domenica 10 aprile 2016

Corriere 10.4.16
L’abbraccio del papa a trans e prostitute
di Luigi Accattoli


Nuovo gesto di abbraccio ai tribolati da parte di Francesco, in linea con le aperture del documento sulla «Gioia di amare» pubblicato venerdì: ieri ha incontrato in Piazza San Pietro (al margine di un’udienza «giubilare») un gruppo di 50 donne e transessuali, provenienti da dieci Paesi, che hanno conosciuto l’esperienza della prostituzione e della tratta. Papa Bergoglio, scrive l’Osservatore Romano, ha avuto con loro un «significativo abbraccio» per incoraggiarli nell’impegno a «ritrovare una vita libera». Venivano da Reggio Emilia ed erano guidati dall’associazione Rabbuni (Maestro), diretta da don Daniele Simonazzi. Mercoledì, sempre a San Pietro, Francesco aveva incontrato 85 divorziati risposati appartenenti all’associazione di Fossano «L’anello perduto». Paolo Tassinari, coordinatore del gruppo ha riferito alcune parole dette loro dal Papa: «Bravi, continuate così. Leggete Amoris laetitia (la gioia dell’amore: l’esortazione pubblicata ieri) e seguitela». L’esortazione è infatti una magna charta per l’incontro della Chiesa con ogni esperienza di amore: sia quello felice sia quello tribolato e irregolare. Un testo (dice il Papa stesso) che si ispira alla «logica della misericordia pastorale», che mira a «integrare tutti» nella vita della Chiesa. È in forza di questo criterio che Francesco ha rivolto (nel suo documento) parole di accoglienza ai battezzati che vivono in una seconda unione: «Devono essere integrati e non esclusi». In «certi casi», ha scritto il Papa nel documento, possono essere ammessi ai sacramenti. C’è chi vi vede un mutamento della dottrina sul matrimonio, ma il Papa non la pensa così. In una lettera ai vescovi di tutto il mondo, inviata qualche giorno addietro dal segretario del Sinodo, il cardinale Baldisseri, così è presentata l’intenzione di Francesco: «Scopo del testo non è cambiare la dottrina ma ricontestualizzarla al servizio della missione pastorale della Chiesa. La dottrina va interpretata in relazione al cuore del kerygma cristiano (cioè del messaggio evangelico, ndr) e alla luce del contesto pastorale in cui verrà applicata, sempre ricordando che la suprema legge dev’essere la salute delle anime». La «ricontestualizzazione» di un’affermazione dottrinale è un concetto noto al dibattito teologico cattolico. Si tratta (per dirla con Hans Urs Von Balthasar, teologo svizzero fatto cardinale da Wojtyla) di «integrare in una totalità più grande un’affermazione dottrinale già definita» (Il complesso antiromano, 1974). Von Balthasar parlava di «nuova contestualizzazione» a proposito della dottrina della collegialità, intesa come «una totalità più grande» all’interno della quale comprendere il dogma dell’infallibilità del Papa. Ora Francesco ci invita a rileggere l’indissolubilità del matrimonio nel contesto più ampio della dottrina della misericordia come «architrave che sorregge la vita della Chiesa» e che può e deve raggiungere tutti e ognuno «in qualunque situazione si trovi».

Corriere 10.4.16
Pagine di fede e violenza nella storia cristiana
risponde Sergio Romano


Due esponenti della nomenclatura accademica hanno dato versioni differenti sulla responsabilità di Caterina de’ Medici nella strage degli ugonotti consumata a Parigi nella notte di San Bartolomeo il 24 agosto del 1572. Uno scrisse che fu proprio Caterina a impartire l’ordine; l’altro sostenne che la regina si dovette piegare al volere di Enrico IV (capostipite dei Borboni), il quale fino a poco tempo prima era proprio il capo degli ugonotti e passò alla storia per la famosa frase «Parigi val bene una messa». Quale delle due versioni può ritenersi vera o, quanto meno, verosimile?
Lorenzo Milanesi Milano
Caro Milanesi,
Caterina aveva il cuore di una madre e la testa di Machiavelli. Quando la Francia, divisa fra cattolici e ugonotti, fu sull’orlo di una guerra civile, la sua maggiore preoccupazione fu quella di evitare che le conseguenze della disputa religiosa ricadessero sulla persona e sul regno del figlio Carlo IX. Negli anni in cui era reggente, prima della morte del marito (Enrico II), aveva promosso un animato confronto dialettico nel settembre 1561 fra cattolici e riformati. Più tardi aveva progettato il matrimonio della figlia Marguerite con Enrico di Borbone, re di Navarra e grande esponente della corrente ugonotta; e aveva favorito la promulgazione di un editto che consentiva agli ugonotti di organizzare le loro funzioni religiose, purché celebrate al di fuori delle mura cittadine. Ma il maggiore gesto di conciliazione fu l’ingresso dell’ammiraglio de Coligny, capo della comunità ugonotta, nel Consiglio reale.
Nessuno di questi tentativi dette il risultato desiderato. Dopo ogni pragmatico compromesso vi era sempre qualcuno, in un campo o nell’altro, che cercava di riattizzare, con una mossa provocatoria, il fuoco delle vendette e delle rappresaglie. L’avvenimento più grave fu un attentato alla vita dell’ammiraglio de Coligny. Fu quello il momento in cui il duca di Ghisa, capo della fazione cattolica intransigente, decise di approfittare del matrimonio di Enrico e Margherita per tendere una trappola alla élite ugonotta invitata alla cerimonia.
Il massacro cominciò a Parigi, ma si estese rapidamente alle città francesi in cui vi era una forte presenza protestante e avvenne con il consenso, se non addirittura con l’ordine formale della casa reale. Secondo Max Gallo, autore di una grande storia della nazione francese dall’origine ai nostri giorni ( L’ame de la France ), Enrico salvò la vita grazie all’abiura, pochi giorni dopo l’inizio dei massacri. Il numero delle vittime, spesso fatte selvaggiamente a pezzi, fu tra 15.000 e 30.000 mila. A Roma, nei palazzi apostolici, la Notte di San Bartolomeo fu salutata e celebrata come un «trionfo della fede»; e un grande pittore, Giorgio Vasari, ebbe l’incarico di illustrarne gli episodi più sanguinosi in una sala del Vaticano, Anche nella storia del cristianesimo, come in quella dell’Islam, la violenza e la fede possono essere purtroppo i volti di una stessa medaglia.

Corriere 10.4.16
Gli asessuali, il mondo del «Gruppo X»
Sono «quelli che non», le persone che non provano desiderio sessuale
di Michela Mantovan


.Sono «quelli che non», le persone che non provano desiderio sessuale. Li chiamano asessuali. Un mondo scoperto dal sessuologo americano Alfred Kinsey che lo definì «Gruppo X»

Fabrizio Sclavi è un uomo che fa parte di tanti mondi. È un giornalista e un artista, è disabile ed è omosessuale. L’obiettivo della sua vita, quello che sua madre gli ha insegnato, è stato cercare la bellezza. Ed è seguendo questa specie di cartello stradale emotivo che ha sperimentato il sesso e poi trovato l’amore. Ce lo racconta Alessandro Cannavò in una intervista video per la nostra inchiesta su Sesso e Amore che potrete leggere online (corriere.it/cronache/sesso-e-amore). La questione delle categorie e quindi degli orientamenti sessuali sta diventando sempre più importante. Per averne la prova basta entrare in un sito di dating. Il gigante americano «Ok cupid», per esempio, ha indicato una lista di 22 generi e di 13 orientamenti sessuali nei quali è possibile riconoscersi. L’ultima «tribù» inserita sono i Sapiosexual, cioè quelli che sono attratti prima dall’intelligenza che dai corpi. Sarà vera gloria? E vale davvero per uomini e donne? Sembrerebbe di sì, in ogni caso a fondare il gruppo è stato nel 1998 Darren Stalder, 40 anni, di Washington, ora sposato: «Tutto quello che desidero è una mente incisiva, profonda e irriverente». Neuroni contro aspetto fisico, quindi. Anche se Wendy Suzuki, docente di Scienze neurologiche e Psicologia alla New York University e autrice del libro «Happy brain» mette in guardia dal facile entusiasmo: «I media veicolano modelli estetici sempre più irraggiungibili». Alcuni messaggi, magari sbagliati, passano con facilità. Altri con facilità spariscono. Stiamo parlando dell’utilizzo del preservativo, l’unico anticoncezionale che protegge dalle malattie sessualmente trasmissibili. E non poco: l’indice di affidabilità è del 97%. L’uso del condom è crollato e i motivi sono diversi. Più complessi del semplice timore di anestetizzare il piacere. Lo psicanalista Luca Rousseau evoca «la roulette russa». Che pericolosa, come sappiamo, lo è sempre.

Corriere La Lettura 10.4.16
Le disoccupate pregano di più
di Marco Ventura


Le donne sono più religiose degli uomini: soprattutto se cristiane, se disoccupate e se italiane. È la conclusione dell’ultimo rapporto sullo stato della religiosità nel mondo elaborato dal Pew Research Center. In 61 dei 192 Paesi esaminati, le donne dichiarano un tasso di appartenenza religiosa superiore a quello degli uomini per almeno 2 punti percentuali. Viceversa, in nessuno dei 192 Paesi gli uomini superano le donne in appartenenza per più di 2 punti percentuali. La differenza maggiore, in media 8 punti percentuali, si riscontra nella preghiera quotidiana. In 43 degli 84 Paesi studiati, le donne pregano di più. Israele è l’unico Stato con una maggioranza maschile nella preghiera quotidiana. In 36 Paesi su 84 le donne ritengono la religione molto importante in percentuale maggiore agli uomini. Notevole è la differenza tra Paesi a maggioranza cristiana, dove le donne sono ancor più religiose che nella media globale, e Paesi a maggioranza musulmana, dove religiosità maschile e femminile sono più equilibrate, e dove gli uomini partecipano ai riti più assiduamente, come prescritto dal diritto islamico. Dopo la Colombia, l’Italia è il Paese al mondo con il maggiore differenziale tra donne e uomini nella partecipazione ai riti settimanali. Lo scarto è di ben 20 punti percentuali e sale a 22 per la preghiera quotidiana. Tra i vari fattori che possono spiegare i dati, i ricercatori americani segnalano il nesso tra occupazione e religiosità femminili. L’Italia, in proposito, è il Paese al mondo con il più alto tasso di religiosità femminile combinato a un tasso elevato di donne non occupate. Un primato di cui andare fieri?

Corriere La Lettura 10.4.16
Il dibattito delle idee
Aristotele contro i talk show
Quattro universitari interrogano lo studioso di Platone a partire dalla nuova storia
del pensiero antico di cui è direttore scientifico. Conoscere la cultura classica serve
a prendere le distanze dal mondo in cui viviamo. E ci aiuta a combattere le pressioni conformiste che nella polis venivano dall’urlo della folla, oggi dalla tirannia dei sondaggi
La giustizia diventa l’utile del più forte se non si individuano valori universali che vengano prima della legge
Ma oggi il problema è definire che cos’è buono o giusto
a cura di Antonio Carioti


Se dovesse consigliare a un giovane un testo da leggere, il filosofo Mario Vegetti suggerirebbe la Repubblica di Platone, cui ha dedicato studi approfonditi. Se dovesse indicare tre autori canonici — a parte Platone — citerebbe Aristotele, Kant e Hegel; con un posto di riserva per Marx. Eppure nella nuova Storia della filosofia antica edita da Carocci, di cui Vegetti è direttore scientifico con Franco Trabattoni, Platone e Aristotele occupano solo un volume su quattro. È appunto a partire da quest’opera che «la Lettura» ha chiesto a due studenti magistrali di Filosofia e due di Lettere classiche dell’Università Statale di Milano, tra i 22 e i 23 anni, di «interrogare» Vegetti sulle questioni a loro avviso più interessanti in fatto di rapporti tra pensiero classico e mondo attuale.
MARCO PELUCCHI — Professore, perché una nuova Storia della filosofia antica ?
MARIO VEGETTI — Innanzitutto abbiamo ridistribuito i pesi, riducendo il rilievo del periodo classico (V-IV secolo a.C.), che di solito fa la parte del leone, e ampliando lo spazio della filosofia ellenistica e di quella dell’età imperiale romana. Va superato il pregiudizio di Hegel per cui dopo Aristotele la filosofia antica entra in decadenza. Al contrario il periodo ellenistico è fondamentale per l’etica, la logica, in fondo anche la fisica. E il pensiero dell’età imperiale si sviluppa in un mondo globalizzato sotto il dominio di Roma, con un incontro-scontro tra filosofia, nuovi culti, religioni di salvezza che lo rende ricco e problematico. Inoltre abbiamo ripristinato un’attenzione alla storia della scienza in età antica, che negli ultimi tempi si era ridotta, e abbiamo dato grande spazio alla politica.
MARCO PELUCCHI — Che cosa significa riproporre un approccio storico alla filosofia?
MARIO VEGETTI — Non credo, come tendono a pensare gli ermeneuti, che l’unico oggetto della filosofia sia la sua tradizione. C’è tutto un mondo là fuori che va interrogato, oltre i territori già esplorati dai nostri studi. Però se la filosofia perde il contatto con la tradizione s’impoverisce, perché nel pensiero antico c’è un laboratorio enorme di problemi e soluzioni. Una storia della filosofia concepita in modo chiuso e specialistico rende inaccessibile quel patrimonio, mentre noi abbiamo cercato di aprire le porte del laboratorio alla riflessione contemporanea.
MARCO PROCOPIO — Ma ha senso fare filosofia oggi?
MARIO VEGETTI — Quando una domanda pone una questione di senso, entriamo in campo filosofico. Chiedersi se abbia senso fare filosofia è quindi di per sé un’interrogazione filosofica. Da quando si è separata dalla ricerca scientifica, la filosofia si dedica al senso dell’esistenza, della politica, del passato, del futuro. Inoltre restano di sua pertinenza questioni di epistemologia, di teoria dell’argomentazione, di ontologia. C’è però un altro punto che mi preme sottolineare, di fronte alle chiacchiere che dominano la scena pubblica. Se c’è un lavoro che la filosofia può e deve fare, a partire dalla scuola, è mettere ordine nel modo di pensare. Viviamo in un’epoca di grande disordine mentale. Si parla per slogan, frasi fatte, iterazioni retoriche. Ci si confronta con gli strilli, le urla, gli insulti. Anche le persone in buona fede faticano a costruire un ragionamento che abbia pretese di validità generale. Se sostengo una tesi, devo definire quali argomenti la possono convalidare di fronte all’interlocutore e quali invece eventualmente permetterebbero di confutarla. Ma se mi limito a ripetere degli slogan, il mio è un atteggiamento oppressivo. C’è quindi un bisogno disperato dell’ordine mentale che solo la filosofia può dare. Succede a tutti i livelli, ma lo spettacolo più eloquente sono i talk show televisivi: gli stessi filosofi che vi partecipano non fanno che aggiungere confusione. Non per colpa loro: è il formato che genera il caos. In quelle trasmissioni, se qualcuno cerca di sviluppare un ragionamento, dopo due minuti lo interrompono. Così il pensiero viene di fatto impedito. Se la filosofia, oltre a riproporre le questioni di senso, riuscisse a riordinare le forme della comunicazione, renderebbe un buon servizio a tutti.
MARCO PROCOPIO — Ma perché studiare proprio la filosofia antica?
MARIO VEGETTI — Me ne occupo da una vita, ma non cessa di meravigliarmi la ricchezza delle discussioni e idee (alcune grandiose, alcune bizzarre, altre folli) proposte dagli antichi in fatto di etica, politica, metafisica, teologia, cosmologia. È un ventaglio immenso di tesi rivali. Ciò è avvenuto perché la filosofia antica è stata la prima e per certi aspetti anche l’ultima forma di pensiero che si è sviluppata senza presupporre un libro sacro, una rivelazione, un’autorità di riferimento. Non c’era una Chiesa ad Atene, né qualcosa di analogo. Quindi la filosofia antica è il territorio della libertà di pensiero. Ciò vale anche per altri settori del sapere. Ad esempio in Grecia non esistevano facoltà di medicina, quindi i medici erano autoproclamati. Questo aveva degli inconvenienti, è chiaro, perché qualsiasi ciarlatano poteva esercitare la professione. Ma la medicina classica, da Ippocrate a Galeno, ebbe uno straordinario sviluppo proprio perché non era obbligata a rispettare canoni fissi. Nell’antico Egitto, al contrario, il medico che praticasse una terapia non prevista dai libri sacerdotali poteva essere punito anche con la morte. L’assenza di vincoli permetteva di sperimentare e determinava una forte competizione: i medici dovevano dimostrare nei fatti di saper fare il loro mestiere. Lo stesso avveniva per il pensiero: il fascino della filosofia antica, rispetto ad altre epoche, risiede nell’assoluta libertà del confronto tra le idee.
FEDERICA GALANTE — Però Socrate venne condannato a morte con l’accusa di empietà.
MARIO VEGETTI — È vero. E c’è anche il caso di Anassagora, allontanato da Atene. D’altronde Platone lamenta spesso la pressione che la comunità politica, la voce della folla, esercita sui singoli per indurli al conformismo. Resta però l’assenza di un libro dogmatico e di un’istituzione che lo faccia rispettare: questo è decisivo. Persino sotto le grandi monarchie ellenistiche — regimi che peraltro io, un po’ controcorrente, prediligo rispetto a certi aspetti della democrazia classica — magari si doveva rendere un tributo al re, ma nessuno era obbligato a essere stoico piuttosto che scettico o epicureo: la libertà di pensiero non era minacciata. Consentitemi qui di tornare alla medicina: proprio i sovrani ellenistici favorirono il progresso dell’anatomia attraverso la dissezione dei cadaveri o addirittura la vivisezione dei condannati a morte, una pratica deplorevole, ma utile allo sviluppo della scienza.
MARCO PROCOPIO — L’influenza omologante della folla denunciata da Platone si avverte anche oggi?
MARIO VEGETTI — Nella polis c’era una pressione immediata, perché ci si parlava faccia a faccia. Oggi la spinta al conformismo passa attraverso i media. Platone scrive, nel libro VI della Repubblica , che chiunque abbia a che fare con la folla e le proponga programmi politici, opere letterarie o artistiche, deve uniformarsi ai suoi voleri. A me quel passo fa venire in mente i sondaggi. Qualunque politico oggi, prima di avanzare una proposta, commissiona un sondaggio per verificare l’orientamento. Il posto che aveva l’urlo della folla nelle assemblee ateniesi è stato preso dalle indagini d’opinione, il cui terribile effetto consiste nel registrare una normalità che diventa subito normativa: tutti la pensano così e quindi così bisogna fare. È un enorme inganno.
GIULIA BERNARDINI — Che ruolo deve assumere l’intellettuale in una situazione del genere?
MARIO VEGETTI — È un problema antico. Platone scrive nella Lettera VII che ha deciso di andare a Siracusa, nel tentativo di convertire il tiranno della città alla filosofia, per non apparire un uomo capace soltanto di parole e non di azioni. Si parte da lì e si arriva all’impegno degli intellettuali novecenteschi, tipo Jean-Paul Sartre. Il mio parere personale è che ogni cittadino ha l’obbligo morale di partecipare alla vita pubblica. Ciò vale anche per i filosofi. Mi sembra più dubbio che l’intellettuale in quanto tale (non come cittadino, ma come persona dotata di una speciale competenza) possa svolgere un ruolo diretto in politica. Spesso di fronte ai problemi concreti io non so che pesci pigliare, perché da filosofo tendo a considerare le ragioni di entrambe le parti in conflitto. Così prendere una decisione diventa difficile per cui di solito è una scelta morale, non una riflessione filosofica, che ci fa inclinare per una soluzione o l’altra.
GIULIA BERNARDINI — Si possono portare nella società le riflessioni maturate in ambito accademico?
MARIO VEGETTI — Oltre alle comparsate televisive degli studiosi, oggi proliferano i festival culturali. Ma le persone che vi assistono non dicono: vado ad ascoltare Cacciari, Bodei o Vegetti. Dicono: vado a vedere . M’induce a pensare che nei festival, più dei contenuti, conti la partecipazione all’evento. Ma il guaio peggiore è che l’università, dopo le aperture degli anni Settanta, si è richiusa su se stessa. Si è creato un discrimine tra probi studiosi, che non mettono mai il naso fuori dalle aule, e presenzialisti spettacolari, che sono sempre ai talk show. Non è una situazione felice. Però dipende anche da voi giovani. Un tempo gli studenti ponevano domande di senso. Oggi non più.
MARCO PROCOPIO — La nozione di felicità, centrale nell’etica antica, oggi conserva lo stesso valore?
MARIO VEGETTI — No. Oggi la felicità è un sentimento. Il rapporto con la persona amata, una sinfonia, un tramonto ci danno momenti di felicità. Per gli antichi la felicità è un impegno a trovare una forma armonica di rapporto con l’esistenza, per stare bene con se stessi e con gli altri. Richiede un lavoro lungo, faticoso, che dura una vita. Per Aristotele sarebbe stato assurdo dire: ho provato un attimo di felicità. E avrebbe considerato una stupidaggine il diritto alla ricerca della felicità proclamato dalla Dichiarazione d’indipendenza americana.
FEDERICA GALANTE — Oggi si tende a separare la giustizia dai valori, mentre per Aristotele non si può stabilire che cosa è giusto senza una definizione di bene. Cosa ne pensa?
MARIO VEGETTI — Non credo che si possa costruire una teoria della giustizia senza fare riferimento a valori: libertà, dignità, eguaglianza, tolleranza. Altrimenti cadiamo nel positivismo, per cui la giustizia si risolve nel rispetto di norme puramente formali. Detto questo, si apre il problema di come individuare i valori. Possiamo oggi accettare un’impegnativa ipotesi platonica per cui il buono, il bello e il giusto sono idee che esistono a prescindere dalle norme vigenti? Direi di no: la questione della loro oggettività e universalità è altamente controversa. Prendiamo la tolleranza. Non è detto che sia un valore universale: per chi pratica una religione monoteista è difficile accettarla fino in fondo, perché la sua fede è per definizione totalitaria. Se pensasse che tutti hanno una parte di ragione, non sarebbe un monoteista serio. Infatti il principio di tolleranza è stato imposto dall’Illuminismo contro le tradizioni religiose. D’altronde noi ci proclamiamo tolleranti ma ci troviamo in difficoltà se incontriamo degli intolleranti. Tant’è vero che a volte li bombardiamo in nome della tolleranza.
FEDERICA GALANTE — Perché Aristotele ha più successo di Platone tra gli studiosi di filosofia politica?
MARIO VEGETTI — Aristotele presenta una sobria teoria della politica: spiega che cos’è la polis, come può funzionare, descrive le diverse forme costituzionali. Platone non è un teorico, è un visionario, immagina altri mondi possibili. Noi abbiamo bisogno anche di utopia, senza la quale le teorie politiche diventano miopi e conservatrici, però si capisce come mai gli studiosi preferiscano Aristotele. La visione aristotelica è più consona al pensiero liberale oggi dominante: afferma una relativa indipendenza dell’individuo dalla comunità cui appartiene, difende la proprietà privata e la famiglia. Platone non è democratico e tanto meno liberale. Aristotele destorifica e naturalizza. Nel I libro della sua Politica tutto esiste «per natura»: polis , famiglia, cittadino. Le forme politiche, secondo Aristotele, non sono prodotti storici, ma entità naturali, come i fenomeni del regno animale o vegetale. Così la sua teoria, che pure riguarda la polis del IV secolo a.C., è diventata buona per tutte le stagioni, in quanto ipotizza una normalità astorica. In realtà si tratta di un dispositivo insidiosissimo, che legittima per natura anche la schiavitù e la sottomissione della donna. Ma spiega anche il duraturo successo di Aristotele.
MARCO PELUCCHI — La filosofia di epoca ellenistica e imperiale, prodotto di una realtà più vicina alla nostra rispetto alla polis, ha qualcosa da dire al mondo di oggi?
MARIO VEGETTI — Non in senso diretto: quegli autori non offrono soluzioni immediatamente trasferibili ai giorni nostri. Però, secondo me, avremmo un gran bisogno di scetticismo: il primo passo per mettere ordine nel pensiero è sospendere l’adesione alle idee preconcette. Sesto Empirico considerava lo scetticismo una purga per la mente e credo che oggi una simile cura contro slogan e luoghi comuni sia un valido punto di partenza. Invece gli stoici, benché sostengano teorie che giudico bizzarre, sono attuali per il loro rigore morale. Parlo meno degli epicurei, perché per loro non nutro grandi simpatie.
GIULIA BERNARDINI — Lo studio degli autori classici a scuola serve ancora a formare i cittadini?
MARIO VEGETTI — Credo di sì, soprattutto perché aiuta i giovani a prendere le distanze, a non pensare che il mondo in cui vivono sia l’unico possibile. L’esplorazione di una realtà diversa sollecita uno sguardo distaccato, quindi più critico, sul nostro presente. Saremmo molto più poveri intellettualmente se non conoscessimo i classici. Non ne faccio una questione di radici identitarie, che in realtà vengono sempre rimodellate, di generazione in generazione, a seconda dei nostri progetti. Si dice di solito che non c’è futuro senza passato ma io sostengo la tesi opposta: non c’è passato senza futuro. Ci costruiamo un passato, selezionando quello che ci interessa della storia, in rapporto al futuro che vogliamo. Perciò le radici non sono un patrimonio da mettere in cassaforte: per produrre cultura devono essere continuamente reinterpretate e riplasmate.
MARCO PROCOPIO — Lei richiamava prima l’importanza della scienza antica. Studiarne la storia serve solo ai filosofi o anche agli scienziati?
MARIO VEGETTI — Ovviamente non si può fare il filosofo senza conoscere Aristotele, mentre un fisico può ignorare la fisica aristotelica. Tuttavia Ludovico Geymonat, uno dei miei maestri, si batté tutta la vita perché gli scienziati studiassero la storia delle loro discipline. Reputava una ricerca scientifica consapevole del percorso che ha portato allo stato attuale delle conoscenze senza dubbio migliore rispetto alla routine di laboratorio. Il pericolo per gli scienziati è la parcellizzazione: fanno un lavoro meraviglioso ma rischiano di non avere una visione d’insieme. Di recente, proprio sulla «Lettura», il fisico Carlo Rovelli ha scritto che la tanto deprecata Fisica di Aristotele è importante anche, entro certi limiti, nella parte che riguarda la teoria del movimento, purché si faccia riferimento a corpi immersi in un fluido. Mi pare un esempio di come scienziati consapevoli possano leggere utilmente le opere dei classici.
FEDERICA GALANTE — Vorrei tornare al tema della giustizia. Nella Repubblica Platone ci presenta la posizione di Trasimaco, per cui la giustizia è l’utile del più forte. E Socrate non riesce a confutarla definitivamente. Siamo condannati all’ingiustizia?
MARIO VEGETTI — Trasimaco sostiene che la legge costituisce la norma di giustizia. Dato che a promulgarla sono coloro che detengono il potere, ne discende che essi legiferano allo scopo di conservare e consolidare il loro predominio: perciò rispettare le leggi significa collaborare al governo del più forte. Questa è la prima tesi, per certi versi imbattibile, di Trasimaco. La seconda afferma invece il conseguente prevalere dell’ingiustizia. Ed è assai più debole, perché se chi governa (un tiranno o una maggioranza democratica, poco importa) stabilisce la legge in funzione del proprio potere, poi non ha motivo di trasgredirla. Infatti Socrate obietta a Trasimaco che ogni aggregazione umana deve rispettare delle norme: anche una banda di ladri non può funzionare, se i suoi membri si derubano a vicenda. La prima tesi ci riporta invece alla questione dei valori: per confutarla bisogna dimostrare che esiste un ordine di princìpi universali e oggettivi, le idee, indipendenti dalla legislazione in vigore. Così viene meno l’identità tra norma di legge e norma di giustizia sostenuta da Trasimaco. Ma per questo occorre individuare un criterio di giustizia che preceda la legge, in base al quale valutare se una norma è giusta o ingiusta, se va rispettata oppure no: un problema filosofico di assai difficile soluzione.

