il manifesto 15.4.16
L’incanto spezzato della dialettica
«Hegel
e Spinoza» è il saggio di Pierre Macherey scritto intorno
all’operazione compiuta da Hegel tesa a neutralizzare l’anomalia
rappresentata dal filosofo olandese. Un esempio di limpida battaglia
politica condotta attraverso un rigoroso lessico filosofico
di Giso Amendola
Crea
uno strano effetto avere oggi a disposizione in traduzione, grazie alla
preziosa cura editoriale di Emilia Marra, un libro importante come
l’Hegel ou Spinoza di Pierre Macherey, uscito nel 1979, quasi come
ultimo frutto di lotte teoriche le cui coordinate sono oggi decisamente
inattuali (Hegel o Spinoza, ombre corte, euro 19). Ma un testo
teoricamente densissimo continua evidentemente a porre questioni, anche
se probabilmente in direzioni molto diverse da quelle all’interno delle
quali era nato.
Nella premessa all’edizione italiana, Macherey
indica subito al lettore questo sfasamento temporale, almeno dal punto
di vista del clima generale dell’epoca: scritto quando la trasformazione
radicale dell’esistente sembrava ancora un ovvio terreno di impegno per
la teoria, il libro incontra oggi lettori per cui la rivoluzione non
sembra essere all’ordine del giorno, o, almeno, non allo stesso modo. E
certo questo cambia il tipo di lettura che il testo riceve.
Probabilmente, però, non si tratta solo della temperatura più o meno
calda dell’epoca, parametro poi sempre piuttosto discutibile. Quello che
davvero fa la differenza, è il fatto che il libro è concepito quasi
come una mossa strategica compiuta all’interno di una serie di battaglie
filosofiche molto precise.
La forza dell’astrazione
Ricostruiamo
allora il campo in cui Hegel o Spinoza si collocava: Macherey veniva
dal lavoro in comune con Louis Althusser che aveva portato al Lire le
Capital, e alcune questioni lì aperte si andavano riproponendo e
radicalizzando. Soprattutto, rimane in primo piano l’obiettivo
principale di portare la «lotta di classe nella teoria», stabilendo un
nuovo rapporto tra pratica teorica e pratica politica. Su questo
versante, il testo di Macherey è un esempio magistrale di lotta «dentro»
la filosofia: una modalità di affrontare i grandi classici calandoli in
un preciso campo di battaglia teorico.
Leggere i testi per quello
che dicono e per quello che non dicono, nei loro buchi, nei loro
silenzi e nei loro errori, secondo un altro evidente apporto
althusseriano, quello della lettura «sintomatica»: in questo, l’incrocio
delle interpretazioni, l’inseguimento delle forzature e dei veri e
propri imbrogli che Hegel gioca con il testo spinoziano, offrono
un’immagine affascinante di lotta nella teoria. Certo, il prezzo da
pagare è un apparente retrocedere della storia sullo sfondo: ma proprio
la forza dell’astrazione mette in luce l’importanza cruciale di queste
battaglie concettuali.
E la posta in gioco in realtà è altissima, e
politicamente assai concreta: anch’essa legata evidentemente a un
preciso snodo del progetto althusseriano. Si tratta di far saltare tutto
quel che aveva sempre ricondotto ad una sintesi pacificata il conflitto
dialettico, tutto quanto aveva trasportato la dialettica nei cieli
dell’«Assoluto» idealistico, eliminando proprio quel «negativo» motore
del processo e relegandolo ad una semplice «stazione» della riconquista
del perfetto coincidere dell’origine con se stessa. L’obiettivo
fondamentale è farla finita con il finalismo già iscritto da sempre
nella dialettica idealistica: solo liberando la storia dalla teleologia
si libererà il pensiero dall’incantesimo idealistico e lo restituirà
alla lotta di classe.
