Corriere La Lettura 3.4.16
Processo al monoteismo 1
L’accusa
Il focolaio dell’ intolleranza
L’idea di un libro sacro come unica fonte della verità induce a cercare la salvezza nella lotta agli «infedeli»
di Luciano Canfora
«La
bomba all’Étoile ha chiuso Parigi in una morsa di terrore» scriveva
vent’anni fa, il 20 agosto 1995, Igor Man, su «La Stampa» di Torino in
un elzeviro intitolato Maometto e le nostre paure. E ancora: «L’apertura
al culto della moschea di Roma, gli arresti di presunti terroristi
islamici prima a Roma, poi a Milano, l’orrificante lotta al coltello in
Algeria tra militari e “barbuti”, l’attentato a Mubarak in furiosa lotta
contro gli integralisti egiziani». Cambiati alcuni nomi, sembra la
cronaca di oggi. La diagnosi suggerita da Man era: «Smaltita la sbornia
del consumismo che aggrava l’ignoranza poiché la vita facile allontana
dai giornali, dai libri, dalla riflessione pura e semplice, cominciamo
ad accorgerci che non esistiamo solo noi, che gli immigrati sono la cima
di una immensa massa montagnosa, chiamata Sud. Il Sud del Mediterraneo,
del mondo occidental-cristiano. Un Sud povero, arrabbiato. Fatto di
persone che si sentono tradite. Da noi: dall’Europa egoista, catafratta
nel suo declinante benessere». Il pezzo, ricco di suggerimenti
bibliografici, aveva come occhiello: Per non demonizzare l’islam .
Oggi
questo genere di diagnosi, che peraltro andrebbe resa meno schematica e
arricchita di fattori quali l’appoggio Usa ai talebani afghani contro
il governo laico pro-sovietico, la complicità tra l’Occidente sedicente
cristiano e le oligarchie ipermusulmane e straricche come quella saudita
ovvero con semidittature fondamentaliste quale la Turchia di Erdogan,
non basta più: non ci soddisfa. E se formulata in quel modo manicheo,
appanna anche il fondo di verità che pur contiene.
La questione
che ancora oggi si agita è dunque se l’elemento religioso sia il fattore
scatenante e determinante della guerra in atto, guerra che è andata
molto avanti rispetto agli anni in cui Man si esprimeva in quel modo; o
se la religione sia il veicolo primordiale con cui si esprimono fattori
di altro genere, soprattutto materiali. Va da sé che le religioni hanno
una forza mobilitante che nessun movimento politico riesce ad eguagliare
se non facendosi esso stesso religione o «mistica» (il nazismo ad
esempio), ma ciò non deve farci perdere di vista che esse si sviluppano a
partire da fattori concreti e profondi. Fattori che, in determinati
periodi storici prendono quella forma, e in alcuni casi conseguono un
successo travolgente.
Questo accadde all’islam, la cui espansione
tra VII e IX secolo dalla Mesopotamia alla Spagna fu altrettanto
travolgente quanto lo era stata, nella stessa area geografica, la
diffusione del cristianesimo tra IV e V secolo. L’Alessandria —
metropoli mediterranea per eccellenza — del tempo di Filone Ebreo e di
Caligola e poi di Caracalla, dilaniata da conflitti tra masse
ellenistico-pagane e minoranza ebraica, cedette dopo secoli il passo
alla Alessandria dei terribili vescovi cristiani Teofilo e Cirillo
(distruttore il primo del Serapeo e istigatore dell’assassinio di Ipazia
il secondo). E questa Alessandria fanaticamente cristiana fu a sua
volta cancellata, se così si può dire, dalla Alessandria di Amr,
distruttore — secondo una leggenda sorta molto dopo — dei libri «diversi
dal Corano» conservati ancora nella città che era stata simbolo e vanto
della realtà bibliotecaria.