Corriere La Lettura 10.4.16
Prospettive
Sfida tra islam e occidente Il vincitore è la tecnica
L’economia di mercato privilegia la categoria dell’utile e relega tutto ciò che le si oppone tra le forme degenerate del passato. La tradizione religiosa cerca di porre limiti al dispiegarsi della modernità ma il suo tentativo è destinato a fallire. Intanto una potenza superiore, alimentata dalla scienza e annunciata dalla filosofia, si prepara a occupare la scena del mondo
di Emanuele Severino


L’economia di mercato favorisce il tipo di cultura che serve al potenziamento dell’apparato produttivo e quindi all’incremento del profitto privato. Le forme culturali prive di questo rapporto con la produzione economica restano emarginate. Se ne può prevedere l’estinzione. Lucida e documentata conferma di questa situazione, in ambito universitario italiano, un recente articolo di Ernesto Galli della Loggia ( I sommersi e i salvati nell’università senza passato , sul «Corriere» del 20 marzo): la riduzione dell’organico dei docenti universitari si fa sentire molto meno nelle discipline direttamente connesse all’industria (ingegneria, medicina, giurisprudenza — a questo gruppo credo appartengano anche le scienze economiche). In quelle diversamente orientate la riduzione è più pesante. Non sono soltanto le discipline storiche, o quelle «astratte» come la filosofia, ma persino quelle matematiche, informatiche, fisico-teoriche, biologiche, geologiche, nella misura in cui non sono immediatamente applicabili all’ambito economico.
La propensione dell’economia capitalistica per la cultura «utile» è pressoché inevitabile: ogni quota di finanziamento di quella ritenuta inutile riduce le disponibilità per l’altra, riduce i vantaggi che quest’altra può dare alla produzione di merci e alle transazioni finanziarie, quindi riduce l’incremento del capitale privato. Nelle società avanzate l’economia è oggi la forza vincente; le leggi sono fatte dai vincitori; inverosimile, dunque, che la dimensione economica indebolisca sé stessa finanziando la cultura inutile, soprattutto in un tempo di crisi economica come l’attuale.
Tuttavia questa maniera di servirsi della cultura, da parte del capitalismo, non è forse un suo ancor più grave indebolimento o addirittura un suo andare verso l’estinzione? Un declino che non sarebbe nemmeno glorioso, visto che i modi in cui è giustificata la separazione tra cultura utile e inutile sono quasi sempre forme ingenue di filosofia. I filosofemi con i quali si sostiene che l’unica dimensione autenticamente razionale, e quindi utile, è quella scientifica ignorano che oggi la scienza è specializzazione e che pertanto non può esistere alcuna specializzazione scientifica in cui si mostri che il sapere non specialistico non è autenticamente razionale e utile o, addirittura, non ha alcun valore. Proponiamo alcune considerazioni che consentano di rispondere alla domanda fatta qui sopra.
Per il capitalismo, utile è la cultura capace di guidare la tecnica: la cultura scientifica. Affinché l’incremento del profitto sia costante e sempre più veloce, è necessario che sempre più ampia e veloce sia la produzione economica. È la tecnica moderna a fornire al capitalismo questi caratteri, con una potenza mai prima conosciuta dall’uomo. Quell’incremento richiede, oltre alla produzione, la distruzione. Il capitalismo è stato appunto definito da un suo grande estimatore, l’economista Joseph Schumpeter, «distruzione creatrice»: distruzione delle forme obsolete della produzione. Ma la tecnica è capace di ben altro. Come apparato nucleare può distruggere il mondo; come biotecnologia può riconfigurare l’esser uomo. Oltrepassa ogni Limite. Considera quindi irrilevante interessarsi del passato, incapace di dare all’uomo la potenza che essa è invece in grado di realizzare. E il capitale ritiene di poter cavalcare la tigre della tecnica.
Ma il passato ammonisce la tecnica e chi ritiene di potersene servire. Esistono, ammonisce, Limiti inviolabili . Soprattutto le religioni incarnano il passato. Nonostante la crisi che a loro volta stanno attraversando, sono un punto di riferimento per miliardi di persone. Per il cristianesimo voltare le spalle al passato significa voltarle alla storia della salvezza, cioè all’incarnazione del Verbo; non le si possono voltare nemmeno al sapere filosofico (d’accordo in questo, sia pure in modo profondamente diverso, con quanto accadeva nell’U), essendo esso a costituire i preambula fidei , ossia la base che nell’uomo accoglie la rivelazione di Cristo. E anche la teologia islamica, come quella cristiana, affonda le proprie radici nella filosofia greca. Ma poi è la stessa tradizione filosofica a mostrare a sua volta alla scienza e alla tecnica l’Ordinamento del mondo dal quale nemmeno ad esse è consentito prescindere.
Di fronte alle ammonizioni del passato la replica della tecno-scienza non può essere che debole. Non solo, come si è detto, per la debolezza filosofica che le compete, ma anche perché la tecno-scienza riconosce ormai di non essere verità assoluta, ma un agire che più di ogni altro è in grado di trasformare il mondo. Si comprende così come mai molti scienziati, rendendosi conto del carattere delle loro discipline, recuperino la forma religiosa del passato (preferendola a quella filosofica, molto più complessa) e si dichiarino, appunto, uomini di fede.
D’altra parte , nella sua essenza tendenzialmente nascosta — nel suo sottosuolo — il pensiero filosofico del nostro tempo è effettivamente capace di mostrare (lo vado indicando da tempo) la debolezza sapienziale del passato, cioè l’inesistenza di quei Limiti che l’agire umano non dovrebbe violare perché Dio è il Limite supremo. Il passato è grandioso, ma è un tentativo destinato a fallire. Non per questo va dimenticato: si possono prendere le distanze da esso solo se lo si guarda in faccia.
Si produce in tal modo una situazione straordinariamente imprevedibile. La filosofia è il sapere più inutile e più «astratto», si pensa. (Lo pensava anche Aristotele, ma nel senso, diceva, che essa non è una serva). Ma il sapere più inutile svela l’impossibilità di ogni Limite dell’agire. Fin quando la tecno-scienza ignora tale impossibilità, può rifugiarsi sotto le grand’ali di Dio o del capitalismo e farsi guidare da esse. Può diventare cioè la loro serva; e la sua capacità di oltrepassare Limiti, la sua potenza, viene frenata, limitata, indebolita.
Tuttavia quell’impossibilità la tecno-scienza può venire a conoscerla. (Si può anzi mostrare che è destinata a conoscerla). E sapendo di essere libera diventa libera realmente . Le crescono le ali ed è essa a spiccare il volo. Sapendo della propria potenza diventa realmente potente. Fino a che non lo sa, non lo è; così come, fino a che non sa di essere ricco, uno vive da povero. Per quanto la cosa possa sembrare inverosimile, è il sapere più inutile a rendere realmente potente scienza e tecnica, consegnando loro lo spazio dove possono correre. E, si ripeta, per sapere concretamente l’insostenibilità delle sapienze del passato è necessario conoscerle, cioè conoscere il passato, riuscire a vedere la configurazione storica del mondo. Ma il nostro non è ancora il tempo in cui la civiltà della tecnica, riuscendo a sentire la voce del sottosuolo filosofico degli ultimi due secoli, può realizzare la propria potenza. È il tempo intermedio dove l’economia capitalistica — la gestione oggi più potente della potenza tecno-scientifica — servendosi della tecnica, favorisce la cultura utile e crede di potersi disinteressare del passato e della sua cultura.
In questo modo il capitalismo toglie alla tecnica la possibilità di ascoltare la voce di quel sottosuolo e quindi di sviluppare la propria potenza; e indebolendo la tecnica indebolisce sé stesso. Imbocca la strada che lo conduce verso l’estinzione, perché in un mondo sempre più pericoloso, dove le moltitudini vedono nel capitalismo il nemico che non intende spartire con altri i propri beni, il perpetuarsi del suo indebolimento lo conduce verso la morte. Crede di essere in grado di combattere e vincere i propri nemici; nel fondamentalismo e nel terrorismo islamico vede forme degenerate del passato; ma trattenendosi in quel tempo intermedio — rimanendo sé stesso! — appartiene al passato che esso crede di lasciarsi alle spalle. D’altra parte, uscendo da quel tempo per sviluppare la maggiore potenza (uscendo da sé stesso), il capitalismo cessa di vivere.
Oggi, ampi settori dei popoli poveri non sono più guidati (e contenuti) dall’Unione Sovietica, ma dall’islam, che nel capitalismo vede Satana e spinge contro di lui le moltitudini — sebbene l’islam non veda che, rispetto a sé come alla religiosità cristiana, il Satana autentico è la voce del sottosuolo di cui stiamo parlando, nel suo chiamare la tecnica per liberarla. Tale voce ha diritto di dire che «Dio è morto» — di dirlo con una forza da cui la tradizione dell’Occidente, che include l’islam, è vinta.
Il rapporto tra islam e tecnica è quindi analogo a quello tra capitalismo e tecnica. Come il capitalismo, anche l’islam è in conflitto, oltre che con l’esterno, anche al proprio interno: sunniti e sciiti; fanatismo religioso che conduce al suicidio e uso della religione per motivi economico-politici o per vantaggi personali; terrorismo artigianale e uso della tecnica moderna contro gli infedeli. In quest’ultimo caso, l’islam avrebbe le maggiori probabilità di successo, tuttavia non solo è molto in ritardo rispetto alla gestione capitalistica della tecnica ma a sua volta alla tecnica pone Limiti, spesso ancora più rigidi. Quindi la indebolisce e nel conflitto contro il capitalismo imbocca a sua volta la strada che lo conduce verso la propria estinzione.
I due antagonisti corrono verso la morte. L’Occidente moderno è però più potente. Inoltre il capitalismo, che appartiene all’Occidente in cui si è fatta sentire la voce del sottosuolo della filosofia, può incominciare a sentirla ben prima dell’islam e giungere così al massimo della potenza. Ma, nel momento in cui il capitalismo si imponesse su ogni avversario e fosse il vincitore, in quel momento avrebbe cessato di vivere perché a vincere non sarebbe esso, ma la tecnica liberata dai Limiti, quindi anche da quelli che anch’esso, per vivere, le impone.

