Corriere La Lettura 3.4.16
Processo al monoteismo 2
La difesa
Una rivoluzione egualitaria
Il pagano passa da un idolo all’altro senza via d’uscita. Solo l’infinitamente Altro può liberarci dalla schiavitù
di Donatella Di Cesare
Cosa
 c’è di più facile, nel contesto politico odierno, che leggere il 
conflitto globale come una guerra scatenata dal sacro contro la 
laicità, addossandone la colpa al Dio unico? Ecco, dunque, il vero 
colpevole, la causa scatenante, il fondamento ultimo. «Dio non è 
grande» — gli vanno imputati oscurantismo, superstizione, intolleranza. 
L’atto d’accusa, che viene ripetuto ormai da tempo, si compendia, anzi, 
nel refrain: «Dio è violenza».
Gli esempi da addurre sarebbero 
innumerevoli. Ma basta a tal fine sfogliare le pagine del libro di 
Michel Onfray Trattato di ateologia (Fazi), che in Francia ha avuto anni
 fa un grande successo di pubblico, giungendo a vendere 150 mila copie. 
Il bersaglio di Onfray è il monoteismo, contro cui si scaglia senza 
mezzi termini: «Il monoteismo parteggia per la pulsione di morte, ama la
 morte, è affezionato alla morte, gode della morte, è affascinato da 
essa». Uccisioni, massacri, crimini efferati: «Dietro tutti questi 
abomini, versetti della Torah, brani dei Vangeli, sure del Corano, che 
legittimano, giustificano e benedicono».
Vale la pena sottolineare
 che tesi analoghe circolano diffusamente nel contesto italiano e, 
sebbene formulate con accenti e forme diverse, sono rinvenibili nella 
letteratura più recente. Ma la posizione di Onfray, che molto deve ai 
libri di Jean Soler, è emblematica anche per altri motivi. Anzitutto 
perché, dovendo colpire la fonte del monoteismo, sferra l’attacco 
contro gli ebrei. «Onore al merito. Gli ebrei che inventano il 
monoteismo, inventano tutto ciò che ad esso si accompagna». In 
particolare inventano la «guerra santa». Il jihad sarebbe contenuto 
nella Torah. «Un Dio unico, bellicoso, impietoso, un combattente 
spietato, capace di galvanizzare le sue truppe e di sterminare i nemici 
senza battere ciglio»: questo sarebbe il Dio degli ebrei, i quali non 
avrebbero mai preso le distanze. «Nessun responsabile del popolo eletto 
ha deciso che queste pagine sono favole». Passato inosservato al mondo 
ebraico italiano, il libro di Onfray ha suscitato aspre critiche in 
Francia. Shmuel Trigano, una delle voci più autorevoli dell’ebraismo 
francese, lo ha accusato di «enorme violenza» e di quella «profonda 
incultura» che apre le porte all’antisemitismo.
Nelle pagine di 
Onfray affiora una tesi che ha un rilievo non solo teologico, ma anche 
politico. «Ogni teocrazia rende impossibile la democrazia». Il 
riferimento è ancora al popolo ebraico che porta sia la responsabilità
 del Dio unico sia l’idea stessa della teocrazia.
L’equiparazione 
tra il Dio unico, il pensiero unico e il regime totalitario è stata 
sviluppata, a un ben altro livello, dall’egittologo Jan Assmann. Erede 
della tradizione tedesca, dove questo tema era già stato toccato a più
 riprese, Assmann punta il dito contro l’intolleranza insita nel 
monoteismo. In un suo libro molto fortunato, ma anche molto controverso,
 parla di «distinzione mosaica» per indicare la «svolta» dal politeismo 
al monoteismo che segnerebbe, per la prima volta, il limite tra il vero 
Dio e i falsi dèi. Questa svolta, di cui è protagonista Israele, 
appare agli occhi di Assmann un decadimento. Il Dio che si presume 
eletto vuole scalzare gli altri dèi — geloso e intollerante, non può 
sopportarli accanto a sé e perciò, pretendendo di essere l’unico vero 
Dio, vuole far passare gli altri per falsi dèi, idoli.
Prima le 
religioni antiche si tolleravano a vicenda; i popoli non facevano 
perciò fatica a mettere in relazione i loro dèi, anzi a equipararli. 
