il manifesto 14.4.16
Quando il consumo è senza rivalità
Si
apre domani a Roma l’incontro «L’emergenza nascosta: archivi,
biblioteche e il futuro della ricerca in Italia». Un estratto
dell’intervento sul tema «Fotografie libere per i beni culturali»
di Mirco Modolo
L’attuale
discussione pubblica sulla fotografia ha una data di nascita precisa:
il 1° giugno 2014, giorno in cui è uscito il decreto «Art Bonus» che
sanciva la libera riproduzione a distanza e per finalità culturali, di
tutti i beni culturali. Una libertà da leggersi come gratuità ed
esenzione da qualsiasi autorizzazione preventiva, che non faceva altro
che attuare un principio in realtà scontatissimo, quello della
appartenenza dei beni culturali all’intera collettività.
La
liberalizzazione fu accolta con entusiasmo anche dagli studiosi in
archivi e biblioteche che furono liberi di fotografare ciò che
consultavano. Una libertà tuttavia di breve durata, azzoppata, appena un
mese dopo, da un emendamento restrittivo che ha escluso dalla
liberalizzazione i beni bibliografici e archivistici, quindi archivi e
biblioteche determinando per di più un disallineamento paradossale:
mentre al turista è ora concessa libertà di selfie nei musei, lo
studioso impegnato nella ricerca in archivi e biblioteche tornava a
pagare per fare fotografie.
È così tornata l’odiata tariffa per le
fotografie scattate con il mezzo digitale personale negli istituti che
permettono l’uso della macchina fotografica, oppure, nei casi meno
fortunati divieto assoluto di ricorrere al mezzo proprio, con l’obbligo
di rivolgersi, a pagamento, alla ditta esterna di riproduzioni. Un vero e
proprio «bazaar» con mille varianti locali: all’archivio di Napoli
l’utente è invitato a recarsi in posta per pagare il bollettino postale,
mentre a Venezia si è pensato di aggiungere alla tariffa di
riproduzione con mezzo proprio il noleggio obbligatorio di una
sala-riproduzioni a 10 euro l’ora.
Se poi malauguratamente si
decidesse di pubblicare la foto in un libro o in una rivista scientifica
occorre munirsi di carta da bollo, scrivere una lettera e attendere
l’autorizzazione che può arrivare anche dopo mesi. La pubblicazione
editoriale è un lucro per l’editore (anche se poi a pagare è solo
l’autore) e dunque la foto non può essere divulgata liberamente. Tutto
questo accade quando, da circa un anno, i più grandi istituti culturali
europei, come la British Library o la Bnf, hanno aperto le porte alle
fotocamere degli studiosi.
Il peso della ricerca
Le ragioni
di una simile retromarcia si rinvengono in presunte preoccupazioni per
la tutela del bene. Non si vede per quale ragione, tuttavia, utenti già
abilitati a manipolare documenti fragilissimi non possano fotografare, a
distanza, la documentazione che giunge loro sui tavoli in
consultazione, come già avviene ormai da tempo negli archivi francesi.
La
seconda obiezione, di carattere economico, contesta la gratuità della
riproduzione, ma chi si pone il problema del «danno erariale» per l’ente
pubblico, forse non si interroga abbastanza sul danno culturale che un
simile atteggiamento può provocare. Prima ancora di concepire tariffe
che inevitabilmente gravano sulla ricerca, semmai sarebbe utile
ricercare altrove le risorse, per esempio in una seria opera di
razionalizzazione della spesa, oggi più che mai urgente se si pensa che
quasi i quattro quinti dei finanziamenti annuali agli archivi sono spesi
per l’affitto delle sedi degli stabili che ospitano gli archivi di
Stato.
In risposta all’esclusione dei beni bibliografici e dei
beni archivistici dalla liberalizzazione tra gli studiosi è nato il
movimento «Fotografie libere per i Beni Culturali» (di cui l’appello è
apparso qui, insieme all’intervista con Carlo Federici), che chiede di
estendere nuovamente la libera riproduzione agli archivi e alle
biblioteche, allo scopo di promuovere la ricerca storica, e dunque
semplicemente dando seguito a quanto dispone l’art. 9 della
Costituzione: si pensi agli enormi vantaggi per chi è costretto a
raggiungere archivi lontani dalla propria sede, oppure a chi svolgendo
anche altre attività ha solo poco tempo da dedicare alla ricerca, o alla
possibilità di verifica delle trascrizioni.
Sono state raccolte
più di 4500 sottoscrizioni di studiosi, docenti di ogni disciplina
umanistica e persino funzionari del ministero. Il movimento propone
oltre alla libera riproduzione con mezzo proprio in archivi e
biblioteche, di sostituire la richiesta formale di «concessione di
pubblicazione» in carta bollata con una semplice comunicazione per via
telematica dell’intenzione di pubblicare all’istituto detentore del
bene.
Una distinzione che non è formale, ma di sostanza:
comunicare una intenzione in luogo del chiedere un permesso è un modo
per ribadire che i beni culturali sono di tutti.
Tutto questo è
oggi impossibile perché l’Art Bonus stabilisce la libertà di fotografia
solo per fini culturali, e non di lucro. Si chiede allora di contemplare
una «eccezione culturale» per una attività, come l’editoria scientifica
che, pur essendo a rigore a fine di lucro, persegue anche importanti
finalità culturali; la pubblicazione dovrebbe essere infatti lo sbocco
naturale di ogni ricerca. Sulla base di queste premesse è stata allora
proposta una nuova formulazione dell’art. 108 del «Codice dei Beni
Culturali» che ha già dato vita a due disegni di legge di iniziativa
parlamentare e a una interrogazione parlamentare, cui il ministero ha
risposto positivamente a dicembre dichiarando di essere pronto a mettere
mano al problema.
Beni immateriali
Non si può ignorare
tuttavia che una simile proposta rischia oggi di apparire tutt’altro che
rivoluzionaria se confrontata con le più recenti esperienze nell’ambito
del libero riuso dell’immagine di beni culturali. Negli ultimissimi
anni alcuni dei più importanti musei e biblioteche in Europa e in Nord
America, hanno infatti autorizzato il libero riuso delle immagini
digitalizzate in rete delle proprie collezioni per qualsiasi tipo di
riutilizzo, persino commerciale, favorendo al massimo grado la
diffusione, il riuso e la condivisione delle fotografie.
In altre
parole si è compreso che il bene culturale digitalizzato è un bene
immateriali a consumo «non rivale», nel senso che il consumo da parte di
qualcuno non riduce la disponibilità per altri. Il valore del digitale
quindi risiede nella sua capacità di disseminare il sapere, e non nella
sua conservazione statica.
Il progresso digitale e le sterminate
possibilità di comunicazione offerte dal web ci spingono ad andare oltre
la frontiera della fruizione passiva per favorire il riuso e la
condivisione dell’informazione generata dal bene culturale, superando il
tabù ideologico del lucro, con tutte le limitazioni normative che esso
oggi comporta. Del resto, è risaputo: dalla riscossione di diritti
proprietari sulle riproduzioni lo Stato e gli enti locali hanno ben poco
da guadagnare, la collettività e il nostro patrimonio, invece, molto da
perderci. Alcuni dei più grandi istituti al mondo ci stanno indicando
una nuova prospettiva, e dunque, se è vero che presto si rimetterà mano
all’art. 108 per liberalizzare la foto in archivi e biblioteche, sarà
l’occasione per rivedere le norme sul riuso.
Sta a noi scegliere
se accettare la sfida o perdere l’ennesima occasione per innovare,
laddove «innovazione» è per definizione «riuso» creativo di idee
precedenti.