Corriere 10.4.16
Un nuovo pensiero per l’Europa
Il Vecchio continente vive una fase di smarrimento, per capirlo serve un’altra prospettiva filosofica. Meglio se italiana
di Donatella Di Cesare


La filosofia italiana non ha nei media e nel dibattito pubblico del nostro Paese lo spazio che meriterebbe. Eppure, basta varcare le frontiere per constatare ovunque, non solo in Europa, ma anche altrove, il riconoscimento tributato al pensiero italiano. Si vorrebbe dire nemo propheta in patria . Ma qui agiscono motivi ulteriori e più profondi: l’atavico complesso di inferiorità di una cultura scaduta per anni nel provincialismo, insieme alla incapacità di valutare degnamente la propria tradizione, a cominciare da quella umanistica, e di farsi dunque carico di un lascito imponente.
Sceglie l’inglese Roberto Esposito per indicare, nel suo ultimo libro, le tre grandi linee della filosofia europea, cioè la German Philosophy , la French Theory e l’ Italian Thought (la filosofia tedesca, la teoria francese, il pensiero italiano). L’inglese rinvia all’angolo di visuale che assume scrivendo e che si compendia nel titolo Da fuori (Einaudi). Perché — dice più volte Esposito — «è sempre l’esterno a illuminare l’interno». Guardare l’Europa, nel suo smarrimento attuale, da fuori, è possibile anzitutto ripercorrendo il cammino della filosofia europea. Già nel Novecento appare chiaro che il malessere è il nichilismo. L’Europa, terra di nascita della filosofia, diviene allora consapevole di non poter perdere il suo nesso vitale con il pensiero, ciò che la contraddistingue. Rischierebbe altrimenti di perdere se stessa. Ma le risposte al «dispositivo della crisi» sono diverse. Alla corrente eurocentrica, quella di Husserl, di Valéry, soprattutto di Heidegger, che reagisce arretrando, nella vana ricerca dell’origine greca, Esposito oppone una corrente che fugge invece dal centro, che contesta la radice, che considera la cultura greca inimitabile, perché già sempre eterogenea e alterata. Ai nomi di Hölderlin e Nietzsche affianca quello di Patocka, il filosofo, morto a Praga nel 1977 per le violenze subite, che nei suoi Saggi eretici aveva delineato una visione del «dopo» — l’Europa dopo e oltre la cortina, finalmente riunificata.
Costante è la presenza di Carl Schmitt nell’opera di Esposito. Anche in questo libro il suo ruolo è rilevante. Merito del giurista tedesco è di aver mutato la prospettiva sull’erosione dell’Europa: dalla terra al mare. Se Heidegger insiste sul radicamento nella terra, Schmitt accoglie la sfida del mare. D’altronde, non è forse nel mare che si costituisce l’Occidente? Come dimenticare la battaglia di Salamina, e quella di Lepanto? Schmitt rinuncia alla europeizzazione del mondo per volgersi alla mondializzazione dell’Europa.
Ecco allora il Vecchio continente visto «dall’altra sponda», con gli occhi di quegli ebrei tedeschi costretti a cercare rifugio oltre Atlantico. Fuori dall’Europa, ma estranei, malgrado tutto, anche all’America. Il «fascino intellettuale che promana dalla Scuola di Francoforte — scrive Esposito — risiede in questa duplice esteriorità». Pagine importanti vengono dedicate alla Dialettica dell’illuminismo e al modo in cui Adorno in particolare decostruisce ogni mitologia dell’origine e ogni «gergo dell’autenticità», scorgendo qui la regressione in cui è caduta l’Europa degli anni Trenta. Sarebbe però un errore credere che i Lumi della modernità possano far uscire dalla crisi, dato che Auschwitz è inscritto nella civiltà europea.
German Philosophy è la filosofia tedesca del dopoguerra, che dovrebbe prendere in carico l’eredità della Scuola di Francoforte e di quegli emigranti che fanno persino ritorno, forse anche per assecondare quel lascito. No, il passaggio di consegne non riesce — ha ragione Esposito. La carica critica si affievolisce nel neoilluminismo di Habermas, convinto che la modernità non si sia ancora compiuta. Serve ancora la Ragione universale — anche per l’Europa e per i suoi conflitti. Habermas diventa capostipite di una filosofia sempre più normativa, affannata a cercare rimedi costituzionalistici, incapace, anche nei suoi epigoni, di dare voce alla società civile.
L’eredità della Scuola di Francoforte viene reclamata, però, dall’altra parte del Reno. A cominciare da Lyotard, i francesi pensano che il progetto di emancipazione, fondato sulla ragione, si sia concluso. Conservatori non sono i postmoderni, ma quelli che cercano nel moderno le chiavi per interpretare una realtà che ne ha varcato i confini. La French Theory segna una nuova deterritorializzazione della filosofia europea. I filosofi francesi diventano egemoni nelle università americane. Ma la decostruzione di Derrida rischia, per Esposito, di esaurirsi nell’impolitico, mentre il futuro dell’Europa è cercato in una identità, talmente differenziata, da diventare evanescente.
L’ Italian Thought si candida allora a essere il pensiero per un’Europa ferita, umiliata, irriconoscibile. Si candida ed è candidato — basta osservarne la risonanza mondiale degli ultimi anni. Erede della crisi interna alla filosofia francese, divisa tra Derrida e Foucault, il pensiero italiano riprende però anche la filosofia tedesca, da Heidegger a Schmitt, a Benjamin. Eccentrico per storia e vocazione, al contempo più arretrato e più giovane, esce da una lunga e traumatica fase di elaborazione negli anni Sessanta e Settanta, si sviluppa intorno alla biopolitica, trova il suo «fuori» nel politico. E riesce a volgerlo in un «contro». Ma non si crogiola nella negazione — è «affermativo». Lontano dall’autonomia della filosofia e dalla neutralità della teoria, è «pensiero» perché nasce dalla prassi. Mostra la sua fedeltà alla tradizione che da Machiavelli giunge fino a Gramsci, si richiama alla parola «civile» che Vico nella Scienza nuova ha elevato a categoria filosofica. Non dovrebbe l’Europa dei popoli aspirare ad essere «potenza civile»?
Italiano nello stile, non per aderenza territoriale, l’ Italian Thought prova ad assumere la prospettiva del mondo per guardare all’Europa. Esposito lo descrive magistralmente dilatando il più possibile la nozione di biopolitica, consapevole che i suoi esponenti, da Tronti a Cacciari, da Agamben a Marramao, da Bodei a Vattimo, fino ai più giovani, pur accomunati da analoghe preoccupazioni — andare, ad esempio, oltre la metafisica, oltre la teologia politica — non sono riconducibili a un profilo unitario. Perciò l’ Italian Thought ha il fascino di un progetto incompiuto, di un viaggio appena intrapreso.

Repubblica Cult 10.4.16
Aldo Masullo
“La filosofia mi ha insegnato che nessuno di noi si salverà da solo”
Heidegger e Husserl, Demostene e Bruno, il “troppo e il nulla di oggi!, la vita che non ci godiamo
Memorie di un grande pensatore napoletano
colloquio con Antonio Gnoli


Aldo Masullo nasce ad Avellino nel 1923. Presto la famiglia si trasferisce a Torino, dove Masullo trascorre i primi anni della sua vita. Suo padre è un impiegato delle ferrovie Nel 1939 vanno a vivere a Nola, in provincia di Napoli
Nel 1943, durante la guerra prende la prima laurea in filosofia con una tesi su Julien Benda. In seguito s’iscrive a giurisprudenza laureandosi in filosofia del diritto nel 1947. Dieci anni dopo ottiene una borsa di studio a Friburgo
Tra i punti di riferimento di Masullo del periodo napoletano ci sono Emilia Nobile, crociana e studiosa dei mistici tedeschi, e Cleto Carbonara, la cui estetica mescola Croce e Gentile. A Friburgo viene a contatto con la fenomenologia
S’intitola Giordano Bruno maestro di anarchia l’ultimo libro di Masullo (edizioni Saletta Dell’Uva). Tra i titoli più recenti: Tempo della vita e mercato del tempo (Franco Angeli), in cui dialoga con l’economista Paolo Ricci di temi finanziari e attuali

La prima cosa che Aldo Masullo dice — alla tenera età di 93 anni che compirà martedì — è di sentirsi un istrione. La maschera del filosofo che pare ereditata dagli ozi campani dell’antica Roma è avvolta da una diafana incorruttibilità. Usa la parola “istrione” con la stessa disinvoltura con cui direbbe “buono” o “interessante” o magari “perfido”. Nell’antica Roma l’istrione era l’attore. Col tempo, si sa, è prevalsa la platealità del mestiere. Petrolini che recitava Nerone era istrione e piacione. Istrione, sommo, fu Carmelo Bene e anche Gassman, il mattatore. Su versante letterario istrione fu D’Annunzio con la sua impresa di Fiume. Masullo è un po’ filosofo e un po’ mattatore; gli piace piacere. Sedurre con la parola. Dal quartiere Vomero dove vive da quasi cinquant’anni — la Napoli degli abbienti, quella perlopiù ignorata dal teatro popolare — si alza un sottofondo di umori commerciali e di traffici collinari. «Qui, a poca distanza, Eduardo Scarpetta si fece costruire un palazzetto in Liberty napoletano: “Villa la Santarella” che poi di santo aveva poco. Ci confinò la moglie e ci scrisse pure una bella frase “Qui rido io”».
Il riso è importante in filosofia?
«Lo è, come ci ha insegnato Bergson. Ma ancora più importante è il gioco. Qualunque cosa si faccia ha alla sua base il gioco simbolico. Lo appresi da Eugen Fink, negli anni in cui studiai a Friburgo. Ai suoi occhi il gioco era l’immagine stessa del mondo, il modello del Tutto. Fink non aveva fatto altro che mettersi nelle mani di un celebre passo di Eraclito: “Il tempo è un fanciullo che gioca a dadi col mondo”. Ne diede una traduzione un po’ diversa, ma il senso era che costruire e distruggere hanno in sé il tratto dell’assoluto e anche dell’innocenza».
Fu un aspetto che incuriosì Nietzsche.
«Al punto da farne uno dei pilastri della sua visione del mondo. Tutto lo stile nicciano, al di là di ogni trattazione seria, richiama il giocoso, il bisogno di “giocare con la filosofia” ».
Il filosofo è una sintesi tra l’artista e il fanciullo.
«Esattamente. Così come l’uomo è di volta in volta giocattolo e giocatore».
Ha mai pensato che siamo nella patria del gioco?
«Intende Napoli?»
Una risposta al fanciullo che gioca a dadi è l’adulto che gioca al lotto.
«Il gioco del lotto è l’enciclopedia del modo in cui il napoletano vive se stesso. Per secoli siamo stati un popolo sottoposto alla dominazione straniera; incapace di riscattarsi e di raggiungere traguardi più degni. Per il napoletano che non accede al regno degli eroi e dei potenti, il lotto è il solo spazio nel quale potersi rifugiare. È destino, caso, fortuna, speranza e trascendenza».
Il suo destino come se lo era immaginato?
«Fuori dalla rassegnazione. Sono nato ad Avellino e con i miei ci trasferimmo a Torino. Mio padre impiegato alle ferrovie. Si pensionò in anticipo e tornammo al Sud, nel 1939. Precisamente a Nola. Scelsero Nola non perché fosse la patria di Giordano Bruno, ma perché c’era un ramo della famiglia, composto da piccoli industriali del vetro ».
Di lì a poco sarebbe scoppiata la guerra.
«Appresi la notizia mentre svolgevo il compito di italiano per la maturità classica. Immaginai la guerra come uno scontro epico, dove tutto si sarebbe rigenerato. Il suo volto terribile lo scoprii in seguito. Ho vissuto le privazioni. Ho visto la ritirata dei tedeschi. Ho assistito all’eccidio di Nola».
Se ne sa poco.
«Fu cruento e coinvolse una guarnigione di militari che resistette alla divisione corazzata “Hermann Göring”. La superiorità tedesca ebbe la meglio. Per rappresaglia furono fucilati dieci ufficiali italiani. Tra questi c’era un tenente, Enrico Forzati, che si offrì al posto di un altro ufficiale. Motivò quel sacrificio così: tu hai figli e moglie, io sono solo. La mia morte non provocherà altre morti».
Che anno era?
«Era settembre del 1943. L’anno dopo presi la prima laurea, in filosofia. Ma non ero certo che avrei fatto il filosofo ».
Cosa lo impediva?
«Avevo iniziato a fare pratica nello studio di un avvocato. Ero attratto dalle dinamiche del processo penale. Mi iscrissi perciò a Giurisprudenza e presi la seconda laurea nel 1947. In quegli anni conobbi Alfredo De Marsico, il grande penalista le cui arringhe a braccio incantavano l’uditorio. Questo monarchico liberale poteva parlare per ore, senza un’incertezza, una sbavatura».
Un modello di istrionismo.
«Incarnava la grande tradizione giuridica meridionale. La sua abilità retorica ricordava l’oratoria di Demostene ». In tarda età difese, con la sua oratoria, uno degli imputati del delitto del Circeo.
«Aveva più di novant’anni quando difese Angelo Izzo, avrebbe fatto meglio a godersi la pensione. Le arringhe sono tecniche di persuasione. Prescindono dall’aspetto etico. Diventano sfide: parole lanciate per sedurre».
A volte per confondere.
«Indubbiamente. Fu Platone che condannò la sofistica ».
Alla fine perché abbandonò il mondo della giurisprudenza?
«Divenni assistente ordinario. Mi ero laureato su Julien Benda, con una tesi discussa con Emilia Nobile, crociana e studiosa dei mistici tedeschi». Benda era famoso per il libello sul “Tradimento dei chierici”.
«Tema a quanto pare ancora oggi attuale».
In quegli anni Croce era la più alta autorità filosofica.
«Il culto di Croce fu un fenomeno che si sviluppò nel dopoguerra. Ricordo quest’uomo dall’aria bonaria che andai a trovare a Palazzo Filomarino. Mi ricevette un po’ distrattamente. Mi disse occupati della storia, la storia è la sola cosa che non morirà mai. C’era come un cerchio magico intorno a lui. Persone che lo proteggevano: i crociani».
Lei non era crociano?
«Mai stato. Allora le mie tendenze — dopo le letture di Boutroux, Blondel, Bergson — erano spiritualiste. E poi c’era il marxismo che cominciava a far presa nel mondo napoletano. Mi trasferii a Napoli nel 1950. Una città che ribolliva di iniziative culturali. A parte l’interesse per Marx — di cui si fecero fautori Napolitano, Amendola e lo stesso Alicata — c’era la Società filosofica che a Napoli era coordinata da Cleto Carbonara, un uomo di notevole ingegno teorico che tentò di ibridare Gentile e Croce, correggendone i formalismi astratti con un’apertura all’empirismo».
Lei era all’università?
«Sì, come assistente ordinario. In quel periodo alla cattedra di teoretica fu chiamato Paolo Filiasi Carcano, allievo di Antonio Aliotta. Paolo era una personalità complessa. Studioso di matematica, interessato alla psicoanalisi. Fu lui a introdurre all’università di Napoli la fenomenologia di Husserl».
Accennava al suo periodo in Germania.
«Fu dopo che conseguii la libera docenza, nel 1957, che ottenni una borsa di studio per Friburgo. Vi avevano insegnato prima Husserl e poi Heidegger. Ci insegnava ancora l’ultimo allievo di Husserl: Eugen Fink. Era un uomo simpaticissimo. Un grande seduttore. Non so quale demoniaca inclinazione possedesse, ma aveva la capacità di inchiodarti con le parole e lo sguardo. Le sue riflessioni filosofiche sugli aspetti simbolici del gioco sono state fondamentali ».
Che Germania aveva sotto gli occhi?
«Un paese che stentava a rinascere dopo la sconfitta. La società civile non aveva ancora assorbito il trauma della guerra. Meglio andava la società culturale che oscillava tra la grande tradizione goethiana e il rinnovamento letterario, in particolare promosso dal “Gruppo 47”. Noi italiani, sparsi nelle università, eravamo interessati alla loro
filologia e alla filosofia. Perfino a Nietzsche, considerato in quegli anni un autore pericoloso. Ricordo certe sere in cui Ferruccio Masini, che sarebbe diventato un eccellente germanista, mi leggeva in tedesco Così parlò Zarathustra».
Un libro per tutti e per nessuno, come recitava il sottotitolo.
«Un poema vertiginoso, beffardo, profetico. Dove tutta la modernità è chiamata al cospetto di quest’uomo che l’accusa degli scempi peggiori. E lo fa con la tranquillità di chi descrive qualcosa di ineluttabile. No, non è un libro per tutti, come scrisse ironicamente. È un libro per coloro che amano tramontare».
Che cosa è per lei il tramonto? Condizione nella quale mi pare versiamo ampiamente.
«Tramontiamo da sempre come da sempre il nichilismo pervade l’Occidente. Fu Eraclito a ricordarci che di ogni ente mortale non si può disporre due volte. E che la cosa mentre è non è. Contro il nichilismo si sono costruite macchine ideologiche e religiose oggi inutilizzabili. Anche perché è mutato il senso che noi attribuiamo al nichilismo ».
Viviamo in un’epoca nichilista?
«Vi siamo pienamente immersi. Ma con questa differenza rispetto al passato: oggi non è più interessante il nichilismo teorico, quello che affermava, da Nietzsche a Dostoevskij, che siccome non c’è più verità allora tutto è possibile. Oggi la gente ha rovesciato questa sentenza e dice che siccome tutto è possibile allora non c’è più verità».
Con quali conseguenze?
«Che al nichilismo non ci si oppone con la filosofia, con la teoria. Il problema è diventato politico. E purtroppo la politica non nasce astrattamente. Non può essere un gesto di buona volontà. Occorre un processo storico che tenga conto delle nostre vite concrete. Del punto in cui si collocano ».
Dove esattamente?
«Il nostro tempo storico ci mostra qualcosa di paradossale: nel massimo della connessione informatica, l’uomo sta vivendo il massimo della sconnessione civile. Il compito della politica — al di là delle esigenze amministrative — dovrebbe essere quello di ricreare una tensione verso l’unità, la connessione appunto. Non virtuale, ma dei corpi. Ma ho paura di parlare invano».
Paura perché?
«Ho l’impressione che stiamo vivendo ciò che io chiamo la “razionalità idiota”. Idiota non tanto delle scarse capacità intellettive, ma come suggerivano i greci dell’attenzione dedicata al proprio particolare. Siamo come i topi di una nave che affonda, ciascuno cerca la sua via di salvezza. Ma non è così che ci si salva».
In quale modo, allora?
«Una delle chiavi della modernità civile è il rispetto. Che non vuol dire devozione, ma consapevolezza della relazione. Tutto ciò che io penso ha un senso solo se si confronta con quello che pensano gli altri. Il rispetto significa non interferire con la vita mentale dell’altro, ma confrontarsi con essa».
Il che non impedisce incertezze, equivoci, prevaricazioni.
«Tutto questo rientra nel sentire della vita. Ho elaborato in modo diverso la categoria della paticità. Il pathos non significa, come comunemente era stato inteso dopo le deformazioni romantiche, soffrire. Pathos è provare. Provare la vita».
E Dio?
«A chi mi chiede se ci credo, rispondo che non sono fatti suoi. Dopo Kant Dio non è più un problema della filosofia ».
Lei dice “provare la vita”, tutti la provano, meglio ci sono immersi.
«Ciò che intendo dire è che la mia vita appartiene a una realtà sempre in movimento. Non posso esiliarmi da essa. Ma devo comprendere come starci. Siamo semplici particelle di energia, secondo la visione democritea, che si muovono a caso o esprimiamo un’energia vitale e unitaria come pensarono gli stoici e in seguito Giordano Bruno? » Che risposta dà?
«Oggi viviamo più la prima. Ma dovremmo richiamarci a quel maestro di anarchia che è stato Giordano Bruno, per il quale l’unica conversione possibile era alla giustizia ».
Si sente un uomo realizzato?
«Non lo sono. Più vado avanti negli anni e più o la sensazione di aver perduto tempo. Un tempo ormai irrecuperabile. Le confesso però che non mi pento di nessuna delle cose che ho fatto, mentre mi pento per tutto quello che non ho fatto».
Ancora una punta di istrionismo.
«Torniamo alla teatralità e al gioco».
Torniamo a una certa idea di Napoli.
«Questa città è solo rappresentazione. Ci innamoriamo del nostro apparire belli e singolari agli occhi del mondo. Una forma di narcisismo che spinge una società urbana alla propria decadenza. Ma non possiamo vivere di solo fascino. Perfino la malinconia napoletana è diventata qualcosa di pittoresco».
Forse di necessario.
«Chi lo sa. In un verso Empedocle dice: “La grazia odia l’intollerabile necessità”. Il nostro popolo non ha mai amato la necessità. Semmai l’ha vissuta, o aggirata con estro e fantasia. Ma oggi queste ultime sono armi inservibili. Oggi bisogna ritrovare la nostra destinazione che non è la morte, che pure arriverà e in me non è lontana, ma la vita. L’umanità sta uscendo sconfitta dal troppo. C’è troppo di tutto. Almeno qui, in Occidente. Cominciamo a viaggiare più leggeri».

