Corriere 9.4.16
Genio, design, passioni: il lato privato dell’archistar
di Stefano Bucci
Dallo stile british di Foster alla timidezza di Zaha, dalla pastasciutta di Niemeyer al basket di Gehry
Gary
Cooper alias Howard Roark, nel film La fonte meravigliosa del 1949,
sembra davvero un guerriero, proprio come lo sceriffo Will Kane di
Mezzogiorno di fuoco : un architetto che, con le sue grandi vetrate e i
suoi colonnati razionalistici, combatte anche fisicamente contro il
gusto di un’America ormai passata (similfuturista o neoclassico che
fosse), un ruolo ispirato in modo evidente al regista King Vidor da un
mostro sacro della progettazione, Frank Lloyd Wright (1867-1959).
Qualche anno dopo (nel 1987) il visionario Peter Greenaway metterà a sua
volta in scena e filmerà nel Ventre dell’architetto le ossessioni di un
altro progettista immaginario, l’americano Stourley Kracklite
(interpretato da Brian Dennehy), ammaliato stavolta da Roma, dai suoi
monumenti e soprattutto da Etienne-Louise Boullée (1728-1799), ancora
una volta un architetto realmente vissuto, il grande maestro del
Cenotafio di Newton e della Biblioteca Nazionale di Parigi.
Progettare
(o almeno farlo bene) è qualcosa di eroico. Un’impresa che ogni
architetto cerca di portare alla conclusione secondo il suo particolare
modo di essere e il suo stile, un modo di essere e uno stile che
inesorabilmente si traducono nella realtà fisico-professionale dello
studio-laboratorio di ognuno di loro. Difficile, ad esempio, raccontare
Renzo Piano (la Lezione di architettura e design che inaugura oggi la
nuova collana del «Corriere della Sera» è dedicata proprio a lui) senza
parlare dei suoi studi di Genova e di Parigi.
Il primo, a Vèsima,
con un’incredibile vista mare (quasi a voler ribadire le passioni di
Renzo per la sua città e per la barca a vela), sempre affollato degli
studenti dei suoi workshop; una sequenza di grandi spazi (a piu livelli)
pieni di luce e con una fantastica cremagliera tutta trasparente che
dall’entrata porta direttamente a metà del costone di roccia. A Parigi
l’atmosfera internazionale (una sorta di piccolo ateneo della
progettazione) non cambia, come non cambia la pacifica invasione della
luce (uno degli elementi più classici dell’architettura di Piano),
mentre si trasforma logicamente la location : a ridosso della oggi
borghesissima (e molto elegante) Place des Vosges e di quel Centre
Pompidou inaugurato nel 1977 che ha fatto definitivamente diventare
l’architetto genovese una star mondiale.
L’atelier dell’architetto
può raccontare, dunque, molto più dei suoi stessi progetti. Perché ne
può raccontare l’essenza personale, la cifra umana. Oscar Niemeyer
(1907-2012), il mago di Brasilia (uno dei pochissimi ad aver costruito
un’intera città), amava parlare ed essere intervistato seduto davanti
alle vetrate del suo studio affacciato sulla spiaggia di Copacabana.
Parlava spesso di donne, delle loro «linee curve» che lo avevano
ispirato; donne che in continuazione disegnava sulle pareti (pochi
tratti tracciati senza esitazione). E nonostante ad ogni nuovo incontro
perdesse inesorabilmente un po’ del suo udito da centenario, rimaneva
pur sempre il solito vanitoso, quello che si interrompeva per
improfumarsi di Chanel e per controllare che la sua camicia fosse sempre
adeguatamente candida. Poi, ad un certo punto, la conversazione si
interrompeva: qualcuno dei suoi (pochissimi) assistenti andava in cucina
e dopo un attimo era tempo di mangiare la pasta al pomodoro. Sempre con
vista su Copacabana.
Gae Aulenti, nel suo studio terra-tetto
milanese che guardava la chiesa di San Marco, si sedeva invece al tavolo
da lavoro, al mezzanino, è iniziava a parlare, prima timidamente, poi
sempre più fluently , accendendosi una sigaretta dopo l’altra: la voce
era bassa, ma tutto era inesorabilmente chiaro e preciso, come la
sensazione di trovarsi davanti una persona molto speciale.
Come
altrettanto speciale si dimostrava Frank O. Gehry, che, una volta che
eri sbarcato a Los Angeles, ti chiedeva: «Che cosa dovrei raccontare di
me? Non mi sembra di avere molto da dire», inesorabile esordio di ogni
conversazione con l’architetto. Quando però iniziava a mostrare quei
modellini che affollavano uno studio-magazzino-deposito con più di
trecento collaboratori, ecco che il grande eroe del Guggenheim Bilbao si
dimostrava molto più simpatico di quanto potesse sembrare
all’apparenza. E il momento migliore, quello in cui sembrava più felice,
era certamente quando esibiva le sue foto da accanito tifoso dei Los
Angeles Lakers.
L’istrionico Philippe Starck, quello dello
spremiagrumi che ha trasformato l’idea stessa di cucina, a lungo ha
ricevuto i suoi ospiti (con ostentazione) nello studio parigino
all’epoca a ridosso di Place de la République (ora è invece in zona
Trocadero), in un grande palazzone pieno di pied-noir: qualcosa a meta
tra un grande loft abbandonato e un deposito di cianfrusaglie usate.
Che, invece, altro non erano che i modellini dei suoi oggetti
(un’atmosfera molto simile a quello dello studio londinese di Ron Arad).
A
raccontare la passione dell’architetto (quello che Mario Sironi aveva
immortalato in un suo celebre ritratto del 1922) ci sono, persino per i
non addetti ai lavori, anche le loro parole e i loro modi: Massimiliano
Fuksas che, con tanto di caschetto giallo antinfortunio, racconta con
entusiasmo, passando da una impalcatura all’altra quasi fosse un
equilibrista, la sua nuova fiera di Rho che (all’epoca) era solo un
grande scavo e poco più. Oppure Vittorio Gregotti che, da buon
professore, ama scavare ogni progetto e ogni idea prima di tutto con le
parole. O Alessandro Mendini che di ogni progetto, con una voce sottile
sottile ancora da bambino, definisce il lato più giocoso e «nuovo».
L’aristocratico
Norman Foster fa parlare forse più i suoi vestiti così eccentrici e
cosi molto british delle sue parole. E il giapponese Arata Isozaki, dopo
avere abilmente evitato la domanda per lui più spinosa su quella mai
realizzata pensilina degli Uffizi, prosegue a colpi di monosillabi o
poco più (lo stesso stile della conterranea Kazuyo Sejima). Una
timidezza che, invece, sembra lontana anni luce da un emergente come il
britannico David Adjaye, dal cinese Wang Shu o dal cileno Alejandro
Aravena, neocuratore della prossima Biennale. E a volte può sorprendere
la timidezza e la fragilità dei grandi: un nome per tutti, Zaha Hadid,
da poco scomparsa. L’eroina del Maxxi di Roma che, dopo una serie di
dinieghi e di frasi lasciate a metà, poteva persino sorprenderti con un
mezzo sorriso, pieno sempre e comunque di nostalgia e malinconia.