Corriere 9.4.16
Architettura
Senza più botteghe, ma più liberi
La
scomparsa delle grandi scuole (come il Bauhaus) e dei grandi maestri
(Raffaello per Giulio Romano) ha finito per privilegiare il lato
tecnico-specialistico della professione rispetto a quello umanista
di Pierluigi Panza
Maestro
era la parola più bella dell’architettura. Raffaello ebbe come maestro
suo padre e fu maestro di Giulio Romano; Paolo dal Pozzo Toscanelli fu
maestro di Brunelleschi, lo sconosciuto Bartolomeo Cavazza da Sossano
quello di Palladio, il siciliano Giuseppe Vasi lo fu per Piranesi. Il
maestro era un individuo carismatico che aveva conoscenza dell’intero
processo dell’opera e lo trasmetteva affettivamente agli allievi in due
modi: insegnando nelle accademie o dirigendo una bottega. Gli allievi
che entravano in accademia erano spesso, come oggi, dei «figli di». Ma
gli apprendisti di bottega non erano necessariamente dei raccomandati:
Paolo Uccello era figlio di un barbiere, Andrea Del Castagno di un
contadino, Filippo Lippi di un macellaio, Botticelli di un conciatore di
cuoio, Tintoretto di un tintore e Pollaiolo, ovviamente, di un
pollivendolo. Nemmeno i grandi conoscitori d’arte e d’architettura
dovevano necessariamente provenire dall’élite: il più grande di tutti,
Winckelmann, era figlio di un ciabattino.
Ma allora, perché oggi
un’affermazione come «l’allievo ha superato il maestro» è divenuta
impossibile? Perché un’altra affermazione come «non esistono più i
grandi maestri» è diventata scontata, quanto quella sulla sparizione
delle mezze stagioni?
Perché, con l’avvento del Capitalismo, la
specializzazione è diventata un caposaldo dell’agire lavorativo. Ne
consegue che l’universalismo del maestro, ovvero di colui che coordinava
l’intero processo della creazione e della progettazione è stato
svalutato e svuotato di senso. L’azione pedagogica, trasmessa anche
attraverso l’atto etico dell’esempio, è venuta depotenziandosi sino a
spegnersi nell’età digitale in cui l’accesso a un’informazione di
carattere manualistico (come si usa? come si fa?), che è il contrario
della conoscenza, è diventata anonima e aperta indiscriminatamente su
siti specializzati, meglio ancora attraverso i tutorial. I tutorial
assolvono, senza interrelazione umana, al compito che fu dei maestri:
far vedere come si fa una cosa, acquisire una «maniera». Tecnicamente,
oggi saremmo in grado di progettare «alla maniera di», seguendo dei
tutorial senza dover partecipare a iter di studi o rispondere a docenti,
ricevendo al termine del tutorial un attestato di partecipazione,
proprio come si erogano crediti professionali attraverso dei corsi
online che sono smunti nipotini dei corsi Radio Elettra di formazione
professionale. Ma dove non c’è vita, bensì solo pixel, dove non c’è
nemmeno la morte (tumulo, piramide, tomba), non c’è architettura.
La
«scomparsa» del maestro in architettura può essere vista come un atto
di liberazione, di apertura, specie se l’affiliazione al maestro
avveniva per cooptazione o il rapporto implicava — come negli anni
Settanta — un intero modo di pensare, parlare e agire derivato da
posizioni fortemente ideologiche, da un pensiero unico che non lasciava
spazio ad alcuna forma di affrancamento. Quest’ultimo aspetto, infatti, è
quello che ha generato il fenomeno della cooptazione del più debole in
quanto più servile e non in grado di «superare» la maniera del maestro.
Con l’aggravante che il riferimento all’essere «allievo di» (o presunto
tale per millantato credito) ha spalancato le porte a figure che lo non
meritavano. Tuttavia, la «scomparsa della pedagogia» e della
trasmissione affettiva del sapere, unita alla segmentazione delle
competenze come unico orizzonte didattico, ha generato nell’architettura
(e anche nella letteratura e nelle arti) un’intera generazione che si
potrebbe definire della «disappartenenza». Disappartenenza da un
maestro, e passi...; ma anche disappartenenza a un ruolo professionale
(che mai nella sua storia ha contato politicamente così poco) e al
dominio di una disciplina.
Molti degli attuali progettisti, e
anche dei critici e degli osservatori, appartengono alla generazione
postmoderna dei senza maestri. Questo ha sfavorito il loro accoglimento
nelle sfere privilegiate delle professioni, li ha resi esposti e fragili
ma, al contempo, ha consentito loro una libertà di letture, approcci,
modelli, creazioni di certezze sempre rimesse in gioco. Del resto, la
progressiva crisi degli statuti dell’architettura, la scompar-sa delle
grandi scuole (il Bauhaus...), dei maestri del Movimento Moderno (Le
Corbusier, Frank Lloyd Wright...) e l’avversità accademica a ogni
approccio umanistico alla disciplina in favore dell’apprendimento di
tecnologie specialistiche (che hanno generato architetti segmentati come
gli architetti di impianti, gli illuminotecnici, gli strutturisti,
quelli dei processi produttivi…) ha finito con il marginalizzare anche
le figure dei grandi progettisti che hanno saldato prassi a contenuti
pedagogici. Penso a quelle di Mario Botta, Vittorio Gregotti, Giorgio
Grassi, Aldo Rossi, Paolo Portoghesi... e anche figure come quelle di
Franco Purini, Marco Dezzi Bardeschi o Alessandro Mendini, che hanno
cercato di mantenere i rispettivi «settori» (progettazione, restauro,
design) legati a una visione universalistica e storica
dell’architettura. Molto rari sono stati i casi di progettisti che hanno
cercato di rinnovare i modelli didattici coniugandoli alla
contemporaneità anche digitale (penso a Italo Rota alla Naba e alla
Domus Academy) o che hanno cercato di far maturare allievi negli studi
(il più noto è il caso dello studio di Renzo Piano con il suo impegno,
anche con Marco Ermentini, per giovani e periferie).
E così,
mentre l’architettura e il design avanzavano nella cultura di massa
fagocitati dal sistema dello stilismo, felici di conquistare uno spazio
subalterno al sistema della moda del quale hanno acquisito i metodi
promozionali, il termine «maestro» ha finito con l’essere sostituito da
quello di «archistar» o di altri baluginanti sostitutivi affettivi dei
maestri, la cui esplosiva ma ineffabile parabola mediatica è il
contrario della «lunga durata» dei maestri. E questo vale anche per le
ipocrite rappresentazioni di opposizioni alla finanziarizzazione
dell’arte e dell’architettura che in realtà nascono e si sviluppano
all’interno del sistema stesso, divenendo dei finti anticorpi, come
antibiotici presi saltuariamente. Ripartire dagli esempi dei maestri
attraverso la lettura del loro pensiero e delle loro opere può essere un
antidoto al selfie dell’archistar.