Repubblica Cult 10.4.16
I tabù del mondo
Il protagonista della parabola raccontata dall’evangelista Luca fugge dalla famiglia e finisce in povertà

Ma la sua sfacciata ribellione, la sua richiesta di avere subito la sua parte di eredità è molto attuale: “I nostri ragazzi non sono forse animati dalla stessa spinta al godimento immediato?”
È irresponsabile, infrange la Legge, ma è capace di compiere un atto fuori dalla tutela garantita del genitore. Non come il fratello, passivo e risentito
Il coraggio del figliol prodigo di sfidare il padre
di Massimo Recalcati


Quale è la forza della parabola evangelica del figliol prodigo? Essa ci porta nel vivo del complesso rapporto tra padri e figli. La sua straordinaria attualità è evidente sin dalla sua apertura: il figlio minore reclama il diritto a ricevere subito la parte dell’eredità che gli spetta schierandosi apertamente contro la Legge ebraica che imponeva che l’eredità potesse essere divisa solo dopo la morte del padre. Egli sfida sfacciatamente il tabù del padre; non ha timore, non retrocede. La sua domanda incarna una esigenza che non può essere differita e che non conosce mediazioni. La sua forma è imperativa come riporta l’evangelista Luca. Il figlio si rivolge al padre dicendogli: «Dammi!». Il padre viene inchiodato a commettere un atto contro la Legge: dare al figlio minore la sua parte di eredità pur essendo ancora in vita. Non è questa una cifra del nostro tempo, come ricorda in un intenso commento di questa parabola Paolo Farinella in Il padre che fu madre (Gabrielli editori, 2010)? I nostri figli non sono forse animati da domande imperative, dalla spinta a realizzare il prima possibile un godimento che non tollera più alcun differimento? Non è questo forse uno scoglio sul quale sembra infrangersi il discorso educativo contemporaneo? L’esclamazione «Dammi!» misconosce il debito ribaltandolo in un credito infinito. Essere figli non implica l’iscrizione della vita nella catena delle generazioni che ci hanno preceduto, non implica alcun debito simbolico ma solo un credito sconfinato. Il figlio minore non assume nessuna responsabilità se non quella della sua domanda impaziente. E, tuttavia, è proprio questo figlio irresponsabile che infrange la Legge, che abbandona la casa del padre mettendosi in moto verso un paese lontano, il solo capace di compiere un atto fuori dalla tutela garantita del padre. Tra i due figli del padre è quello più giovane, più libero, meno vincolato al debito a compiere un passo giusto al di fuori dalla famiglia. Al contrario, il fratello maggiore resta schiacciato da una responsabilità che egli interpreta solo in modo sacrificale, come fedeltà passiva e obbediente al padre. Nella sua ottica miope e risentita il giusto erede è colui che si limita a ripetere la scelta del padre.
In questo modo la parabola lucana evidenzia due peccati contrapposti che sembrano definire due fallimenti differenti dell’eredità. Il più giovane pecca per misconoscimento del debito, mentre il primogenito per una sua interpretazione solo sacrificale; il primo sceglie la via improduttiva della rivolta nei confronti del padre, mentre il secondo quella, ugualmente improduttiva, della obbedienza rinunciataria e risentita. Per entrambi l’accesso ad una giusta eredità resta precluso. E, tuttavia, tra i due il solo capace di trasformazione è il più giovane. Conosciamo la storia: sperpererà la sua parte di eredità in un paese lontano, finirà povero a contendere le ghiande ai porci. E quando deciderà di ritornare a casa resterà ancora incapace a cogliere la radice profonda del gesto del padre che lo ha lasciato andare e che ora si appresta a festeggiare il suo ritorno. In realtà nessuno dei due figli sa davvero cosa può essere la solitudine di un padre. L’irrequietezza rivoltosa del più giovane e la fedeltà risentita del primogenito sono solo due interpretazioni nevrotiche del dono paterno. Ma solo il figlio che ha rischiato di perdersi potrà davvero conoscerlo. Il padre non punisce il figlio che ritorna, non applica su di lui la Legge, non lo castiga. Questa sarà piuttosto l’attesa delusa del fratello maggiore. Il padre spiazza la Legge perché corre incontro al figlio, lo abbraccia, lo riveste convocando una festa in suo onore. Perché? Scegliendo la via del perdono offre la possibilità al figlio di conoscere una nuova versione della Legge. Non quella che punisce, che sentenzia. Il padre della parabola è un padre capace di amare perché capace di perdonare, ovvero di sospendere l’applicazione automatica della Legge nel nome dell’esistenza di un’altra Legge. Il padre accoglie il figlio che ritorna e solo in questo gesto lo può davvero ritrovare come figlio, o, meglio, lo fa nascere una seconda volta come figlio giusto. È questo il nucleo più profondo della parabola: non è forse la forza straordinaria del perdono a rendere possibile il miracolo della resurrezione? A consentire il ritrovamento di chi si è perduto, a consentire una seconda possibilità? È questa l’immagine evangelica del pastore che si preoccupa dell’eccezione inquieta della pecora smarrita trascurando la normalità tranquilla del resto del gregge. Il comportamento del pastore appare scriteriato dal punto di vista della ragione: perché mettere a repentaglio un patrimonio intero per rincorrere una sola pecora? Egli però si allarma perché vuole dare testimonianza del fatto che «gli uomini non sono fatti per la Legge», ma è la «Legge che è fatta per gli uomini». Il padre sa bene che la festa in onore del figlio spiazza ogni applicazione canonica della Legge aprendo la porta all’evento sempre possibile della grazia. Ma non dobbiamo leggere in questa apertura imprevedibile, ma possibile, dell’eccezione la differenza tra il Dio biblico e quello pagano che, invece, condanna spietatamente il figlio-Edipo al suo irrevocabile destino di figlio perduto, incestuoso e parricida? Non è forse per questa ragione che il Dio cristiano è sempre più interessato agli atei che non ai credenti? Che la sua gioia è maggiore «per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione » (Lc, 15,7.10)?

Repubblica 10.4.16
Come (non) vivere nell’età dell’ansia
Il neuroscienziato americano Joseph LeDoux analizza i meccanismi e le radici profonde dell’emozione negativa che caratterizza la storia dell’uomo
di Massimo Ammaniti


Non sono l’amore o la gioia le emozioni che proviamo più spesso, è piuttosto l’ansia, quella preoccupazione che ci disturba quando stiamo per affrontare qualcosa di impegnativo oppure ci aspettiamo che possa succedere qualcosa di negativo in futuro. È entrata non solo nella nostra vita, ma anche nel nostro linguaggio, con sfumature diverse se arrivi o meno a bloccarci: “mi è venuta l’ansia” oppure “ho una crisi di panico”. Ma per capire che cos’è questa emozione e come si può curarla giunge a proposito un libro corposo Ansia (Raffaello Cortina) di Joseph LeDoux, un famoso neuroscienziato americano, ben noto anche in Italia per i suoi libri sulle emozioni, che hanno suscitato un interesse anche al di là del pubblico specialistico. In questo libro LeDoux procede in modo sistematico definendo inizialmente la differenza fra ansia e paura, emozioni che hanno costantemente accompagnato il percorso umano dalle caverne alle metropoli. Ma forse in passato era maggiormente la paura che serrava il petto degli uomini come una morsa di fronte ai pericoli della vita quotidiana, mentre l’ansia che si prova oggi riguarda piuttosto uno stato del sé, uno stato di apprensione per un pericolo indefinito e indefinibile. Se questa è la frequente condizione dell’uomo di oggi va differenziata dal disturbo d’ansia, che invece è legato ad una fragilità della regolazione emozionale e che comporta una limitazione della vita personale anche grave. Forse un aspetto che nel libro non è sufficientemente sottolineato è il valore adattativo dell’ansia che ci segnala le situazioni che richiedono una particolare attenzione e che pertanto attivano le nostre risorse per poterle affrontare nel migliore dei modi, mentre nel disturbo d’ansia vi è un costante allarme che ci ostacola e non ci aiuta a discriminare possibili pericoli.
Naturalmente l’ansia ha radici profonde non solo nel cervello, ma anche nel corpo perché comporta vissuti somatici che la caratterizzano. L’apporto di LeDoux è determinante per chiarire quali siano i meccanismi cerebrali dell’ansia. Non va dimenticato che i farmaci più consumati al mondo riguardano gli ansiolitici che possono dare un sollievo momentaneo, ma che spesso non risolvono gli stati d’ansia. Più interessanti sono i trattamenti psicologici che aiutano a modificare i meccanismi di regolazione dell’ansia, che rispondono a presupposti clinici diversi, ma anche a specifiche attivazioni cerebrali.
Ma le pagine più interessanti sono quelle in cui LeDoux parla di come ognuno di noi può cercare con le proprie risorse di non farsi sopraffare da queste preoccupazioni, immersi come siamo in un periodo che potremmo chiamare, riprendendo il libro del poeta britannico Wystan Auden, “L’età dell’ansia”.
ANSIA di Joseph LeDoux RAFFAELLO CORTINA TRAD. DI G. GUERRIERO PAGG. 640 EURO 36

Repubblica Cult 10.4.16
La parabola di Simone Weil verso l’assoluto
di Francesca Bolino


Il sogno di una psichiatria “umana, gentile e fenomenologica” che possa essere non solo scienza naturale ma anche umana e che ricerchi il “senso solo apparentemente perduto della follia” è quello di Eugenio Borgna, un grande psichiatra che ha investigato per molti anni le pieghe dell’anima di pazienti e ammalati dell’ospedale di Novara. Con questo saggio dal titolo emotivo ed appassionato ( L’indicibile tenerezza), a 84 anni, ripercorre le vie impervie di una figura femminile molto discussa: Simone Weil. Lo psichiatra confessa di aver iniziato a leggere i testi “meravigliosi” della filosofa francese appena finito il liceo. Simone Weil conduce all’assoluto: una via solitaria e negativa percorsa attraversando l’esperienza del male radicale, una condizione umana di “malheur” (infelicità, sventura) che rifletteva anche la condizione femminile: il dolore e la solitudine con estreme conseguenze nel vivere e nel morire. Simone Weil, la sua vita, la sua giovinezza stroncata da un male oscuro e dall’anoressia, la strepitosa e inaudita immaginazione creatrice, la sua febbrile genialità, la sua passione e il suo entusiasmo, scrive Borgna, “si riflettono in una psichiatria aperta al mistero del vivere e del morire”. Un’avventura umana breve (è morta a 34 anni) e incredibile per l’urgenza di provare e condividere ogni forma, dolente e radicale, della condizione umana. In questo “malheur” le ragioni della speranza ci sono e stanno nell’amicizia, che è grazia e speranza, contemplazione e preghiera. Dev’essere però una “gioia gratuita”, che non nasce se non è accompagnata dall’attenzione, che con la sventura – scriveva Maurice Blanchot – è parola indispensabile per comprendere la vertigine umana di Simone Weil.
L’indicibile tenerezza di Eugenio Borgna Feltrinelli pagg. 264, euro 18

Corriere 10.4.16
Così torna a salire la spesa militare
di Danilo Taino Statistics Editor


La Grande Crisi è finita, a giudicare dalle spese militari nel mondo. Forse, un’altra inizierà, più calda, sempre a giudicare da quanto i Paesi investono in armamenti. Per la prima volta dal 2011, la spesa militare è tornata a salire, nel 2015: dell’1% rispetto all’anno prima, a 1.676 miliardi di dollari, il 2,3% del Pil globale. Non è solo la ripresa di un trend che era stato interrotto dalla recessione seguita al crollo della Lehman Brothers nel 2008: c’è qualcosa di nuovo, se è vero che la crescita è avvenuta nonostante le ristrettezze di bilancio di molti Stati, in particolare dei produttori di petrolio che soffrono del crollo del prezzo del greggio. I dati vengono dallo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), uno dei più autorevoli nel settore, che li ha pubblicati pochi giorni fa.
La crescita non sorprende, viste le tensioni che si accumulano sul pianeta. È però interessante vedere nello specifico le tendenze. Gli Stati Uniti, di gran lunga il maggiore investitore in armamenti, hanno continuato a ridurre la spesa, del 2,4% , a 596 miliardi di dollari: ma è una riduzione molto inferiore a quella degli anni scorsi. Al secondo posto c’è la Cina, che Sipri stima a 215 miliardi (sempre dollari): una crescita del 7,4% . Al terzo l’Arabia Saudita, in aumento del 5,7% a 87,2 miliardi. E al quarto la Russia, che nonostante la crisi della sua economia ha speso nel 2015 il 7,5% in più dell’anno prima, a 66,4 miliardi. A causa del crollo del prezzo del petrolio e delle materie prime, alcuni Paesi hanno effettuato tagli drammatici del budget militare: il Venezuela del 64% , per dire, l’Angola del 42% . Ma altri esportatori di energia hanno continuato a gonfiare gli investimenti in armi, in particolare quelli coinvolti in conflitti o in zone a tensione crescente: oltre a Russia e Arabia Saudita (che per il 2016 prevedono tagli), Algeria, Azerbaijan, Vietnam.
Sipri si domanda se la riduzione delle spese militari in Occidente stia per arrestarsi. Stati Uniti a parte, in Europa gli investimenti sono scesi solo dello 0,2% : sostenuti dal forte riarmo nei Paesi dell’Est europeo ex socialista. Anche il calo nell’Europa occidentale è però rallentato, all’ 1,3% , la riduzione minore dall’inizio della crisi dell’euro. L’Italia è al 12° posto per spesa militare: 23,8 miliardi di dollari, il livello circa del 1999 , molto meno dei 31,6 del 2014 . È l’ 1,3% del Pil.

La Stampa 10.4.16
Davigo eletto presidente dei magistrati
Da Tangentopoli alla guida del «sindacato delle toghe» Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite, è stato eletto ieri per acclamazione alla presidenza dell’Anm
Sulla giustizia un messaggio al premier
Il ”dottor Sottile” di Mani pulite alla guida dell’Anm. Subito dichiarazione contro Renzi “Il suo ‘brrr... che paura’ non mi è piaciuto. Sì al dialogo, ma non leda la nostra dignità”
di Antonio Pitoni


Mentre torna la tensione tra il governo e i giudici sull’onda dell’inchiesta della procura di Potenza, l’Anm sceglie per acclamazione come presidente Piercamillo Davigo. L’ex pm di Mani pulite bacchetta Renzi: «Ci rispetti, non mi è piaciuto il suo sarcasmo sulle toghe».

Un avvertimento per il passato. Quello sprezzante «brrr… che paura» - rivolto dal premier Matteo Renzi alle toghe in protesta per il taglio delle ferie - a Piercamillo Davigo, neo presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), eletto per acclamazione, non è «piaciuto per niente». Segno che, dopo oltre un anno, l’attuale consigliere di Cassazione non lo ha evidentemente dimenticato. E un altro per il futuro: «Le intercettazioni? Non vedo il problema».
Un debutto eloquente che disegna (e segna?) la rotta dei futuri rapporti tra esecutivo e magistratura. «Non esistono governi amici né governi nemici, esistono governi con i quali non si può fare a meno di dialogare», assicura Davigo. Con una postilla decisiva: «La pretesa del rispetto della nostra dignità». E mettendo in conto anche possibili divergenze e momenti di scontro. «È giusto che ci sia tensione tra potere politico e giudiziario», sottolinea l’ex pm di Milano. Perché «non sono i Paesi dove si vorrebbe vivere quelli in cui le decisioni dei giudici hanno sempre l’approvazione del governo».
È il biglietto da visita del nuovo corso del sindacato delle toghe. Fondato sull’accordo che ha tenuto a battesimo la giunta unitaria votata dai 36 membri del Comitato direttivo centrale. E incentrato sulla staffetta al vertice tra i componenti delle quattro correnti rappresentate nel Comitato stesso per ciascuno dei quattro anni del mandato. Inaugurato proprio dalla presidenza di Davigo (Autonomia & indipendenza, nata dalla scissione da Magistratura indipendente) che sarà affiancato, nei prossimi dodici mesi, dal segretario di Unicost Francesco Minisci. A loro volta coadiuvati dai vice presidente e vice segretario, Luca Poniz (Area) e Corrado Cartoni (Mi).
Un esordio, per la nuova giunta, che entra subito nel vivo con il primo dossier sensibile: la riforma delle intercettazioni sulla quale, all’indomani dello scandalo Tempa Rossa in Basilicata, il governo è deciso ad accelerare. «La pubblicazione di intercettazioni non pertinenti è già disciplinata dal reato di diffamazione. Non vedo il problema», taglia corto Davigo aprendo di fatto il primo fronte con l’esecutivo. E a chi gli chiede di commentare le dichiarazioni di Renzi sull’inchiesta della procura di Potenza («C’è stata un’offensiva mediatica, ogni giorno usciva il nome di un ministro. Tutto casuale naturalmente»), il presidente dell’Anm si limita ad una constatazione: «Momenti difficili» tra la politica e la magistratura «ci sono da quando faccio il magistrato».
L’accordo sulla nuova giunta dell’Anm arriva al termine di una giornata in cui non mancano neppure le tensioni tra le stesse toghe all’interno del Comitato direttivo. Alimentate dal braccio di ferro tra la corrente di Davigo (A&I) e Unicost sul peso numerico delle rispettive rappresentanze in seno all’organo esecutivo dell’Anm. Una diatriba risolta con la mediazione di Mi e Area, la corrente, quest’ultima, che esprimerà la presidenza il prossimo anno con Eugenio Albamonte. «L’obiettivo era dare vita ad una giunta unitaria e il risultato raggiunto è senz’altro positivo - assicura il pm romano -. La battuta di Davigo su Renzi? Non ha significato politico. La linea sarà di confronto leale con il governo. L’intenzione è di non limitarci a ricevere e valutare le proposte dell’esecutivo, ma di farci a nostra volta promotori di proposte da sottoporre al dibattito politico». In serata Davigo ha ricevuto anche la telefonata d’auguri del vice presidente del Csm Giovanni Legnini. I due si vedranno a giorni.

Corriere 10.4.16
Piercamillo Davigo, neopresidente dell’Associazione magistrati
Lo stop sulle intercettazioni
E l’accusa diretta al premier: su di noi ha detto bugie
intervista di Giovanni Bianconi


ROMA «Far intendere che i magistrati lavorano poco, e da questo dipende il disastro della giustizia è una bugia». La replica di Piercamillo Davigo, neopresidente dell’Associazione magistrati, al premier Matteo Renzi arriva dritta e immediata. Per il passato, quando il capo del governo intervenne sulle ferie troppo lunghe dei giudici, e forse per il presente, visto che ripete a ogni piè sospinto che le sentenze tardano troppo ad arrivare. «Noi lavoriamo tanto, e lavoriamo bene», insiste Davigo, riscuotendo l’applauso delle toghe che hanno deciso di eleggerlo a loro rappresentante anche per fronteggiare meglio la nuova tensione che s’è creata con il potere esecutivo. E riferendosi al «Brrrr... che paura» con cui il presidente del Consiglio ribatté alla protesta dell’Anm sul taglio unilaterale delle vacanze, un anno e mezzo fa, dice: «Non mi è piaciuto per niente». Poi spiega: «Noi rivendichiamo meriti e invochiamo rispetto da parte di tutti. Prima di fare il magistrato ho lavorato in Confindustria e mi occupavo di relazioni sindacali; non ho mai visto un datore di lavoro che decide la riduzione delle ferie senza consultare la controparte».
Ma da allora le questioni sul tavolo sono aumentate, con nuove emergenze. Dopo l’inchiesta di Potenza si ricomincia a parlare di riforma delle intercettazioni: «Siamo alle solite, si pensa di curare la malattia cambiando il termometro. Non mi pare un buon sistema...». Stavolta, però, il mirino non pare puntato sull’uso delle microspie da parte della magistratura, bensì sulla pubblicazione delle colloqui registrati sui giornali. Risposta del nuovo leader dell’Anm: «Se nelle intercettazioni pubblicate non c’è attinenza con i reati, o i fatti riportati non sono veri, c’è già la legge sulla diffamazione che si può applicare, quindi non vedo dove sia il problema. Certo però che se i fatti sono attinenti e di interesse pubblico, come i personaggi coinvolti, allora è un altro discorso. Come si può pretendere che non se ne parli?».
L’indagine di Potenza ha portato alla ribalta il reato di «traffico d’influenze», varato nel 2012, e c’è già chi lo contesta. Ma per Davigo quella riforma è stata fatta tardi e male: «Sarebbe bastato aggiungere al millantato credito, punito con una pena fino a 5 anni di carcere, il “vantato credito”, seguendo le indicazioni della giurisprudenza. Invece che hanno fatto? Hanno introdotto il nuovo reato per chi non millanta ma favorisce realmente qualcuno in cambio di utilità, punendolo con la pena fino a 3 anni, cioè meno di chi millanta. Dov’è la logica?».
Nelle sue reazioni il premier Renzi ha difeso l’autonomia del Parlamento nel fare le leggi, mettendosi a disposizione dei magistrati per rivendicare gli emendamenti governativi finiti negli accertamenti dei pubblici ministeri lucani. Anche questa, per Davigo, è una forzatura: «Nessuno si è mai sognato di mettere in discussione il potere legislativo. Il problema è se emergono elementi che fanno sospettare qualcosa di illecito nell’ iter di formazione di certe leggi». In quei casi, per Davigo, è giusto indagare. Ma pure su questo c’è chi ha da ridire: non piacciono i magistrati alla ricerca dei reati. Il neo-presidente delle toghe risponde con una battuta: «Se i reati spuntassero come le margherite nei prati il nostro lavoro sarebbe molto più semplice...».
Insomma, l’antifona è chiara: l’ex pm di Mani Pulite è pronto a rispondere colpo su colpo. E sulla comunicazione confida molto, esplicitando una filosofia quasi renziana: «È essenziale farsi capire. Dicono che dovremmo parlare solo con le sentenze, che spesso sono illeggibili per necessità tecniche. Invece noi dobbiamo essere chiari, con frasi brevi e semplici, per spiegare ciò che altrimenti resterebbe incomprensibile». Né sembra impressionato da una nuova stagione di scontro tra politica e magistratura: «Una volta, in una trasmissione televisiva, mi fu chiesto come si poteva fare per mettere fine al conflitto tra politica e giustizia. Risposi che la soluzione si troverebbe facilmente se i politici smettessero di rubare». E davanti ai suoi colleghi, quasi a illustrazione del programma che intende perseguire nell’anno in cui guiderà l’Anm, afferma: «Non esistono governi amici né governi nemici. Noi dobbiamo tutelare la giurisdizione. Che ci siano dialettica e anche momenti di tensione è pressoché inevitabile. Del resto, come disse Lord Byron (poeta e politico inglese di inizio 800, ndr ) esistono i Paesi in cui le decisioni della magistratura incontrano i favori dei governi, ma non sono i Paesi in cui si vorrebbe vivere».