In gioco, ovviamente, c’era la separazione
di Marx da Hegel, dalla filosofia della storia, dalla dialettica
idealistica, e la rivendicazione del Marx del «Capitale», il passaggio a
una dialettica materialista, la rottura con lo storicismo. La perfetta
macchina filologica, ma nel segno di una filologia che funziona come
arma di lotta, messa a punto da Macherey con questo testo, si inserisce
in uno snodo successivo di questa battaglia: quando la rivendicazione
althusseriana del Marx maturo contro il Marx «idealista» incontrerà
finalmente lo spinozismo. Per la riflessione ultima di Althusser, è la
scoperta della corrente sotterranea del materialismo aleatorio e
dell’atomismo: nel testo di Macherey, questa conquista si traduce
nell’immagine di uno Spinoza che offre una resistenza anticipata al
rapimento idealistico della dialettica operato da Hegel.
Discesa verso l’evanescenza
Hegel
non può evitare la forza di questa resistenza, l’unica a portare la
sfida direttamente all’origine, al problema del cominciamento
filosofico, o, in termini hegeliani, del fondamento. E proprio perché
non può ignorare la resistenza di Spinoza, deve falsificarla, occultarne
i passaggi critici, inventarne di sana pianta altri.
Nasce così
la fin troppo celebre immagine dello Spinoza «orientale»: la sostanza
spinoziana è rappresentata come un assoluto senza capacità di
articolazione, «una rigida immobilità», come Hegel scrive nelle Lezioni
sulla storia della filosofia, «la cui unica operazione è di spogliare
ogni cosa dalla sua determinazione, della sua particolarità, e
ricacciarla nell’unica sostanza assoluta, dove non fa che dileguarsi».
Ma, per sostenere questa famigerata tesi sull’«acosmismo» spinoziano,
Hegel deve forzare all’inverosimile il sistema, e Macherey, fedele al
metodo della lettura sintomatica, illustra gli «errori» palesi che deve
commettere.
Così, Hegel costretto a rappresentare il processo di
espressione della sostanza negli attributi e nei modi come un processo
di progressiva degradazione, fin quasi a farne una sorta di «discesa»
neoplatonica verso l’evanescenza, verso il caos di una finitudine
abbandonata a una negatività senza possibilità di ritorno e di riscatto.
O più precisamente: proprio perché gli attributi restano «esterni» alla
sostanza, si riducono a una sorta di semplici punti di vista formali
sulla sostanza stessa. A una sostanza chiusa nel suo assoluto
isolamento, corrisponderebbe allora un’opposizione formale e astratta di
realtà e pensiero. Il monismo di Spinoza, secondo Hegel, si
rovescerebbe così nell’accettazione del dualismo di Cartesio. È quella
che, con grande efficacia, Macherey definisce come «interpretazione
negativista» di Spinoza.
Tutto è però troppo lineare in questo
Spinoza hegeliano: a partire dalla «processione» dalla sostanza agli
attributi che si presenta come un rapporto discendente e privativo
dall’assoluto ad una realtà umbratile che si «determina» solo per
separazione e negazione. Ma per costruire quest’immagine tutta ricalcata
sulla caduta, Hegel deve cancellare ogni dismisura del pensiero
spinoziano: deve cioè letteralmente far fuori ogni riferimento al
conatus.
Proprio attraverso il conatus, la sostanza come potenza è
e resta tutta presente in ciascuno dei modi, la determinazione qui è
tutta nell’affermazione della potenza, ben lungi dall’immagine
evanescente del «negativismo» dell’interpretazione hegeliana. Ma per il
conatus non può esservi posto nella lettura di Hegel, proprio perché non
può esservi posto per l’affermazione.