Solo quando entra in scena Israele, ha inizio la «guerra santa», viene 
inaugurata la violenza che gli altri monoteismi, il cristianesimo e 
l’islam si limitano a riprendere in forma più blanda. Studioso di 
teologia politica, Assmann compie un passo ulteriore: il monoteismo 
viene visto come il paradigma teologico della dittatura. Il politeismo 
permetterebbe invece l’apertura democratica e il confronto pluralistico.
 Dove ci sono gli dèi, c’è tolleranza; dove domina il Dio unico, c’è 
violenza.
L’opera di Assmann ha suscitato un acceso dibattito. 
Accolta con favore in Europa, in particolare in Germania, è stata 
criticata, con validi argomenti, soprattutto da parte ebraica. Il che ha
 spinto Assmann a correggere la sua tesi riconoscendo che nel libro 
dell’Esodo non gioca alcun ruolo la distinzione tra vero e falso, mentre
 decisiva è quella tra schiavitù e libertà. Sebbene Assmann abbia 
proclamato l’ebraismo «religione della differenza», indifferente agli 
dèi degli altri, resta il suo impianto accusatorio contro il 
monoteismo. In molti lo hanno rilanciato — da ultimo anche Peter 
Sloterdijk nel libro intitolato All’ombra del Sinai.
Ma che cosa 
vuol dire «Dio»? Non è forse una parola usata troppo spesso senza 
riflettere sul suo significato e sulla sua etimologia? «Dio» rinvia a 
Zeus, a Giove, infine a un nume della volta celeste; soprattutto è il 
nome comune di una classe, quella appunto degli dèi. È questo il Dio 
della Torah? Il «Dio» che ricapitola in sé gli altri, l’unico a restare
 di una serie di dèi? Certo che no. Perché questo «Dio» manterrebbe un
 saldo legame con gli dèi. Nella Torah compare invece il Tetragramma, 
quattro lettere non vocalizzabili, a indicare il Nome proprio (non 
comune) dell’assolutamente Altro. Non pronunciarlo! — perché sarebbe 
come pretendere di definirlo. Piuttosto, mentre leggi, fermati, e leva 
lo sguardo in alto.
Rivoluzionario è il passaggio dal politeismo 
al monoteismo. Lo sottolinea Jacob Taubes con parole che Assmann sembra 
aver dimenticato. Il pagano cerca il numinoso e il sacro: una stella è 
una dea, un fiume è un dio. Va da un idolo all’altro, incapace di 
uscire dal mondo. Si tormenta, perché si accorge di essere migliore dei
 suoi dèi in quell’universo tragico dove non c’è ordine etico. Ma la 
sua breve rivolta non è che il sintomo della sua «morale infantilità»,
 come la chiama Walter Benjamin, dell’impossibilità, cioè, di trovare 
la via dell’esodo e della liberazione.
Israele de-sacralizza il 
mondo, toglie la magia, rompe con l’idolatria. Nessun cedimento può 
essere ammesso — neppure verso l’immanenza delle immagini, verso il 
sacro che si spazializza. Perciò l’ebraismo potrebbe persino 
assomigliare all’ateismo. E corre questo rischio. Perché il monoteismo 
ebraico richiede di rapportarsi all’infinitamente Altro a partire dalla 
separazione. Dubbio, solitudine, rivolta devono già essere stati 
attraversati. Al Nome impronunciabile che, separato dalle numerose 
divinità locali, guiderà la storia universale, gli ebrei restano 
fedeli nei secoli. Quale deve essere stata l’irritazione dei soldati 
romani quando, entrati nel Tempio, videro che era vuoto. Come poteva 
quel popolo sovrano adorare con tanto fervore l’Assenza, così presente,
 di un infinitamente Altro?
D’accordo — si dirà — non si può 
proiettare, come fa anche Assmann, la concezione pagana di Dio 
sull’ebraismo. Ma non si deve forse ammettere che il monoteismo ebraico 
è un paradigma totalitario, che non ci può essere democrazia dove 
esiste la teocrazia? Per rispondere basta riprendere le pagine di 
Spinoza. Secondo un’etimologia antica Israel vuol dire «che Dio regni», e
 può essere tradotto in greco con teocrazia, potere di Dio. In questa 
forma politica «nessuno è asservito a un suo uguale». La teocrazia, che
 resta un ideale regolativo, è per Spinoza condizione della democrazia.
 Nel patto stretto con il Dio sovversivo dell’Esodo, nell’esperienza 
della liberazione dalla schiavitù, nella uguaglianza di tutti, che 
esclude ogni dominio se non quello dell’assolutamente Altro, emerge per 
la prima volta la democrazia.