L’Huffington Post 10.4.16
Piercamillo Davigo
Con gli stivali, nella palude
di Gianluigi Pellegrino

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Repubblica 10.4.16
Grillo e il M5S ora tallonano il Pd e vincerebbero al ballottaggio: è l'effetto delle inchieste
(lapresse)
Atlante politico. Sondaggio Demos, svolta di opinione. Il 45% giudica peggiore la corruzione di oggi rispetto alla Prima Repubblica
E le intenzioni di voto fanno tremare Renzi
di Ilvo Diamanti

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L’Huffington Post 10.4.16
Sondaggi certificano l'effetto Guidi sul Governo Renzi. Per Ipsos persa credibilità. Per Demos M5S vince al ballottaggio

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Repubblica 10.4.16
Le vette di Francesco e la palude dove Renzi annaspa
"L'affarismo c'è nel governo Renzi ed è un affarismo connesso con la corruzione. Non credo che riguardi Renzi person
almente, ma certo permea molto da vicino il governo da lui guidato"
di Eugenio Scalfari
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La Stampa 10.4.16
Potenza, da Poggiolini al calcioscommesse
ecco i tre pm che fanno tremare il governo
Il pool guidato da Luigi Gay indaga sul petrolio in Basilicata


Non tragga in inganno il clamore mediatico da cui sono stati travolti negli ultimi dieci giorni. È la riservatezza la cifra dei tre magistrati di Potenza titolari dell’inchiesta sulle estrazioni petrolifere in Basilicata, che ha portato alle dimissioni della ministra Federica Guidi.
Il procuratore capo Luigi Gay, 67 anni, l’aggiunto Francesco Basentini e la pm Laura Triassi, rispettivamente 53 e 59 anni, sono discreti nel modo di lavorare e di muoversi. Appartengono alla Direzione distrettuale Antimafia, ma girano tutti e tre senza scorta. Basentini si concede il piacere di un Suv nero, la Triassi la comodità di una piccola Micra color argento, mentre il procuratore è l’unico ad avere l’autista, Rocco, che non appartiene alle forze dell’ordine. Il più legato al territorio è Francesco Basentini, nato e cresciuto a Potenza dove ha sempre esercitato il ruolo di magistrato inquirente, esperto di criminalità organizzata. In verità mai casi così importanti da attirare i riflettori, se non un’inchiesta antesignana dello scandalo sul Calcio Scommesse. Fu lui a indagare, nel 2009, sul clan degli zingari intorno alle scommesse illegali che portarono all’arresto del presidente del Potenza calcio. Unico neo, proprio nei giorni in cui preparava l’interrogatorio della ministra Maria Elena Boschi come persona informata dei fatti, l’intervento disciplinare da parte del Csm. Lo scandalo petrolifero però non c’entra nulla: la vicenda riguarda l’inchiesta di Basentini sui rimborsi regionali della Basilicata. Il Consiglio superiore della magistratura ha chiesto «limitatamente alla questione dell’omessa astensione», di trasmettere gli atti ai titolari dell’azione disciplinare, tra cui il ministro della Giustizia Andrea Orlando, per valutare la «convenienza» del pm di indagare su un consigliere regionale che, in qualità della sua professione di avvocato, era coinvolto in un esproprio immobiliare che riguardava il padre del magistrato.
Napoletana è invece Laura Triassi, che proprio nel capoluogo campano, come gip, negli Anni 90, si occupò della Mani pulite partenopea con l’arresto dell’ex direttore del settore farmaceutico del ministero della Sanità, Duilio Poggiolini e consorte. Ricordate? Finirono su tutti i Tg beccati con svariati miliardi delle vecchie lire in lingotti d’oro nascosti in casa.
Ma anche a Potenza Laura Triassi è salita alla ribalta delle cronache per il processo sul delitto di Elisa Claps. La pm, tra l’altro, ha ricoperto l’incarico di reggente alla Procura di Potenza per quasi due anni, dopo il trasferimento a Napoli del procuratore Giovanni Colangelo. Ed era addirittura in corsa per la poltrona più ambita della procura, ma invece è stato nominato Luigi Gay. Tutta casa e procura, si rilassa con il nuoto nella piscina della vicina Pignola, un piccolo centro a una ventina di chilometri da Potenza.
Tra Palazzo di Giustizia e l’ex seminario trasformato in hotel ci si può invece imbattere al mattino presto nel procuratore, mentre si prepara per il suo hobby preferito, la corsa. Luigi Gay alloggia in hotel perché si divide tra Potenza e Caserta, dove vive la moglie, ex assessore alla Cultura di una giunta di centrodestra. Gentile, ma molto formale, Gay è nato a Udine, ma da adolescente si è spostato a Napoli per frequentare la scuola militare della Nunziatella. Proprio nel capoluogo campano (dove è arrivato dopo un’esperienza alla Procura di Torino) ha riscosso molti successi professionali contro la camorra, impegnato nel pool coordinato dall’attuale procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti.

La Stampa 10.4.16
E il Pd ora rischia anche a Milano
Passera si ritira e sostiene Parisi
Reazioni accese da sinistra: “Accordicchi per il potere e le poltrone”
di Alberto Mattioli


Passera? Passerà, aveva profetizzato qualcuno con il gusto per i giochi di parole. E puntualmente è successo. L’ex banchiere ed ex ministro da ieri pomeriggio è anche ex candidato a sindaco di Milano. Getta la spugna a Stefano Parisi, candidato di un centrodestra che, unico caso in Italia, si presenterà alle urne al gran completo, dall’Ncd alla Lega passando per FI, FdI e, appunto, Italia Unica, il partitino ad personam di Passera.
Per il suo passo d’addio, ieri Passera si è presentato ai giornalisti insieme con Parisi. Per tutta la conferenza stampa ha accuratamente evitato di dire: «Mi ritiro». Ha cercato invece di volgere la rinuncia al positivo: «Io sono fortissimamente impegnato perché Parisi diventi sindaco. Sostengo Parisi perché così si può vincere». Ha garantito che si tratta, va da sé, di una scelta «autonoma, liberamente voluta», perché «Milano deve salvare l’Italia» e «Milano è più importante di ciascuno di noi». Insomma, si tratta di «unire le forze» più che di ammettere una debolezza: «Possiamo portare al centrodestra quel che gli manca per vincere. È un’alleanza sul programma», e per siglarla «sono bastati pochi incontri con Parisi, che conosco da una vita».
In pratica, alcuni candidati della lista Passera traslocheranno in quella civica intestata a Parisi. Non lui in prima persona: «In un’ottica nazionale, meglio non farlo». Mentre fioriscono le inevitabili dietrologie sul posto «nazionale» destinato a Passera, finisce un’avventura cominciata con largo anticipo, molti investimenti, molte ambizioni e slogan non esattamente moderati. I cartelli con la scritta «Quando torni a casa la sera hai paura? Basta con la sinistra!» facevano un certo effetto, ma la candidatura Passera non è mai davvero decollata. Rimpianti? Nessuno, giura però lui: «Quel che è stato è stato».
Parisi, ovviamente, incassa e ringrazia. Il centrodestra, milanese e non, giubila e parla di «vittoria vicina». Esagerato ma non impossibile. Negli ultimi giorni il suo candidato dava già l’impressione di essere in rimonta su quello della sinistra, il già favoritissimo Mr. Expo, Beppe Sala. Adesso la partita diventa ancora più incerta. Secondo l’ultimo sondaggio, Sala sarebbe al 36% e Parisi al 34. Ma Passera «valeva» il 6 (e il candidato last minute grillino, Gianluca Corrado, il 15). In politica raramente due più due fa quattro, ma se davvero i numeri fossero questi e Passera portasse tutti i suoi voti a Parisi, quest’ultimo avrebbe delle concrete possibilità di vittoria, con tutte le relative conseguenze nazionali (per Renzi e il suo governo, va da sé, devastanti).
Questo spiega anche perché da sinistra la reazione sia insolitamente virulenta. Per il centrosinistra, la santa alleanza del centrodestra è soprattutto una strana alleanza: quella fra Passera, ex ministro di Monti, quindi collega della Fornero, e Salvini, che su quel governo ha sempre sparato ad alzo zero. Così Sala ricorda che solo venti giorni fa Passera parlava di «fascismo leghista lepenista imposto a Parisi». E commenta così la giravolta: «Un annuncio che si spiega esclusivamente con una scelta di potere & poltrone» e «acuirà inevitabilmente le divisioni» del centrodestra. In casa Pd, c’è solo l’imbarazzo nella scelta dei sarcasmi, che vanno da «accordicchi» a «teatrino», da «campagna acquisti» ad «armata Brancaleone». In realtà, la gara è sempre più aperta. E Milano, al solito, è un laboratorio politico.

La Stampa 10.4.16
I sondaggisti
Lo scandalo della Basilicata spinge il referendum
L’affaire Guidi spinge per il quorum, c’è un effetto emotivo, adesso il quorum non è impossibile
di Roberto Giovannini


Il maleodorante affare Guidi-Tempa Rossa imperversa, e dopo la Croazia anche la Francia annuncia che non perforerà più il Mediterraneo alla ricerca di petrolio e gas. Notizie che rappresentano un balsamo per i cuori dei promotori del referendum sulle trivelle del 17 aprile. E che fanno rabbrividire un po’ coloro - ad esempio a Palazzo Chigi - che sperano nel fallimento del quesito. Appare chiarissimo che lo scandalo petrolifero che è costato il posto al ministro Federica Guidi, e che ha sollevato il coperchio su un verminaio di affari loschi con al centro il mondo degli idrocarburi, ha messo un bel po’ di vento nelle vele del referendum. Finora sondaggi approfonditi non ne sono stati effettuati. Ma per come sono messe le cose è molto, molto difficile che il quorum del 50% più uno dei votanti venga raggiunto. Quel che è certo, però, è che tutti gli esperti stanno documentando un significativo incremento dell’informazione e dell’interesse nei confronti del voto. E se nonostante tutto quindici milioni o più di italiani si recassero alle urne, il significato politico non sarebbe piccolo. Specie in vista delle amministrative e del referendum costituzionale dell’autunno.
Centrare il quorum dei votanti sarebbe davvero un risultato miracoloso per gli ambientalisti, che prevedono insieme con i sondaggisti il sì a quota 75 per cento di consensi. Molto probabilmente - ammettono a denti stretti al Comitato per il Sì - questo miracolo non arriverà. Però la tendenza è positiva. E l’obiettivo iniziale «realistico» - arrivare al 35% di partecipazione, vale a dire mandare alle urne 17-18 milioni di italiani - potrebbe essere superato. Merito del caso Guidi-Gemelli, ma anche un po’ del no di Francia e Croazia alle trivelle in Mediterraneo. Una decisione che smonta uno degli argomenti principe degli antireferendari.
Un vecchio saggio come Nicola Piepoli, sondaggista emerito, numeri non ne dà. Ma spiega che «nell’ultima settimana, dopo il caso Basilicata, è sensibilmente cambiata l’intensità motivazionale di quelli che rispondono di andare a votare». In altre parole, gli elettori del campione statistico che si erano detti intenzionati ad andare a votare, si sentono più coinvolti, più interessati. Chi voleva votare è ancora più convinto. «C’è una specie di spinta, di onda di partecipazione - dice Piepoli - che potrebbe essere decisiva per il raggiungimento del quorum». Nessuna previsione nemmeno da Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia Research, che però fa sapere di considerare normale e comprensibile che lo scandalo Guidi-Tempa Rossa abbia toccato «l’emotività delle persone», e dunque possa agire sulla motivazione nel recarsi alle urne.
In realtà a Palazzo Chigi si ostenta grande sicurezza. Martedì il premier dovrebbe disporre dell’ultimo pacchetto di sondaggi freschi, ma per il momento il quorum non è temuto. Un filo di allarme, però, comincia a trapelare nel giro dei collaboratori di Matteo Renzi, che ha molto personalizzato la scadenza referendaria mettendoci la faccia. Nel bene, ma anche nel male, visto che come Forza Italia voteranno “sì” molti elettori che osteggiano il governo.
Sulla carta, non c’era partita: niente election day, niente informazione, e a differenza dei referendum del 2011 (quando si votò anche di lunedì) stavolta i seggi saranno aperti solo domenica fino alle 23. Il che significa, spiegano gli esperti, che per essere in corsa con il quorum alle 12 di domenica dovranno andare a votare almeno il 20% dei 51 milioni di aventi diritto. In questo caso, secondo Piepoli, si potrebbe creare un effetto-traino in grado di motivare il resto degli elettori.

La Stampa 10.4.16
“Non sono Berlusconi, ma voglio rispetto”
Renzi: c’è un’offensiva mediatica La politica non è subalterna ai pm
Il capo dell’esecutivo dice no a “invasioni di campo”
È furioso, Renzi. Con chi accosta il governo alla mafia, con chi lo accusa di aver preso soldi dall’Eni. Con chi scrive che il governo è diviso e l’economia arranca
Con Berlusconi non c’è paragone, Renzi è molto più bravo ad attaccare
i magistrati
di Jena

La Stampa 10.4.16
“Legge sulle intercettazioni entro l’estate. Le toghe non offendano il nostro lavoro”
Ermini, responsabile giustizia Pd: “Le ferie dei giudici? Tutti si sacrifichino”
di Grazia Longo


«A una legge sulle intercettazioni stiamo già lavorando», ricorda David Ermini, responsabile giustizia del Pd. «C’è una delega al governo nella riforma del processo penale, approvata alla Camera e ora in commissione giustizia al Senato».
Ma Renzi sembra avere fretta: potreste mettere le intercettazioni in un altro ddl o addirittura ricorrere a un decreto?
«E’ già tutto incanalato sul binario della legge delega, credo convenga lavorare in quella direzione. Dentro la riforma c’è molto per rendere efficace il processo: ci interessa portare a casa tutto».
In che tempi contate di arrivare all’approvazione?
«Dipende da quando il testo approda in aula al Senato, ma spero prima dell’estate».
Anche voi come Berlusconi volete mettere mano agli ascolti?
«Noi non tocchiamo le intercettazioni come strumento investigativo, che resta nella piena disponibilità dei magistrati. Il problema che ci poniamo è sulle intercettazioni che vengono pubblicate senza avere nulla a che fare con l’inchiesta penale».
Mettete il bavaglio ai giornali?
«No, vogliamo garantire ai cittadini il diritto a essere tutelati».
Chi deve decidere quali colloqui si possono rendere pubblici?
«Il problema finora è stato che tutto quello che la polizia giudiziaria mette nella annotazioni al pm finisce nel fascicolo, e quindi prima o poi diventa pubblico. Io condivido la circolare emessa dal procuratore di Torino, Armando Spataro, che affida al pm la responsabilità di decidere quali ascolti siano rilevanti e quali no».
Non è inopportuno che Renzi attacchi le intercettazioni mentre infuria l’inchiesta Tempa Rossa?
«Ma Renzi queste stesse valutazioni le fa da anni. Noi eravamo contrari alla riforma del centrodestra che voleva limitarle, la nostra intenzione è solo di intervenire a garanzia della pubblicità delle intercettazioni per fatti non rilevanti».
Con la riforma avremmo letto le intercettazioni di Tempa Rossa?
«Non conosco gli atti, ma le intercettazioni che possono influire sulle condotte delle singole persone in riferimento a un reato – a favore o a sfavore - finiranno nel fascicolo».
Davigo parla di dialogo col governo, ma chiede rispetto…
«Accolgo con piacere le parole di Davigo, a cui auguro buon lavoro: anche per la politica non c’è una magistratura amica o nemica, ma solo una magistratura con cui si deve dialogare».
Ma non a caso Davigo insiste sull’esigenza di avere rispetto…
«Anche noi abbiamo diritto a essere rispettati, quando facciamo il nostro lavoro».
Non è una mancanza di rispetto verso i magistrati di Potenza dire, come Renzi, che non arrivano mai a sentenza?
«No. Ha solo voluto sottolineare che stiamo lavorando per permettere alle indagini di arrivare a conclusione: stiamo lavorando sui tempi di prescrizione; su quelli della corruzione siamo già intervenuti, ora abbiamo una proposta di legge complessiva ferma al Senato per mancanza di accordo con Ncd».
Neppure la frase «brrr… che paura l’Anm» è sgradevole?
«Era solo una battuta, e va inserita in un contesto che mi pare non ci sia più».
Il contesto della polemica sul taglio delle ferie dei magistrati?
«Era stata male interpretata la questione delle ferie. Non c’era nessun intento punitivo: siccome tutti i cittadini devono fare sacrifici, abbiamo chiesto anche ai magistrati di fare un po’ meno ferie».

La Stampa 10.4.16
“L’offerta di Cairo non ci convince”
I soci forti di Rcs cercano alternative
Il patron di La7 punta su mercato e fondi: la mia non è una operazione ostile Ieri contatti con gli azionisti, venerdì sera la telefonata ai vertici della Rizzoli
di Francesco Spini


La scalata di Urbano Cairo alla Rcs - lanciata attraverso un’offerta pubblica di scambio sul 100% del capitale e condizionata al raggiungimento del 51% - scuote i principali soci di Via Rizzoli. Che si dividono di fronte a un’offerta che dà al titolo della società editrice del Corriere della Sera un valore di circa 0,551 euro (o 0,527 senza il dividendo da 20 centesimi) contro gli 0,45 della chiusura di venerdì, in ragione delle 0,12 azioni Cairo Communication scambiate per ogni titolo Rcs Mediagroup.
Gli unici a scendere al fianco dell’ex enfant prodige dell’entourage berlusconiano sono gli uomini di Intesa Sanpaolo, che di Rcs hanno il 4,176% del capitale e, soprattutto, quasi la metà dei 490 milioni di debiti del gruppo. L’ad Carlo Messina ha sempre posto l’accento sulla necessità della banca di tutelare il proprio credito. Schierando Banca Imi - che insieme a Equita assiste Cairo nell’operazione - i vertici di Ca’ de Sass considerano l’operazione in grado di offrire una maggior stabilità finanziaria rispetto ad oggi. O quantomeno capace di smuovere le acque. Qualcuno sussurra che, dietro l’intervento di Intesa, ci sia l’interessamento diretto di Giovanni Bazoli, a cui sarebbe stata offerta la presidenza di Rcs. In realtà è ancora presto per parlare di poltrone. L’Ops di Cairo (che «non è un’operazione ostile», ha precisato l’editore all’agenzia Bloomberg) non convince diversi soci di peso. Ieri, in una giornata dai telefoni roventi, Cairo ha spiegato l’operazione anche ai principali azionisti, non preavvisati, così come non lo sono stati i vertici del gruppo: l’editore de La7 ha telefonato al presidente Maurizio Costa e all’ad Laura Cioli solo nella serata di venerdì, a cose fatte.
Da Mediobanca (6,2%) a Unipol (4,6%), fino a Pirelli (4,43%) e Diego Della Valle (secondo socio col 7,32% che tempo fa aveva cercato di dissuadere Cairo), la valutazione è sostanzialmente coincidente: l’offerta è irricevibile. La valorizzazione di Rcs non riconosce un premio per il controllo, è anzi giudicata irrisoria ed effettuata con «carta» - i titoli della Cairo Communication - a loro giudizio sopravvalutata. Dubbi anche sugli aspetti industriali dell’operazione. Cairo Communication sarebbe troppo piccola per puntare su Rcs e il futuro de La7 incerto, in un panorama televisivo in forte cambiamento come dimostra il recente accordo tra Mediaset e Vivendi.
Quantomeno siamo davanti all’inizio di una trattativa sul prezzo. Tempo ce n’è. Tra 20 giorni sarà depositato il prospetto in Consob, che avrà a sua volta 30 giorni per dare il via libera. Cairo conta di chiudere l’operazione a inizio giugno. Nel frattempo altrove si cercano alternative. In molti guardano a Francesco Gaetano Caltagirone, che però - a quanto pare - non avrebbe raccolto, almeno non ancora, gli inviti che gli sono stati rivolti. Al pari di Andrea Bonomi, non interessato, come non lo sono Gianfelice Rocca o i Moratti , da cui è giunto un cortese «no, grazie». Finché un mesetto fa, in pieno impasse, Cairo ha dato corso al progetto che aveva in mente da tempo, ben prima che - a seguito dell’accordo con l’Espresso per l’aggregazione con La Stampa e Il Secolo XIX - Fca decidesse di uscire dal capitale di Rcs, distribuendo il 16,7% agli azionisti, con Exor che ha già dichiarato l’intenzione di cedere il suo 5% in maniera frazionata sul mercato. Comunque Cairo non si arrende: conta sul fatto che i grandi soci tanto grandi non sono, e contano suppergiù per un 22%. Convincendo il mercato, in particolare i fondi, l’operazione potrà decollare.