La negazione assoluta
La
determinazione affermativa, la potenza del conatus, costituiscono
appunto il vero nucleo forte della resistenza anticipata alla
riconciliazione dialettica verso cui muove Hegel: è invece la negazione
assoluta, la «negazione della negazione» che dovrebbe, per Hegel,
salvare la realtà dallo scivolare verso il nulla. Sono negando
dialetticamente se stessa, la realtà assume autentica consistenza. O, in
altri termini: la sostanza acquista movimento e si salva dal decadere a
fantasma solo se, autonegandosi, ritorna a sé come Soggetto. È la
trappola hegeliana: occultare l’affermazione, la positività, l’immanenza
tra ordine del finito e ordine dell’infinito, insomma tutta la vera
lezione spinoziana, per affermare la dialettica idealistica del
«Soggetto» quale negazione della negazione.
La sostanza è
soggetto, esiste solo in quanto coscienza di sé, solo in quanto tutta
finalisticamente già orientata al movimento verso la coscienza: ed è
proprio tutto questo che Spinoza rifiuta in anticipo. Non c’è negazione
della negazione, e non c’è soggetto, il quale, scrive significativamente
Macherey, è solo un altro nome della negazione che ritorna su di sé.
Non c’è, per Spinoza, nessuna necessità che la sostanza si muova verso
il soggetto. La vita della sostanza si esprime fuori dall’orientamento
teleologico alla coscienza o al soggetto: «applicando la nozione di
conatus alle essenze singolari, Spinoza elimina la concezione di un
soggetto intenzionale, che non è appropriato né per rappresentare
l’infinità assoluta della sostanza, né per comprendere come essa si
esprima nelle determinazioni finite». Questo non significa – può
concludere Macherey – che non vi sia dialettica. Si apre, anzi, la
possibilità di una dialettica materialista: nessun finalismo, nessuna
contraddizione autorisolventesi, ma lotta aperta tra forze e tendenze,
senza nessuna conclusione garantita.
Le determinazioni finite
La
dialettica idealistica è finalmente spezzata: una rottura che avviene,
in questa impresa potentemente liberatoria messa in piedi da Macherey,
nel segno di una felice conquista di una dinamica aperta, aleatoria,
secondo il tracciato di Althusser.
Letto oggi il libro apre altri
interrogativi, percorsi diversi. La distruzione della teleologia è
sacrosanta: ma il conatus delle esistenze singolari ci parla non solo
dell’incontro/scontro di forze e tendenze, ma in modo sempre più marcato
dell’apertura del campo della produzione di soggettività. Oltre il
Soggetto, senza nostalgia per la «coscienza di sé», ma anche oltre quel
«processo senza soggetto» attorno al quale sembra ancora girare la pur
straordinaria macchina montata da Macherey.
Macherey si tiene,
infatti, piuttosto lontano dallo spingere la resistenza spinoziana su
strade pienamente affermative e produttive: costruisce, per esempio, un
gioco di specchi, un po’ troppo scopertamente simmetrico, tra
l’interpretazione «negativista» hegeliana e quella «positivista» di
Deleuze, per rigettarle simultaneamente. Ma il libro, appunto, arrivò
come ultimo frutto di uno straordinario tentativo di liberarsi dalla
cattiva dialettica, dall’orrore di un marxismo sequestrato dal
«Dia-Mat». Oggi, per un verso, i morti hanno seppellito i morti, e
possiamo finalmente occuparci d’altro. E, per altro verso, è lo stesso
dispiegarsi della sussunzione reale, è lo stesso capitalismo
contemporaneo che mobilita e attraversa la produzione di soggettività e
sfrutta direttamente la cooperazione sociale. Rotto ogni incanto
finalistico e dialettico, è quindi proprio nel cuore di un’ontologia
produttiva che ci troviamo già completamente collocati. Lo Spinoza della
dialettica materialista e dell’aleatorio ci liberò dagli incubi
peggiori, e aprì lo spazio del conflitto e della lotta senza false
promesse per l’indomani e catture dialettiche: lo Spinoza della gioia
della produzione e della pienezza ontologica ci può accompagnare a
riappropriarci di autonomia e di democrazia assoluta nell’oggi.