il manifesto 12.4.16
Bernie e Hillary, due Americhe diverse
Primarie
Usa. Bernie ha quell’energia che raramente abbiamo visto nella politica
newyorkese, e che fa sì che a migliaia vengano a un comizio in risposta
a una convocazione via email
di Guido Moltedo
Con
i suoi 14 delegati alla convention di Filadelfia, il Wyoming è un
moscerino al confronto con lo stato di New York, che ne conta 247. Il
prossimo dove si terranno le elezioni primarie. Ma anche al confronto di
stati popolosi come la Pennsylvania, il Maryland, il New Jersey e la
California. Eppure l’ultimo successo di Bernie Sanders nello stato del
nordovest, sabato scorso, ha un forte significato politico, che
trascende i numeri. Ovviamente sono importanti, i numeri, e alla fine
decisivi, ma non sono tutto, specie in queste presidenziali
statunitensi.
Quella in Wyoming è l’ottava vittoria di Sanders
nelle ultime nove competizioni. È un bottino che consente al senatore
del Vermont di proseguire la sua campagna fino in fondo. Fosse andata
diversamente, anche se non avremmo assistito a un suo ritiro dalla
corsa, il proseguimento della sfida con Hillary avrebbe assunto il
sapore di un incaponimento politico, che sarebbe stato perfino letto
come un favore reso ai nemici repubblicani. Ora il prosieguo del duello
con l’ex-segretario di stato è ancora quello che è stato fin
dall’inizio. Una competizione tra due visioni. Tra due concezioni
alternative del Partito democratico. E tra due storie personali e
politiche che raccontano due Americhe diverse.
Il successo di
Bernie Sanders può anche legittimamente essere «letto» come la nobile ma
improduttiva testimonianza di un vecchio leone della sinistra in una
competizione della quale è già noto il nome del vincitore. Un visionario
sostenuto dall’entusiasmo contro la forza dei soldi e
dell’organizzazione di una rivale dal nome forte e conosciuto.
Questa
«lettura» è sostenuta dai numeri, ma anche da dati politici rilevanti.
Si pensi alla prossima battaglia, a New York. I sondaggi danno Clinton
al 53%, Sanders al 37. Gli africani americani dello stato sono al 61%
con Hillary, al 29 con Bernie. Il governatore Andrew Cuomo sostiene
Hillary. Così il sindaco Bill de Blasio. Idem, i massimi esponenti del
partito e dei sindacati. L’apparato e i media sono per Clinton. Senza
dimenticare che nello stato di New York, nel 2008, Obama fu battuto
dalla rivale.
Eppure, c’è qualcosa di altro che si muove e che va
tenuto in considerazione. Per dire, una decina di giorni fa, racconta
sul New Yorker John Cassidy, Sanders ha tenuto un comizio a Mott Haven,
una delle zone più toste del Bronx, e si sono presentate oltre
diciottomila persone. Ad Albany, stessa scena. Così a Brooklyn. A
Harlem. Come mai? Dice a Cassidy Bill Lipton, del Working Families
Party, che sostiene Sanders: «Questa è una campagna diversa. È un
movement. Bernie ha quell’energia che raramente abbiamo visto nella
politica newyorkese, e che fa sì che a migliaia vengano a un comizio in
risposta a una convocazione via email.
E molti poi, quando vanno
via, lasciano il loro indirizzo e il giorno dopo li vedi in giro a
bussare alle porte degli elettori». Se l’affluenza sarà alta – c’è stato
un boom dell’ultima ora di iscrizioni al partito per poter votare –
“qualsiasi risultato è plausibile”, dice al New Yorker il politologo
Kenneth Sherill. Un successo New York il 19 renderebbe realistico il
conseguimento della nomination, che è però uno dei due obiettivi, non
l’unico, che il candidato socialista si è posto fin dall’inizio, essendo
il secondo perfino più ambizioso del primo.
Certo, diventare il
Democratic nominee sarebbe un evento di portata storica, ma lo sarebbe
anche in quanto collegato al secondo obiettivo che si pone Sanders con
la sua campagna elettorale, e che è quello di dar vita a una «political
revolution» di lunga durata, tale da cambiare in profondità il Partito
democratico. Se non conseguirà la nomination, ha detto Sanders alla Nbc,
«we will continue that revolution», continueremo quella rivoluzione. La
convention di Filadelfia sarà, per il suo movement, alla stregua di un
vero e proprio congresso, come quelli europei d’un tempo, combattuto,
che sancirà la nascita di una struttura organizzata dei progressisti
all’interno del partito per cambiarlo. Con questo obiettivo si
muoveranno i delegati di Sanders all’interno del Wells Fargo Center di
Filadelfia, contando sul sostegno dei sostenitori pro-Sanders
all’esterno dello stadio. Una strategia «inside-ouside».
L’entusiasmo
che genera Bernie è il motore di un simile movimento, ma non si
sottovaluti l’alto livello della sua squadra, con personaggi come Zack
Exley, il consulente tecnologico che governa la complessa macchina
«social», e Tad Devine, il chief strategist che ha un curriculum
incredibile come stratega di fortunate campagne elettorali. E che questa
volta scommette sul candidato sulla carta votato alla sconfitta. Forse
proprio perché, invece, alla fine non sarà lui lo sconfitto.