La Stampa 10.4.16
“Il sogno di Urbano? Un’informazione a tutto tondo
Ma non so se gli riuscirà la scalata al Corriere”
Mentana: è un editore puro, non ha mai interferito con il lavoro dei giornalisti
di Michela Tamburrino


Se La7 fosse una band, Enrico Mentana sarebbe il frontman. Direttore del Tg, come si dice, ci mette anche la faccia facendo di quell’informazione un fiore all’occhiello della rete. Oggi il suo editore Cairo punta al controllo di Rcs Mediagroup, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport, preso nel tentativo di creare un grande gruppo multimediale. Se dovesse avvenire, cambierebbe un universo; tsunami, più piccole scosse di assestamento.
Mentana, che Corriere sarebbe il Corriere di Cairo?
«Non ho sentito Cairo, se è quello che mi si chiede, e non ho idea a proposito di quello che vorrebbe fare. Posso solo dire che non ha mai interferito con il mio lavoro. Cairo, editore che noi chiamiamo “puro”, ha fatto utili razionalizzando le spese, ha preso imprese editoriali che non andavano bene e le ha rese competitive. È un grande convertitore di imprese, quello gli piace fare. Se invece devo ipotizzare la linea giornalistica che imprimerebbe, posso solo dire che gli uomini Cairo sono già nel consiglio di amministrazione di Rcs».
Possibili sinergie con La7?
«La7 è un brand forte, il Corriere e la Gazzetta, fortissimi, non abbiamo necessità di sinergie. In un universo più ridotto rispetto a quello che stiamo ipotizzando, non c’è stato mai nessun intreccio tra noi e le riviste di Cairo. Ognuno farà la sua strada, non avrebbe senso altrimenti».
Che tipo è Cairo?
«Un editore molto geloso del suo ruolo costruito dal nulla. Mira a portare a compimento il suo sogno di uomo di informazione a tutto tondo, avere tutta la filiera, giornali, riviste, tv».
Un uomo attento al risparmio, forte sui tagli. Potrebbe impoverire il Corriere?
«I tagli contano se incidono sul grasso superfluo e non sulla carne viva. Ma poi Cairo ce la farà? Ho visto altre scalate al Corriere che non sono andate».
Dagli Agnelli a Cairo, dalla Juventus al Torino, un’immagine che si andrebbe un po’ ad appannare, no?
«Se lo dicessi io sarei un cretino. È di certo il cambio di un’epoca, ma è già successo. La Stampa e Repubblica, Rcs che perde la Fiat e verosimilmente anche Intesa Sanpaolo. Non si sa se si va in meglio o in peggio. Gli editori strumentali, quelli che hanno altri interessi principali, si stanno ritirando dall’informazione, che dà meno utili. Non c’è spazio per vivere da soli, il complesso delle copie vendute è minore. Noi giornalisti abbiamo la sindrome di Prima Comunicazione, ma guardando da fuori è tutto diverso. Ogni giorno chiude un’edicola, il fenomeno è lo stesso e nessuno grida alla lesa libertà di stampa».
Tempo addietro si era sussurrato il suo nome come direttore del Corriere...
«Tempo addietro. Io so fare un altro lavoro e quello faccio».
Secondo lei il patron di Tod’s, Diego Della Valle, socio di Rcs, sarà un alleato di Cairo? Lo sosterrà?
«L’offerta fatta da Cairo è per non avere alleati. Il dato positivo sarebbe la corsa al rialzo, significherebbe che i giornali sono ancora appetibili. Tutti sanno che conosco Della Valle ma non so che farà. Unipol è un socio importante, chissà che farà, investirà o no? Come se commentassimo un gol al primo minuto. C’è tutta la partita».
Come vede il futuro della carta stampata?
«Vedo il nostro pensionamento dignitoso, vedo i giovani che non leggono i giornali e che su Internet seguono solo quello che a loro piace. Dopo chissà. Noi siamo quelli di adesso».

Repubblica 10.4.16
Il nuovo Documento di economia e finanza (Def) varato venerdì sera dal consiglio di ministri
Camusso: “Misure utili per avere l’applauso Ue ma non per la crescita”
“La proposta sugli 80 euro alle pensioni minime serviva solo a distrarre dai problemi dell’esecutivo. Lo schema sulla contrattazione aziendale è una follia che non tiene conto del nostro sistema produttivo”
intervista di Roberto Mania


ROMA. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, ha cominciato dai gazebo di piazza San Babila a Milano la campagna per la raccolta delle firme per la legge di iniziativa popolare per il nuovo Statuto dei lavoratori e per i referendum abrogativi di alcune parti del Jobs act, delle norme sui voucher e sugli appalti. Dopo più di quarantamila assemblee e oltre due milioni di lavoratori consultati, dice che questa sarà «una rivoluzione per la Cgil». Poi attacca il governo sul Def, sulle pensioni e sulla contrattazione.
Cosa pensa del progetto del governo di rafforzare la contrattazione aziendale?
«Mi faccia intanto dire che nel Def, per quanto se ne sa dalla lettura dei giornali visto che anche questa volta manca un testo, l’unico messaggio che passa è quello di ottenere una maggiore flessibilità, dimostrando in cambio di essere i più bravi a fare quello che vuole Bruxelles. Con questo schema non si determinano le condizioni per quella crescita, in particolare degli investimenti e dell’occupazione, di cui il Paese ha bisogno. Senza cambiare il terreno di gioco si confermano le politiche di austerity. Il dato più rilevante è che sulle pensioni siamo di nuovo ai tanti annunci traditi dai comportamenti. Non c’è accenno alla flessibilità in uscita e si ribadisce che la proposta degli 80 euro alle pensioni minime serviva a distrarre l’attenzione sulle difficoltà del governo. Noi manterremo la mobilitazione perché il tema delle pensioni torni centrale e si cambi la legge».
Apprezza lo schema del governo sulla contrattazione aziendale?
«Mi pare un omaggio alle posizioni che da lungo tempo ha espresso la Commissione europea. Noi siamo sempre stati sostenitori della contrattazione aziendale ma sappiamo che è un valore se c’è anche la contrattazione nazionale altrimenti si traduce in concorrenza sleale tra imprese. Se dunque il provvedimento del governo serve a rendere strutturale la decontribuzione del salario di produttività, ben venga. Ma non è necessaria una legge. Se invece si ha in mente che il contratto nazionale non è fondamentale per le politiche salariali penso sia una follia che non considera le caratteristiche del nostro apparato produttivo, composto da piccole imprese e dai milioni di lavoratori che vi lavorano. Si ragiona come se in Italia esistano solo le aziende in cui si fa la contrattazione aziendale. Così non è per le piccole e piccolissime imprese. Mi pare davvero la proposta di un’elite che non vede e non conosce la realtà del lavoro, ma solo ciò che accade in qualche grande impresa».
Eppure il governo sembrerebbe orientato ad accogliere l’accordo sindacati-Confindustria sulla rappresentanza.
«Quell’intesa è un modello compiuto sulla rappresentanza e non può essere utilizzato per scardinare la contrattazione nazionale ».
Veniamo alla vostra Carta dei diritti universali, un nuovo Statuto dei lavoratori… «È la nostra rivoluzione».
Volevo chiederle: non rischia di essere un’operazione di mera testimonianza visto che il Parlamento non ha mai approvato leggi di iniziativa popolare?
«Sappiamo che è una strada impervia, ma se si restringono gli spazi di azione anche il sindacato deve ricercare tutte le forme entro le quali muoversi. Non c’è più un luogo dove si discuta di lavoro mentre si assiste a una coazione a ripetere interventi per ridurre i diritti di chi lavora».
Qual è la vostra rivoluzione?
«Nell’idea che tutte le persone siano titolari di diritti indipendentemente dal rapporto di lavoro (subordinato o autonomo), dal contratto (a tempo indeterminato o di collaborazione), da luogo o dal settore. È il nostro modo di affrontare la modernità. In questi anni è prevalsa un’idea del lavoro solo come costo da comprimere, svalorizzandolo ».
La legge, però, è uno strumento del Parlamento non dei sindacati.
«Il sindacato ha una funzione di rappresentanza del lavoro. La svolge con la contrattazione, con la tutela sociale, intervenendo e proponendo una legislazione che, applicando la Costituzione, costruisca un sistema di garanzie universali. Anche lo Statuto dei lavoratori nacque da un’intuizione della Cgil degli anni Cinquanta».

Corriere 10.4.16
Al concorsone della scuola un commissario vale un euro l’ora
di Gian Antonio Stella


È peggio tirar su pomodori a due euro l’ora sfruttati dal caporalato agricolo o incassare la metà per valutare gli aspiranti docenti per conto del caporalato ministeriale? Un professore di braccia buone potrebbe avere il dubbio: la paga oraria prevista per i commissari del «concorsone» è di un euro e 5 centesimi l’ora. Lo denuncia, nel numero in uscita domani, la rivista Tuttoscuola . Che ha fatto i conti e scoperto come mai, a venti giorni dalle prime prove scritte, previste il 28 aprile, ci sono difficoltà a trovare i commissari necessari a selezionare tra 165.578 candidati i 63.712 insegnanti delle varie materie da assumere nelle scuole statali nel prossimo triennio. Difficoltà che hanno spinto le autorità di sette Regioni (Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia-Romagna, Lazio, Abruzzo, Sicilia) a riaprire i termini scaduti il 19 marzo entro i quali gli aspiranti commissari avrebbero dovuto farsi avanti.
Un guaio. Spiega la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra, infatti, che gli stessi selezionatori, com’è ovvio, devono essere a loro volta selezionati: meno se ne offrono, meno è facile scegliere buoni selezionatori. Col risultato che alcune commissioni potrebbero essere messe insieme senza «scegliere secondo qualità culturali e professionali, accontentandosi di quel che passa il convento». In casi estremi «si potrebbero avere candidati più preparati di chi li esamina»
Conti alla mano, dice Tuttoscuola, per valutare quei 165.578 candidati a insegnare nelle 129 «classi di concorso» (dall’insegnamento dell’arpa a quello del «design del libro», dalle scienze alimentari al «laboratorio di odontotecnica» oltre a matematica, fisica, italiano e così via...) occorreranno circa mille commissioni «suddivise tra 783 commissioni principali e circa 200 sottocommissioni» ognuna delle quali dovrà valutare fino a «500 candidati risultanti presenti alla prova scritta».
Ora, «poiché ogni commissione deve essere composta da un presidente, due docenti commissari e due membri aggregati (per lingua straniera e informatica), serviranno cinque membri effettivi. Ad essi vanno affiancati altrettanti membri supplenti. Servono dunque circa 10 mila commissari, un piccolo esercito di esaminatori: la metà, i membri effettivi, servono subito, fin dal momento della prova scritta».
Un compito, sulla carta, non arduo. I docenti che potrebbero fare i commissari con i requisiti richiesti (anche se su alcune materie specifiche la platea è più ristretta) saranno almeno 650 mila. Se non si fanno avanti, ragiona la rivista, è per tre motivi. Primo, il mancato esonero, per il concorsone, dal lavoro quotidiano: tutto extra in più. Secondo, l’assenza di ogni rimborso spese. Terzo, la retribuzione: 251 euro lordi al presidente e 209,24 euro ai commissari. «Al giorno? No. A settimana? Macché: per tutto il lavoro, in un arco di tempo che va dall’insediamento delle commissioni (aprile) alla pubblicazione delle graduatorie (luglio-agosto per la maggior parte delle commissioni)».
Al compenso base, continua Tuttoscuola, «vanno poi aggiunti 50 centesimi di euro» (mezzo caffè!) «per la correzione di ciascun elaborato e 50 centesimi di euro per ogni candidato esaminato all’orale. Pertanto a ciascun membro di una commissione di 500 candidati (numero massimo), verranno riconosciuti 250 euro lordi per la correzione della prova scritta. Ipotizzando che superi lo scritto il 50% dei candidati, per l’orale verrebbero riconosciuti ulteriori 125 euro lordi». Fatte le somme il presidente di una commissione con 500 candidati da esaminare (poi ci sono quelle con meno candidati e meno soldi) «guadagnerà 651 euro lordi, un commissario ordinario 609 euro lordi».
Ma per quante ore di lavoro? Qui casca l’asino. Come spiega una dettagliatissima tabella, le pratiche burocratiche e il modo in cui sono articolati gli «scritti» (vanno lette e valutate di ogni candidato le risposte di almeno una ventina di righe l’una a otto quesiti) e gli «orali» (35 minuti per una «lezione simulata preceduta dall’illustrazione delle scelte contenutistiche, didattiche e metodologiche compiute» più l’interrogazione di ogni concorrente) fanno presumere un impegno di 576 ore circa. Pari a 1,13 euro l’ora per ogni presidente e 1,05 euro l’ora per ogni commissario.
Come a dire che col compenso di una giornata di lavoro aggiuntivo, ironizza il giornale, «il commissario del concorso tra correzione di prove scritte, valutazione di lezioni simulate all’orale, etc, ci si potrà comprare un biglietto del cinema, con un’altra giornata una pizza margherita, con un’altra pop corn e coca cola».
Un euro e cinque centesimi l’ora. Un quinto di quanto prende all’ora (5,18 euro: meno della tariffa standard di una colf) un commissario alla maturità. La metà, stando ai dati di uno studio Ambrosetti su numeri Flai-Cgil, di quanto guadagnano i «lavoratori agricoli sfruttati dal caporalato che raccolgono i pomodori, le arance e le mele che arrivano sulle nostre tavole».
Tutto ciò la dice lunga, accusa la rivista, «su come talvolta nella Pubblica Amministrazione italiana si pensi di fare le nozze con i fichi secchi». No: gli avanzi dei fichi secchi.

La Stampa 10.4.16
Sul web Giulio diventa un’icona contro il regime
Più di 15 milioni di pagine in arabo rianimano la protesta
di Francesca Paci


«Kulluna Giulio Regeni», siamo tutti Giulio Regeni. Lo slogan con cui 5 anni fa milioni di egiziani e tunisini si identificarono rispettivamente con i «martiri» Mohamed Bouazizi e Khaled Said per sfidare tirannie fino ad allora inossidabili sta tornando oggi associato al ricercatore friulano massacrato al Cairo, come se la richiesta di verità per una morte esemplare ma simile a migliaia potesse dare una seconda chance alle ammaccate primavere del 2011, a quella egiziana ma anche alle altre. Se cercando Giulio Regeni su Google si ottengono 423 mila risultati, lo stesso nome digitato in arabo ne produce 15 milioni (venerdì sera erano 13 milioni).
«Non molleremo finché i responsabili non pagheranno, per Giulio, per la sua famiglia e per tutti noi che abbiamo visto fratelli e compagni dare la vita per una rivoluzione scippataci due volte» dice al telefono l’architetto 34enne Ahraf (ormai quasi nessuno al Cairo concede a cuor leggero il proprio cognome ai media). Non conosceva personalmente il nostro connazionale, ma conosce almeno due persone che sono state arrestate alla vigilia del 25 gennaio - giorno della sua scomparsa e anniversario di piazza Tahrir - e fortunatamente rilasciate seppure dopo una «pesante lezione preventiva».
La storia di Giulio Regeni sembra curare in qualche modo la depressione ormai cronica degli attivisti egiziani, i veri protagonisti della prima spallata al Faraone che si sono ritrovati schiacciati tra i due moloch nazionali, le caserme e le moschee. Ma a navigare tra i social network in arabo si scopre che il desiderio di rivincita nel nome del «martire» italiano non interessa solo i giovani sudditi di al Sisi ma anche gli altri, i sopravvissuti di piazza della Perla a Manama, le suffragette al volante di Riad, gli algerini e i marocchini bloccati prima ancora di protestare, perfino un reduce del 17 febbraio di Bengasi come l’informatico Hassan Bujnah: tutti ugualmente convinti di aver perso per strada molto di quanto sognato nel 2011 e di ritrovarlo chiedendo verità per Regeni (e avendo maggiore supporto internazionale). Sentite una tunisina laica come l’universitaria Nishrin Zani che detesta convivere con gli islamisti: «Regeni è un monito a non abbassare la guardia perché i regimi sono duri a morire e noi, con gli jihadisti che produciamo, siamo tutt’altro che immuni dai colpi di coda del mukabarat».
L’impunità che ha ucciso il ricercatore italiano potrebbe riaccendere braci tutt’altro che spente? Difficile da dire. Ma il regime di al Sisi lo teme, prova ne sia la foga con cui reagiscono i suoi paladini. E non c’è solo il fratello di uno dei 5 egiziani freddati in quanto presunti carnefici di Regeni, che dopo aver raccontato in video l’innocenza del congiunto è stato arrestato venerdì. E non c’è solo la nuova rigidità con cui perfino giornali indipendenti come «al Tahrir» rifiutano ora gli articoli di attivisti fino a ieri collaboratori. Il parlamentare Mostafa Bakry minaccia da giorni in tv la madre di Khaled Said rea di aver inviato un messaggio a Paola Regeni e per questo accusata di «fare il gioco dell’Italia» e di fomentare gli animi per coprire «l’altro figlio ebreo che vive in Usa». Può darsi che Giulio Regeni vivo non fosse così pericoloso come devono aver creduto i suoi killer, ma ora che è morto il suo nome in arabo fa paura.

La Stampa 10.4.16
Ma Al Sisi è maestro di realismo
di Alberto Simoni


Prevarrà la forza iconica dell’immagine di Giulio Regeni? O la forza, tutt’altro che iconica, ma ben radicata e oliata da business e relazioni internazionali, del pragmatismo di Al Sisi? Quanto Giulio Regeni è, e resterà una spina nel fianco del regime cairota? Visto da qui, la spina per Al Sisi sembra una sciabola; ma se indossiamo altre lenti, non deformate dalle nostre legittime, giustissime e sacrosante rivendicazioni sulla verità per Giulio, Al Sisi ha impegni e partite da giocare su altri terreni ben più complesse e vitali per i destini suoi e del suo Paese. E non sarà con tutta probabilità il movimento di massa, molto rumoroso sui social network, a impensierire un maestro di Realpolitik come il nuovo Faraone.
Solo venerdì Al Sisi ha siglato con il sovrano saudita Salman un accordo per 22 miliardi fra investimenti e progetti. Riad garantirà forniture energetiche agli egiziani per i prossimi cinque anni. Guarda caso più o meno il tempo entro il quale il giacimento di gas naturale Eni nel Mediterraneo Zohr, entrerà a pieno regime. Entro il 2019 infatti 75 milioni di metri cubi di gas al giorno (equivalenti a 500 mila barili di petrolio) arriveranno sul mercato. L’ultima autorizzazione incassata da Eni per lo sfruttamento del giacimento off-shore è datata 21 febbraio 2016, in piena crisi per il caso Regeni. Al Sisi ha contestualmente stretto accordi con la russa Rosneft e con l’Algeria per accaparrarsi l’energia necessaria per mandare avanti un Paese a corto di carburante e con l’economia ballerina.
Al Sisi deve poi giocare la partita del terrorismo, complessa sia sul fronte esterno che in casa: così in Libia continua a tenere ben oliato il fronte anti governo di unità nazionale sostenendo il generale Haftar e i ribelli di Tobruk per avere un ruolo negoziale chiave. E sul Sinai stringe accordi con i sauditi anche per stroncare l’Isis che minaccia i resort sul Mar Rosso. L’asse con gli israeliani è solida, il comune nemico è a Gaza fra Hamas e nuove frange jihadiste. E poi c’è il fronte interno, dove alcuni apparati dello Stato sono in dissenso con lui. Così come alla fine furono i militari ad invitare Mubarak all’uscita (fra il giubilo degli studenti di piazza Tahrir), così sono polizia e servizi che potrebbero decretare la fine del regno di Al Sisi. Più della moltitudine di giovani arabi che hanno trovato nella storia del giovane ricercatore italiano trucidato al Cairo un motivo di speranza e di rinnovamento. La lezione delle Primavere arabe e del finale ben diverso dalle aspettative iniziali è lì a ricordacelo.