Sorge a questo punto la domanda se
siano soprattutto le religioni di salvezza a forte impianto monoteistico
quelle che contengano dentro di sé non soltanto una potente capacità di
attrazione sulle masse, ma anche un robusto corollario di intolleranza,
terreno di coltura di una idea altrettanto monocratica dell’ordinamento
politico. La simbiosi tra cristianesimo trionfante e impero tardoantico
(e poi bizantino e, a Occidente, carolingio) nonché tra islam e forma
politica del Califfato (Chiesa, Stato e Comunità sono nella visione
giuridica della Sharia una cosa sola) farebbero propendere per una
risposta affermativa. Opere discusse, come la monumentale S toria
criminale del cristianesimo di Karlheinz Deschner, edita in Germania da
Rowohlt e in Italia dalle meno note edizioni Ariele di Milano, portano
ampia documentazione di una storia che è, largamente, storia di
intolleranza omicida.
Ma questo non significa affatto che le
religioni non monoteistiche siano, per tale loro natura, tolleranti o
propizie al pluralismo politico e ideologico. Una giuria popolare
ateniese mandò a morte Socrate con l’accusa di «non credere agli dèi
della città». E analoga sorte sarebbe toccata al filosofo e scienziato
Anassagora, se questi non si fosse sottratto per tempo a un assurdo
processo. E un secolo più tardi Aristotele, nell’Atene dominata dai
sempreverdi capi della democrazia, si sottrasse fuggendo a un processo
per empietà. Ed è una tradizione greca di pensiero critico, che prende
avvio dal sofista Crizia, che addita nella religione uno strumento di
controllo etico e politico. Il che, secoli dopo, pensava lo storico
Polibio, ammiratore dell’uso romano della religione come instrumentum
regni .
L’altra faccia della questione però è che il mondo greco,
non possedendo il libro «unico» e «unico detentore della verità» tipico
dei monoteismi, consentiva una rigogliosa reinterpretazione del mito in
varianti innumerevoli, documentate per noi dalla superstite produzione
dei tragediografi ateniesi. Varianti mai percepite come eresie,
diversamente da quel che accade nel caso delle «religioni del libro».
Ovviamente ogni tentativo di frigida reviviscenza pagana può avere, per
tenerci all’esperienza novecentesca, o effetti comici (il circolo di
Stefan George) o criminali (il neopaganesimo nazista).
Il fatto è
che la polarità politeismo/monoteismo può apparire, in casi storicamente
molto significativi, come una semplificazione depistante. Basti pensare
al piano inclinato in direzione del politeismo che sta dentro
caposaldi, sia teologici che empirici, cristiani quali la trinità o il
culto dei santi, e, per altro verso, alla evoluzione in senso deistico,
cioè di venerazione di una astratta entità divina ( to theion) che
connota il politeismo pagano, sempre più col passare dei secoli, per
influsso del pensiero filosofico.
Questo fenomeno sincretistico,
di depurazione delle rigidità teologiche, è inarrestabile, soprattutto
ai vertici e tra i seguaci acculturati delle varie confessioni. Da tempo
un tale processo ha investito le varie confessioni cristiane: tra alti e
bassi da almeno mezzo secolo. La contrapposizione cattolici versus
chiese riformate si appanna sempre più, e l’ecumenismo che si protende
anche verso ambienti greco-ortodossi ed ebraici, e trova sponde, non è
che deismo inconfessato, anche se tuttora bardato di lessico e rituali
specifici (cari alle masse). Ma questi rassomigliano sempre più alla
difesa del simbolo tradizionale (l’altare della vittoria) da parte di un
colto senatore pagano come Simmaco, il quale, cercando di fare breccia
nell’oltranzismo del vescovo Ambrogio, formulava idee quasi
illuministiche: «Tutto ciò che tutti adorano — egli scriveva — è giusto
reputarlo una sola cosa», e ancora, premesso che tutti in vario modo
cercano il vero: «Non per una sola via si può giungere a un così grande
mistero» (Relatio Tertia all’imperatore).
Parole come queste oggi
risuonano negli incontri di impianto ecumenico tra confessioni diverse.
Se l’islam contiene ancora dentro di sé l’ala marciante che vede la via
della salvezza nella eliminazione degli «infedeli», ciò significa che
esso rispecchia, nel suo sviluppo storico, una fase che corrisponde a
quella del cristianesimo nei secoli XVI e XVII, il cui simbolo è la
notte di San Bartolomeo.