Detto
questo, però, non possiamo non vedere l’altra faccia della medaglia. Il
mancato raggiungimento del quorum lo rende non valido e per chi puntava
al suo fallimento è una vittoria perché quello che conta è il messaggio
sintetico arrivato al paese. Il premier che non deve perdere mai non ha
perso un minuto per cantare vittoria – a nome addirittura dei
lavoratori che hanno salvato il loro lavoro – e questo messaggio ha
offuscato tutte le altre interpretazioni apparse come le solite parole,
rabbiose, di chi ha perso, ma non vuole ammetterlo.
Vincere,
quindi, è stato facile. Ma diciamocelo: Renzi è un grande maestro nel
giocare solo le partite che sa di vincere prima di giocarle. La sua
carriera politica si è tutta snodata su questo principio di “buona”
politica: scegliere il terreno di gioco (ha fatto decadere gli altri
quesiti referendari tranne questo), assegnare i ruoli anche agli
avversari (il governo per la difesa del lavoro nelle piattaforme, gli
altri contro), scegliere il momento (non accorpamento con le
amministrative).
La carriera del leader ha avuto un iter con tutti
i passaggi tipici di un percorso professionale, ma ogni tappa è
contrassegnata da una scelta: utilizzare lo scalino già raggiunto per
preparare il balzo a quello successivo e farlo solo nel momento in cui
si sono create le condizioni della vittoria sicura. Così è stato con la
scalata al partito, poi con quella al governo, adesso col referendum. E,
nel cronoprogramma, così dovrebbe essere col prossimo referendum
costituzionale.
Ogni tanto opinionisti vari si cimentano col
confronto Craxi – Berlusconi – Renzi. Ed in questa occasione il
confronto era facile, il “non votare” di Renzi troppo simile al “tutti
al mare” di Craxi.
I tre personaggi sono fortemente diversi per
storia, cultura politica, personalità. Ma se le persone sono diverse, le
politiche che essi rappresentano appartengono allo stesso ceppo e sono
in perfetta continuità. Craxismo, berlusconismo, renzismo sono tre tempi
della stessa politica, quella affermatasi come reazione alle conquiste
nei diritti e nella distribuzione del reddito dei trent’anni seguiti al
dopoguerra che nei paesi guida ha assunto le vesti della Thatcher e di
Reagan ed in Italia quelle più italiote di Berlusconi.
Adesso il
ciclo è al suo culmine: simbolicamente Craxi lo aprì con l’abolizione
della scala mobile, Renzi lo conclude con quella dell’articolo 18. Ma a
questo punto Renzi ha già compiuto un passo avanti perché dai
predecessori ha imparato una cosa: se non si vogliono subire i
contraccolpi delle politiche fatte che ne hanno segnato la sconfitta,
occorre assicurarsi un potere assoluto di governo. Su questo punto i
predecessori ci hanno provato senza riuscirci dovendo fare i conti con
l’opposizione del Pci ed eredi. Renzi, perciò, ha prima conquistato gli
eredi e subito dopo, con la riforma costituzionale e con l’Italicum, ha
piantato i pilastri del potere assoluto di governo.
Così egli ha
già segnato due punti a suo favore e col Si ad ottobre, avendo già
incassato la legge elettorale, vuole garantirsi il potere per i prossimi
cinque anni (solo gli ingenui possono credere che se vincerà il
prossimo referendum resisterà alla tentazione di saltare i congresso del
partito e di portarci alle elezioni). Proprio per questo egli ha
caricato di significato il referendum e sta già preparando il passaggio
al gradino successivo, il prossimo referendum costituzionale, saltando
non ha caso le amministrative perché in questo caso la vittoria non è
facile.
A sinistra, adesso, si pongono, alla luce del referendum
svolto, problemi decisivi e non rinviabili. Li elenco solamente sperando
che su di essi si possa sviluppare un ampio confronto: in queste
elezioni amministrative è determinante che la linea Renzi venga
sconfitta; il prossimo referendum non nasce da una processo partecipato
di raccolta firme, dobbiamo farlo vivere tra le persone nei contenuti e
chiedere, con i radicali, che i quesiti vengano disaggregati per
impedire il referendum su Renzi Si o Renzi No; dobbiamo trovare il modo
di modificare al più presto la legge elettorale prima dello svolgimento
del referendum; la sinistra Pd in questi mesi si gioca il suo futuro e
determinerà quello del paese: occorre allora che essa agisca alla luce
del sole sul referendum ed occorre, nel concreto delle scelte da fare,
costruire una relazione tra tutte le forze che vogliono contrastare la
deriva renziana prima che sia troppo tardi per arrestarla.