Corriere 10.4.16
La fermezza e la dignità di un Paese
di Franco Venturini


Non deve sorprenderci il tono di sfida adottato dalla magistratura egiziana al cospetto di una Italia che non intende rinunciare alla verità sulla barbara uccisione di Giulio Regeni. Piuttosto, gli argomenti utilizzati ieri dalla Procura del Cairo ci spiegano con inedita chiarezza quel che accadrà: la documentazione richiesta dai giudici italiani non sarà fornita per non violare «la legge e la Costituzione egiziane». Una affermazione categorica che alza il livello del confronto e tende a renderlo irreversibile, compiendo nel contempo una nuova provocazione nei nostri confronti dal momento che contribuire a far luce sulle atrocità di cui è rimasto vittima Regeni dovrebbe rientrare a pieno titolo nella legge e nella Costituzione egiziane, non violarle.
Ora abbiamo la certezza formale di quel che in realtà già si intuiva. I giudici egiziani, lo si è visto in tante occasioni, hanno una indipendenza molto limitata nei confronti del potere politico. Più che mai quando si fanno affermazioni tanto impegnative. E allora ieri è accaduta una cosa molto semplice: è come se il presidente Al Sisi ci avesse detto di persona che lui certe carte non le può mostrare. Forse perché l’assassinio di Regeni rientra davvero in una lotta di potere sotterranea, e qualche apparato dello Stato egiziano, torturando e uccidendo proprio un italiano, ha voluto indebolire il Presidente colpendo i corposi interessi bilaterali che proprio Al Sisi aveva consolidato e allargato.
Di sicuro perché l’uomo forte del Cairo non vuole svelare a tutti la sua debolezza, ammettere di non controllare tutte le frange dei servizi di sicurezza, riconoscere che in Egitto ogni efferatezza è diventata possibile persino nei confronti di uno straniero la cui nazionalità è legata agli interessi del Paese e a quelli di un Presidente che ha da poco smesso la divisa.
Fare una simile confessione pubblica in un Egitto dove gli oppositori scompaiono con una certa regolarità, dove i Fratelli musulmani sono stati criminalizzati in massa, dove l’ex presidente Morsi dopo la condanna a morte giace in prigione, dove il vero e assoluto potere continua a risiedere nel Consiglio superiore delle Forze armate più che nella figura del Presidente ex generale, significherebbe per Al Sisi rischiare la poltrona.
E se questo è vero, ne discendono conseguenze di cui l’Italia e la sua opinione pubblica devono essere sin d’ora consapevoli. Noi che su altri temi siamo stati talvolta critici delle scelte governative consideriamo ineccepibile la linea di serietà e di dignità nazionale che Matteo Renzi e Paolo Gentiloni hanno adottato sul caso Regeni. Non possono e non devono esserci opportunismi o tentennamenti di sorta nei confronti di chi ha provato a depistarci e si rifiuta ora di collaborare per stabilire la verità. Tra interessi e valori uno Stato degno di questo nome deve talvolta scegliere i secondi, e il cadavere straziato di un giovane connazionale è motivo più che sufficiente per avere, sorprendendo forse anche noi stessi, un rigenerante soprassalto di dignità. Ma il prezzo, ne abbiamo avuta la conferma ieri, sarà alto, e di questo tutti devono essere coscienti.
Il richiamo per consultazioni dell’ambasciatore Maurizio Massari, che ha benissimo operato al Cairo, è un passo obbligatorio che il ministro Gentiloni aveva implicitamente annunciato in Parlamento. Esistono altre misure non troppo dure, come il congelamento di certi scambi culturali oppure la rinuncia a contatti diplomatici di alto livello, che possono ancora essere varate. Ma poi, se il Cairo resterà fermo nella sua vergognosa trincea, l’Italia dovrà aprire capitoli che fanno male. All’Egitto, se si trattasse di frenare il turismo italiano. E anche a noi, se si dovesse arrivare all’interscambio commerciale, agli investimenti, alle aziende che operano in Egitto, agli interessi energetici dopo la scoperta da parte dell’Eni del più grande giacimento del Mediterraneo al largo delle coste egiziane.
Dovremmo cambiare linea, se dalle misure più che altro simboliche la resistenza di Al Sisi ci obbligasse a passare a quelle ben diversamente sostanziali? Tale è l’interrogativo che si pone in queste ore, dopo che per bocca dei magistrati egiziani il loro capo ci ha fatto sapere che non avremo la verità che reclamiamo. La nostra risposta è un no categorico. Per due motivi. Il principale riguarda l’Italia, la sua sacrosanta fermezza, la necessità a questo punto di dimostrare che siamo capaci di coerenza e di rivolta contro un crimine orrendo quale che ne sia il prezzo. E anche perché, se Roma terrà duro, la posizione di Al Sisi si andrà indebolendo all’interno come sulla scena internazionale, la trincea forse non reggerà, e allora potrebbe apparire ragionevole persino a lui un cambiamento di strategia.
Contro questa speranza depongono gli ingenti aiuti economici che l’Egitto riceve dalle monarchie del Golfo, che tengono materialmente a galla una economia disastrata assai più di quanto facciano gli Stati Uniti o i partner europei. Non a caso il re dell’Arabia Saudita è stato in visita al Cairo proprio in questi giorni, per discutere di nuove elargizioni. Esiste insomma il pericolo che Al Sisi possa continuare a fare orecchi da mercante alle esigenze italiane appoggiandosi ad altri salvagente. Ma è qui che deve intervenire una intensa azione diplomatica italiana che Gentiloni ha peraltro preannunciato. Se non vogliamo mandare a picco quella che sin qui è stata la partnership italo-egiziana, se non si vuole che l’Egitto cada in una fase di lotte interne dalle imprevedibili conseguenze, se si paventa che una nuova instabilità possa favorire i jihadisti che già agiscono nel Sinai, se fa paura la destabilizzazione ulteriore dell’area mediterranea che dall’Egitto potrebbe partire, allora servono pressioni diplomatiche internazionali per convincere gli egiziani a fare quel che è semplicemente il loro dovere. Dall’Europa, dagli Usa, ma anche dai Paesi del Golfo. E anche da quella Russia che malgrado la crisi, ora superata, per l’aereo abbattuto dai terroristi nel Sinai mantiene una discreta influenza sui militari egiziani grazie alle vendite di armi.
Dobbiamo provare a innescare una mobilitazione mirata nella ricerca della verità su Giulio Regeni. Ma se non ci riusciremo, o se le eventuali pressioni su Al Sisi non avranno esito, dovremo tenere duro da soli, prima di tutto dentro ognuno di noi.

La Stampa 10.4.16
Dall’Africa all’Italia, i minori nella trappola dello sfruttamento
Quadruplicati gli sbarchi. Ogni giorno 30 ragazzi non accompagnati, specie da Niger Così migliaia di adolescenti fanno perdere le loro tracce, qualcuno arriva in Nord
di Andrea Malaguti


45 euro A minore i soldi che lo Stato riconosce alle Comunità che aiutano i giovanissimi migranti ad inserirsi ma, come sempre, il successo di queste politiche dipende dagli operatori

Tra il primo gennaio e il 31 di marzo 2016 sono sbarcati sulle nostre coste quasi tremila minori stranieri non accompagnati. Mille al mese. Poco più di 30 al giorno. Il quadruplo rispetto allo stesso periodo del 2015. Eppure la legge che consente a questi adolescenti un’accoglienza dignitosa, superando una normativa emergenziale, è ferma da due anni alla Commissione affari costituzionali della Camera.
Sostenuta dalla parlamentare del Pd Sandra Zampa dopo il naufragio del 2013 a Lampedusa che fece 360 vittime, è stata firmata con entusiasmo dall’intero arco costituzionale, salvo spiaggiarsi mestamente per mancanza di fondi. Il Paese ha altre priorità.
Nella interminabile catena della sofferenza non c’è nessuno più debole di loro, ragazzi assassinati nell’anima, che secondo lo psichiatra e neuropsichiatra infantile Giancarlo Rigon, appena rientrato da Pozzallo, «sviluppano una diffidenza assoluta nei confronti del prossimo e si chiudono in se stessi perché con le lesioni psichiche e morali che hanno subito non c’è nessun altro di cui si possano fidare».
E Raffaella Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children aggiunge: «Questi minori sono i soggetti più vulnerabili, perché a rischio di violenza e di sfruttamento. Ed è vero che la loro età media è compresa tra i 14 e i 17 anni, ma vediamo anche bambini di nove». Chi li accoglie li deve aiutare. Diversamente li perde per sempre.
Gli ultimi trecento di questo popolo di sughero venivano dall’Egitto e li ha messi in salvo la nave mercantile Jolly. Li hanno avvistati nel canale di Sicilia e portati ad Augusta. Perché siete qui? «Per vivere». Buon motivo. Ma l’Italia è in grado di dare loro questa opportunità?
Le schiave di Benin City
Tecnicamente li chiamano Msna - minori stranieri non accompagnati, appunto - e quelli che vogliono fermarsi in Italia arrivano a ondate sempre più grosse, soprattutto dall’Africa subsahariana, dalla Nigeria, dal Gambia o dall’Egitto. Chi è di passaggio è partito da Oriente, dall’Afghanistan, dal Pakistan, magari dall’Iraq. Ma tutti se ne vanno per sfuggire al presente più che per garantirsi un futuro. Con alcune eccezioni dolorose.
La più evidente è quella delle adolescenti nigeriane pronte per essere vendute sui marciapiedi dieci ore al giorno in cambio di 15 euro a prestazione, soldi destinati a ripianare un debito da cinquantamila euro contratto con la malavita locale per lasciare Benin City. Pagano la loro esistenza da schiave. Esattamente come ha fatto Marion Iwuala, betulla nera di un metro e ottanta, che a 12 anni aveva deciso di fare qualcosa di buono se non altro per mancanza di altre aspirazioni. L’occasione gliela diede un amico di famiglia che si presentò a casa con un’aria da venditore di asciugamani, sguaiato e affascinante. Basta poco a convincere una bambina. «Ho abbandonato il mio villaggio credendo che fosse un posto destinato ai dannati della terra. Ma adesso quei giorni in Nigeria mi sembrano l’unica vera esistenza che Dio mi ha concesso. Un conoscente di mia madre mi disse che sarei andata in Europa per fare la parrucchiera. Invece mi hanno violentata, picchiata, umiliata, hanno cancellato l’idea che avevo di me, la persona che ero, mi hanno costretto a confrontarmi con tutto lo schifo del mondo, con la bava di camionisti puzzolenti e se non fosse stato per gli operatori di strada ora non sarei viva. Non ho trascorso un solo giorno sul marciapiede senza pensare al suicidio». Marion adesso ha 17 anni, vive in una casa protetta e ha un’espressione di imbarazzato dispiacere, come se fosse lei a dovere chiedere scusa.
Adolescenza tradita
Per i minori stranieri non accompagnati l’Unione Europea prevede un programma di protezione che in un caso su due in Italia non funziona, se è vero che nel 2015 di cinquemila ragazzi si sono perse le tracce. Alcuni, si suppone, si sono ricongiunti con i parenti in Svezia o in Gran Bretagna, altri sono finiti nelle mani della criminalità. E a questo punto la domanda ritorna: che cosa facciamo per difenderli?
A volte molto, a volte niente, a causa di un sistema che ha una procedura chiara e un’applicazione schizofrenica. Molto schematicamente: i minorenni vengono accolti e visitati negli hub a loro destinati. Successivamente sono inseriti in un programma di protezione e inviati nei centri di «seconda accoglienza» dove, se sono fortunati la loro vita cambia, se sono sfortunati le loro frustrazioni raddoppiano, perché le differenze tra un centro e l’altro, tra una regione e l’altra, sono imbarazzanti. Dopo Mafia Capitale lo Stato ha avocato a sé la gestione della spesa, portando le tariffe (che prima gestivano i Comuni) da 80 a 45 euro, ma lasciando l’organizzazione delle singole strutture a norme regionali disomogenee. Esistono regioni che prevedono corsi di formazione professionale, lezioni di lingua, la presenza di mediatori culturali, di neuropsichiatri e di assistenti sociali e regioni che si limitano a mettere a disposizione alloggi con dei guardiani e al massimo un interprete di inglese e di arabo o che puntano sui grandi numeri per fare cassa. Ma può andare anche molto peggio di così. Una normativa univoca non esiste. E non esisterà finché il disegno di legge Zampa non vedrà la luce. «Io mi attendo che il governo rispetti gli impegni presi, anche e soprattutto perché questi ragazzi non hanno voce e le loro ragioni non sono espressione di interessi di lobby», dice la parlamentare del Pd, la cui legge prevede la standardizzazione delle procedure regionali l’inserimento automatico dei minori nello Sprar, sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, un potenziamento del tutoraggio, la creazione di un albo dei tutori volontari e un massiccio ricorso all’affido familiare. Succederà prima o poi? La differenza tra accogliere perché è un affare e accogliere, preparare ed educare è quella che passa tra essere risucchiati dall’illegalità e avere la chance di condurre una vita normale.
Villaggio del fanciullo
Anche in mancanza di una legge che superi l’emergenza, le esperienze che funzionano esistono. Al Villaggio del Fanciullo di Bologna, sede del coordinamento regionale delle comunità dei minori in Emilia Romagna guidato da padre Giovanni Mengoli, fanno riferimento due strutture. Una destinata a 17 ragazzi, l’altra a 11. Corsi professionali, campi da basket e da calcetto, spazi larghi, camere pulite, mediatori culturali, psichiatri, opportunità lavorative. Qui un ragazzo su due trova la sua strada. Tutto bene? Benino. Perché il legittimo intervento del ministero dell’Interno ha messo in difficoltà le esperienze virtuose. «Le tariffe dell’accoglienza sono state sensibilmente ridotte così per non lavorare in perdita o aumenti i numeri dell’accoglienza penalizzando la qualità della stessa o riduci il personale, che incide sui costi complessivi per il 70%», dice padre Giovanni, abituato a confrontarsi non solo con l’entità, ma anche con la qualità del problema. Va da sé che chi non ha mai avuto personale specializzato ha risolto la questione alla radice. «Ammetto che sono preoccupato».
Al primo piano, in una saletta di fianco alla mensa, Issa parla di sé. Ha occhi grandi come arance e guarda dubbioso Giovanni, che per i ragazzi del centro è il padre e la madre. Giovanni gli dice: «non ti preoccupare, racconta solo quello che ti va». Lui stira il sorriso più gentile che madre natura gli ha messo a disposizione e risponde con la voce di chi ha bisogno di mostrare gratitudine. Ha appena compiuto diciassette anni, ne dimostra quattordici ed è nato nel Burkina Faso, in un villaggio senza nome che chiamavano V5. Distese di sabbia e di sassi in uno dei tre Paesi più poveri dell’Africa e dunque del pianeta. «Non ho mai avuto una madre. Solo un padre. Era lui la persona che doveva occuparsi di me». Solo che un giorno tornando a casa dopo essere andato a cercare cibo, un vicino gli mette una mano sulla spalla. «Tuo padre non c’è più». «Che cosa vuoi dire?». «E’ morto. E tu devi andare a vivere da tuo zio al V6». E’ morto. Tutto qui. Nessuna spiegazione ulteriore. Per un po’ lo zio gli offre pane e acqua e riesce a mandarlo a scuola. Poi i soldi finiscono, almeno quelli per Issa. Lo zio deve scegliere: o i suoi figli o il figlio del fratello. Sceglie i suoi figli e Issa, che ha dodici anni, se ne va. Si nasconde su un pick up che trasporta capre e si ritrova in Niger, dove un arabo gli offre un lavoro. «Dovevo andare a prendere l’acqua per i ragazzi della miniera. Solo che la sorgente era a due giorni di macchina. Il cibo era poco. Di soldi non ne ho mai visti. Il mio capo mi diceva: te li darò presto». Ma presto non arriva e un giorno non arriva più neanche il capo. «Così mi sono rimesso in viaggio, questa volta verso la Libia. Ho attraversato il deserto. Nessuno ci ha fermato. Avevo bisogno di mangiare». Sono altri mesi di paura e di elemosine, finché saltano fuori un altro arabo e un altro lavoro. «Dovevo tenergli in ordine la casa». Soldi? «Me li aveva promessi. O almeno credo, perché la sua lingua non la capivo». Un giorno decide di andare in città. Ci sono militari, carri armati e poliziotti per le strada. «Provo a scappare. Ma loro mi fermano e mi chiedono i documenti. Non ce li ho, così mi portano in prigione. Dicevo: fatemi tornare in Burkina Faso e loro mi rispondevano: da questa prigione esce solo chi può pagare». Issa non può. Non può niente. «Un giorno succede una cosa strana. I poliziotti arrivano con una lista di nomi di gente che aveva pagato per un viaggio e tra quelli c’era anche il mio. Non so chi ce l’avesse messo. Forse uno sbaglio. Sono andato facendo finta di niente. Mi hanno infilato nella stiva di una piccola barca e per due giorni non ho visto la luce. Tremavo, non dormivo, pensavo di morire in mezzo alle onde di un mare che non finiva mai. Invece è arrivata una grande nave e una donna, che non dimenticherò mai, mi ha detto: benvenuto a Lampedusa». E’ passata appena una settimana prima che lo mandassero a Bologna. «Vedi, adesso sono diventato grosso». Ride. Peserà cinquantacinque chili spalmati su un corpo arrivato a poco meno un metro e settanta di altezza. Era uno stuzzicadenti, oggi è un ragazzo. «Studio. Imparo la lingua. Imparo un lavoro. E voglio vivere a Bologna». Guarda padre Giovanni con i suoi occhi grandi come arance. «Qui ho trovate le persone che si occupano di me, quindi sono italiano». Non gli era mai successo. «Quanti di noi sono arrivati ieri dal mare?». Non lo so Issa, di sicuro molti. «Anche loro hanno bisogno di padre Giovanni». Non ce ne sarà uno per ciascuno, almeno fino a quando non sarà previsto dalla legge.

La Stampa 10.4.16
Lucio Melandri, Unicef
“L’Europa incapace di darsi regole e tutelare i bambini”
Il rischio è quello che i ragazzini siano “adottati” dalla criminalità
di Carola Frediani


La crisi di rifugiati e migranti è divenuta una crisi di bambini. «I minori sono una percentuale sempre più alta di chi arriva in Europa», spiega Lucio Melandri, che da tempo si occupa del tema per l’Unicef. «L’Europa non ha sviluppato un quadro armonioso di procedure e standard al riguardo». In comune c’è però l’urgenza di adottare misure efficaci a fronte della crescita tumultuosa di una delle categorie di persone più vulnerabili: i minori stranieri soli.
In Gran Bretagna le richieste di asilo per ragazzi migranti non accompagnati nel 2015 sono state oltre 2600, con un incremento del 50 per cento sull’anno precedente. Occuparsi dei minori non accompagnati che si trovano nella propria area è responsabilità degli enti locali. Che poi li distribuiscono a una rete di famiglie affidatarie. In questo aspetto l’Uk (insieme all’Olanda) è un po’ un’eccezione virtuosa, anche se l’afflusso di minori ha sovraccaricato il sistema: nel 2016, ha ammonito il network che si occupa degli affidi, serviranno altre 9 mila famiglie. E non sono mancate tensioni da parte delle aree più coinvolte, che sono solo in parte rimborsate dal governo centrale. Uno studio del 2015 calcolava in 97 sterline al giorno il costo di un migrante (adulto) in un centro di permanenza temporaneo inglese.
In Francia nel 2015 si stimavano 8 mila minori stranieri non accompagnati. Possono stare in Francia fino ai 18 anni, dopodiché hanno la possibilità di fare domanda per un permesso di soggiorno.
La Svezia nel 2015 ha avuto 163 mila domande di asilo, il numero più alto pro-capite in Europa. Ben 35 mila i minori soli arrivati l’anno scorso (nel 2014 erano stati 7mila), e che come tali godono di accesso a scuola e casa. A occuparsi di loro sono le autorità locali e i servizi sociali, che fino ai 12 anni fanno uso di una rete di famiglie affidatarie. Tuttavia, poiché la metà dei soggetti si colloca nella fascia fra i 16 e i 17 anni, c’è stato un aspro dibattito sulle procedure di accertamento dell’età. L’impennata di minori in arrivo ha avuto anche ripercussioni finanziarie. Ai 100 mila alunni che ogni anno entrano nel sistema scolastico del Paese per la prima volta, si sono aggiunti altri 70 mila posti originati dalla presenza di richiedenti asilo.
In Germania le situazioni e gli approcci variano tra gli Stati federati. Ma il Paese nel 2015 ha avuto comunque un «ruolo guida», commenta Melandri, ricevendo un milione di rifugiati. Il 40 per cento provengono dalla Siria, poi seguono Afghanistan e Iraq. Di questi, 300 mila sono minori. Così il governo si è rivolto anche alle associazioni per capire quali siano le procedure migliori per inserire un simile afflusso di bambini nelle scuole e nei servizi sociali.
Una delle sfide europee nel gestire ragazzi soli è la questione del loro monitoraggio. Qualche tempo fa si era molto parlato dei 10 mila minori «scomparsi» dai radar europei , secondo i dati Europol. «Molti sono andati via dai centri di accoglienza per cercare di raggiungere dei famigliari. Il problema è che i tempi dilatati per i ricongiungimenti inducono questi ragazzi a fuggire. Col rischio di mettersi nelle mani dei trafficanti», dice Melandri.

Repubblica 10.4.16
Il Fmi mette all'angolo Merkel sulla Grecia. Così riesplode la questione Atene
di Maurizio Ricci

qui

La Stampa 10.4.16
Come riparte la democrazia negli Usa
di Maurizio Molinari


A sette mesi dall’Election Day la campagna presidenziale americana ci offre un panorama di novità politiche che descrive le trasformazioni in arrivo da Oltreoceano sul fronte delle democrazie rappresentative. La prima riguarda il terreno elettorale: le primarie sono in corso da 70 giorni ed ancora restano contese a dispetto della tradizione che vuole i primi Stati, dall’Iowa al South Carolina, decisivi nella selezione dei candidati e il Super Martedì pressoché definitivo nell’indicare il favorito per la nomination.
Quanto avevamo visto nel 2008 con la lunga maratona democratica Obama-Hillary ora si sta ripetendo in entrambi i partiti con la conseguenza di vedere gli elettori della liberal New York decisivi nella gara repubblicana e le consultazioni nelle roccaforti conservatrici di Alaska e Texas pesare in casa democratica. In altre parole, la sfida presidenziale vede protagonisti contee, elettori e Stati che raramente dal Dopoguerra hanno avuto tale ruolo. Il risultato è un maggiore coinvolgimento popolare e un più evidente entusiasmo politico non solo nel campo degli sfidanti - come avviene per tradizione - ma anche del partito che controlla la Casa Bianca da otto anni.
Alla radice di tale partecipazione - cardine della vitalità di ogni democrazia - c’è l’aspro contrasto che si registra negli opposti campi: Donald Trump e Ted Cruz da un lato come Hillary Clinton e Bernie Sanders dall’altro spaccano i rispettivi partiti su questioni identitarie, valori politici, radici culturali e approcci alla vita pubblica incarnando visioni radicalmente divergenti dell’idea di nazione, per non parlare della missione americana nel mondo. Se Trump promette la demolizione dell’establishment, Cruz crede nella forza della fede, Hillary incarna la realpolitik bipartisan e Sanders rigenera il socialismo delle origini è perché ognuno esprime uno dei tasselli che compongono il variegato mosaico dell’America del dopo-Obama. Per chi ha sfiducia in Washington non c’è alternativa al tycoon con il parrucchino, per chi si oppone ad aborto e diritti gay il paladino è il senatore del Texas, per chi vuole un’America rassicurante il riferimento è l’ex First lady così come chi sogna l’utopia dell’uguaglianza totale vota il senatore del Vermont. Sono ricette drasticamente divergenti ed è proprio il contrasto acceso che esprimono a suggerire la determinazione con cui l’America sta scegliendo il suo 45o presidente. La tradizione politica dell’Unione americana suggerisce che spesso dopo una presidenza durata due mandati la nazione ripensa la direzione di marcia e quanto sta avvenendo oggi avviene con toni, argomenti e tattiche più divergenti del passato. Difficile dire oggi quale coalizione si formerà a favore di chi così come l’orizzonte della «brokered Convention», a fine luglio a Cleveland in Ohio, minaccia l’implosione del partito repubblicano. Ma possono esserci pochi dubbi sul fatto che la battaglia per la Casa Bianca sta riavvicinando alla politica milioni di americani che se ne erano allontanati sin dalla fine degli Anni Ottanta. Dimostrando come la battaglia fra forze anti-sistema ed establishment promette di rigenerare la democrazia in America per il semplice fatto che i contendenti, pur divisi su tutto e da tutto, condividono la volontà di rendere la nazione più unita, prospera e forte. Perché la sfida è fra ricette opposte per rinnovare l’eccezione americana, non per liquidarla. Ecco perché questa campagna presidenziale promette di far entrare alla Casa Bianca il 20 gennaio 2017 un presidente determinato a guidare l’America, e quindi la comunità delle democrazie, nell’affrontare le sfide mozzafiato del nostro secolo. È l’estrema vivacità della partecipazione politica alle elezioni a farci intuire che il motore della più vibrante democrazia rappresentativa del Pianeta è in pieno movimento.

Repubblica 10.4.16
Sanders vince ancora: suoi i caucus in Wyoming
Continua la serie positiva del candidato socialista alla nomination democratica, sconfitta Hillary Clinton. In Colorado Cruz si avvia verso la vittoria

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Repubblica 10.4.16
Primarie Usa, Sanders: "Il 15 aprile sarò in Vaticano"
L'annuncio arriva dallo stesso candidato democratico: "Invitato a un incontro in Vaticano su giustizia sociale e ambiente presieduto da Francesco". Il Vaticano precisa: "Nessuna previsione di un incontro col Papa"

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Corriere 10.4.16
Bernie, il mio compagno di stanza «Ragazze, birre e soldi (pochi)
La notte discuteva di diritti civili»
di Massimo Gaggi


NEW YORK «Nessuno di noi era benestante a Flatbush a quei tempi, parliamo di 55 anni fa. Ma Bernie era quello messo peggio. I genitori litigavano sull’uso dei pochi dollari guadagnati dal padre. E lui, nel gruppo degli amici, aveva la casa più piccola di tutti. Spesso non aveva i soldi per pagare da bere alle ragazze con cui voleva uscire la sera. Quando prendemmo casa insieme, vicino al Brooklyn College dove studiavamo, per lui fu anche una fuga da quel clima di cupa povertà. Che, però, l’ha segnato per tutta la vita».
Steve Slavin, il «roommate» di Bernie Sanders, mi accompagna in giro per Brooklyn, il quartiere nel quale il candidato democratico è nato e cresciuto e dove ha studiato prima di trasferirsi a Chicago e poi in Vermont. Bernie ha appena finito il comizio del «ritorno a casa», in mezzo alla 26esima strada all’angolo di Avenue P. Introdotto dall’attore Mark Ruffalo, è salito sul palco nella strada zeppa di gente, uscendo dal palazzo nel quale è cresciuto con la sua famiglia. E ha indicato, commosso, una finestra: «Eravamo là, al secondo piano, appartamento 2D. Laggiù quel grosso edificio è il mio liceo, il James Madison».
Il circo delle primarie si sposta a New York dove si vota fra 9 giorni. Aria di casa per Hillary Clinton, ex senatrice dello Stato e newyorchese d’adozione, ma anche per Sanders (oltre, ovviamente, a Trump, tra i repubblicani) che parla ancora con l’accento di Brooklyn, anche se in Senato rappresenta da decenni il Vermont.
Ci voleva il ritorno alle radici per farlo parlare della sua storia, dico a Steve mentre entriamo nel liceo Madison. «E’ vero», risponde l’amico degli anni giovanili, 75 anni, un docente di economia in pensione. «Ed è interessante: Bernie ha fatto una scelta opposta rispetto a Obama che nella campagna del 2008 puntò molto sullo storytelling . La narrativa del ragazzo nero che ce l’ha fatta, la madre eroica, il padre perduto. Tutto questo per Bernie non conta: contano solo i temi, il messaggio politico, i problemi da affrontare. E’ come se avesse capovolto l’insegnamento di Marshall McLuhan: il mezzo è il messaggio. Per Sanders, invece c’è solo il messaggio e lui diventa il mezzo, quasi impersonale, per trasmetterlo».
Condivide? Ed era così anche da giovane? «Ammiro la sua determinazione nell’aggredire i problemi, ma non condivido la rinuncia a raccontare la sua storia: se vuoi diventare presidente, la gente vuole sapere anche chi sei come persona. Ma è sempre stato così, anche allora: le ragazze, la musica nei vecchi mangiadischi, ma poi passavamo notti intere a discutere di discriminazioni e diritti civili».
Saliamo nelle classi in cui Bernie ha fatto l’ high school , po Steve mi mostra con orgoglio il «wall of distinction», la grande targa con l’elenco e la foto degli studenti che hanno fatto strada: quattro premi Nobel come Robert Solow; due giudici della Corte Suprema (uno è Ruth Bader Ginsburg tuttora in carica), l’ambientalista Barry Commoner, tre senatori (oltre a Sander c’è Chuck Schumer, probabile futuro capo dei democratici al Congresso) e poi scienziati, chirurghi, campioni di baseball, produttori cinematografici. Dicono che abbia studiato qui per un anno anche Woody Allen, ma dalla bacheca non risulta.
Niente male per un liceo di Flatbush. Tutti bianchi, però. «Questa era una zona ebraica, soprattutto ebrei russi, e d’immigrazione, irlandesi, italiani. A quei tempi c’era una segregazione di fatto. Nessuno affittava o vendeva casa a un nero oltre Foster Avenue. Ora è cambiato, ma allora era così. Bernie se ne rese conto poco a poco e si infiammava».
Faceva politica già da giovane? Gli piaceva studiare? «Più che studiare gli piaceva leggere», racconta Slavin mentre andiamo al Brooklyn College e poi alla casa, ora dipinta di rosa, nella quale ha vissuto con Sanders. «Nella biblioteca del college potevi prendere fino a quattro libri, otto se preparavi un esame. Lui ne prendeva sempre otto. Ma non prepari nulla, obiettavo. E lui: ma ci sono tante cose interessanti da leggere. E’ stato sempre così: anche quando, morta la madre, andò alla Chicago University. Divorava libri ma non gli interessava preparare gli esami, fare bella figura con i professori. Anzi, lì si mise a fare il campione dei diritti dei neri in un’università ancora segregata. Chissà se lo sanno i neri che votano in massa per Hillary Clinton».
Il quartier generale della campagna di Sanders a Gowanus, un ex distretto industriale, ora il luogo più cool di Brooklyn, è pieno di ragazzi di colore, e Bernie sta andando ad Harlem per parlare all’Apollo Theatre, tempio della New York nera. Ma per spezzare il legame degli afroamericani coi Clinton non bastano le contestazioni di «Black Lives Matter» (le vite dei neri contano) contro Bill.

La Stampa 10.4.16
Perù, la figlia del dittatore ora vuole la presidenza
Oggi il voto, Keiko Fujimori favorita. Il padre sconta in carcere 25 anni per decine di omicidi e torture: “Ha fatto errori, io diversa”
di Filippo Fiorini


Il simbolo con cui Keiko Fujimori vincerà le elezioni peruviane di oggi è una «kappa» bianca su sfondo arancione. Si potrebbe pensare che la figlia quarantenne dell’ex dittatore Alberto Fujimori abbia scelto la propria iniziale per marcare la differenza col passato, come a dire: io sono in primo luogo Keiko, una Fujimori nuova di zecca. Tuttavia, questo logo è identico a quello con cui la donna aveva già perso le presidenziali del 2011 e l’arancione è lo stesso che suo padre usò per la campagna del ’90, quando inaugurò un decennio di oscurantismo, corruzione e terrorismo di Stato.
Com’è possibile che dopo quattro presidenti democraticamente eletti e giunti a fine mandato, il Perù, la cui storia è infestata dalle dittature militari, scelga ora di votare la figlia dell’ultimo dei suoi despoti? Gli analisti dicono che nel ballottaggio del 7 giugno la maggioranza degli elettori farà di tutto perché questo non accada, ma alla vigilia del primo turno, il 33% degli aventi diritto giura di volere un altro Fujimori presidente.
La strategia di Keiko è stata quella di spendere gli ultimi anni promuovendo la propria immagine in giro per il territorio nazionale. Così, ha compreso meglio dei suoi avversari quali siano i problemi di una popolazione per il 20% povera, in cui il 75% dei lavoratori è in nero, che primeggia nell’export di coca e metalli, ma dove industria e servizi sono deboli.
Invece che assecondare chi voleva da lei una condanna pubblica alle malefatte del padre, Keiko si è limitata a chiamare «errori» i crimini per cui questi sta scontando 25 anni di carcere e a firmare un impegno a non liberarlo in caso venga eletta. Il suo argomento è che Fujimori sbagliò nel dare carta bianca al capo dell’intelligence Vladimiro Montesinos, ma non sapeva della sterilizzazione forzata di 330 mila donne d’etnia quechua e delle squadre di sicari che ammazzavano gli oppositori politici.
Su questi punti, però, diversi ex funzionari del governo paterno l’hanno smentita in tribunale. D’altra parte, la famiglia Fujimori viveva proprio dentro l’edificio del servizio segreto e nel ’94 la stessa Keiko ci mise la faccia, quando i genitori divorziarono e Alberto la volle come First lady. Sua madre Susana era fuggita dalla corruzione dilagante di cui era stata testimone e per questo dice di esser stata torturata.
Gli scheletri nell’armadio, però, stanno avendo meno peso sull’opinione pubblica peruviana che le promesse di campagna. Nell’ultimo discorso, Keiko ha detto: «Dedicherò i primi cento giorni di mandato ai cento comuni più poveri», e ha aggiunto l’assegnazione di nuove case popolari, acqua potabile per bassifondi e paesini, meno tasse a piccole imprese e negozianti, incentivi al lavoro giovanile, Internet nelle scuole e legalizzazione delle miniere clandestine che inquinano l’Amazzonia.
Poi, ha urlato: «Saremo drastici con i criminali. Come i contadini furono convocati a lottare contro il terrorismo, ora chiamerò i cittadini contro la delinquenza». Parlava della guerra scatenata da suo padre contro i sovversivi di Sendero Luminoso e dell’Mrta. La folla è esplosa in un boato. Ci furono 70 mila morti, un terzo dei quali per mano dell’esercito. Molti peruviani credono si debba fare lo stesso con ladri, narcos e stupratori. I restanti connazionali temono un ritorno ai vecchi tempi, ma il candidato sfidante Pedro Paulo Kuczynski, ex ministro liberale sostenuto dalla borghesia, sgomita al 16% con la proposta della sinistra ambientalista, Veronika Mendoza. Gli indecisi sono appena il 7%.

Repubblica 10.4.16
Lavoro, scontri in Francia
Da Parigi al Nord Est divampano le proteste contro la riforma Hollande
di Rosaria Amato


ROMA. Nuovi scontri a Parigi e a Rennes, in Bretagna, nel corso delle manifestazioni di proteste contro la riforma del lavoro promossa dal governo Hollande. Cortei e manifestazioni si tengono da giorni in tutto il Paese: a quelle di ieri hanno partecipato almeno 120.000 persone secondo il ministero dell’Interno, riporta il quotidiano
Le Figaro, spiegando che però per i sindacati solo a Parigi c’erano almeno 110.000 persone. Nella capitale violenti scontri si sono verificati nei pressi di Place della Nation: tre funzionari sono rimasti feriti dal lancio di oggetti, gli agenti hanno risposto con un massiccio uso di lacrimogeni. Situazione analoga a Rennes, dove un corteo pacifico di 2.000 cittadini francesi, tra i quali molti attivisti sindacali, è degenerato in un duro scontro con la polizia, con lanci di granate e lacrimogeni, dopo che un gruppo di giovani ha tentato di entrare nel centro storico della città. Anche a Nantes alcuni gruppi di giovani hanno eretto vere e proprie barricate e alcune vetrine di negozi sono state distrutte; alcuni giornalisti inoltre sono stati costretti ad andarsene.
Il movimento di protesta non si limita ai lavoratori ma include molti gruppi di persone a margine della società francese, tra i quali rifugiati e senzatetto. E tuttavia secondo i giornali francesi la partecipazione nel sesto giorno di mobilitazione indetta nel corso di un mese dai principali sindacati del Paese la partecipazione sta considerevolmente diminuendo; i cortei e le manifestazioni erano comunque più di 200. La riforma contestata abbatte definitivamente lo storico limite delle 35 ore settimanali (che già comunque soffrivano di consistenti deroghe), taglia gli straordinari, elimina il reintegro in caso di licenziamento illegittimo, limitando i diritti del lavoratore a un indennizzo proporzionale al periodo di permanenza in azienda.

La Stampa 10.4.16
Londra in piazza, “Cameron dimettiti”
In migliaia a Downing Street per i “Panama Papers”. Il premier: avrei dovuto gestire meglio la vicenda
di Alessandra Rizzo


Cappelli panama in testa e collane di fiori al collo, migliaia di persone sono scese in piazza a Londra per chiedere le dimissioni di David Cameron, implicato nello scandalo «Panama Papers» sui paradisi fiscali. A nulla è servito, poche ore prima, il mea culpa del premier britannico, che ha ammesso di aver gestito male la vicenda. «La colpa è mia», ha detto.
La manifestazione di fronte a Downing Street chiude una delle settimane peggiori da quando Cameron è alla guida del governo. Già alle prese con un partito spaccato e la crisi dell’industria dell’acciaio che mette a rischio migliaia di posti di lavoro, il leader conservatore ha dovuto ammettere di aver beneficiato di un fondo offshore creato dal padre. Quel che è peggio, la gestione del caso è stata un disastro di pubbliche relazioni: l’ammissione è arrivata dopo giorni di mezze verità e dichiarazioni maldestre, seguite al tentativo iniziale di liquidare la vicenda come una «questione privata». E il momento non poteva essere peggiore: Cameron ha davanti a sé la battaglia più importante della sua vita politica, il referendum sulla Brexit del 23 giugno. Per un premier debole, che ha subito un duro colpo all’immagine, sarà più difficile convincere i cittadini a votare a favore della permanenza del Paese nell’Unione europea.
Cameron ha spiegato che la sua reticenza iniziale era legata alla memoria del defunto padre Ian, un broker il cui fondo offshore, Blairmore Holdings, è al centro dello scandalo. Ma ha cercato di assumersi le sue responsabilità. «Non date la colpa a Downing Street o a oscuri consiglieri, la colpa è mia», ha detto parlando a una riunione dei Tory. «Avrei dovuto e potuto gestire meglio la vicenda, imparerò la lezione», ha aggiunto, promettendo di pubblicare a breve le dichiarazione dei redditi degli ultimi anni. Cameron ha venduto la sua quota nel fondo nel 2010, prima di diventare premier, per 30 mila sterline. L’accusa non è di evasione fiscale, ma di comportamento immorale e ipocrisia, inevitabile per un politico che ha promesso linea dura contro i paradisi fiscali. Lo scandalo nuoce inoltre alla sua popolarità perché ricorda al Paese, dopo anni di austerity e con nuovi tagli al welfare in programma, quanto il premier sia ricco, privilegiato e, secondo i detrattori, lontano dai problemi dei cittadini. «Tutto Parole, Niente Tasse», diceva uno dei cartelli dei manifestanti (tra loro anche la popstar Lily Allen), che hanno invocato per Cameron la stessa sorte toccata al premier islandese, costretto a dimettersi in seguito alla pubblicazione dei «Panama Papers».
Con il referendum che si prevede apertissimo, gli euroscettici possono gioire dei guai di Cameron. Cattive notizie per il premier arrivano anche dall’economia, con la produzione industriale a febbraio in ribasso dello 0,5% su base annua, il calo più significativo dall’agosto 2013. Il deficit commerciale con l’Ue nei tre mesi fino a febbraio è di 23,8 miliardi di sterline, il più alto mai registrato.

Repubblica 10.4.16
Se Londra è stanca di Cameron
di John Lloyd


L’UNICO posto di lavoro estraneo al mondo della politica occupato da David Cameron è stato quello di responsabile delle relazioni pubbliche di un’emittente televisiva. L’esperienza accumulata in sette anni in quella posizione si vede: è di nuovo nei guai, ma il suo modo di affrontare le rivelazioni sulle sue ricchezze segrete è — dopo qualche errore iniziale — da manuale. Da manuale per addetti alle Pr.
La reazione umana più naturale, quando si è accusati di qualcosa, è negare, dire che non si è colpevoli, oppure minimizzare le cose. Per alcuni giorni, l’ufficio stampa di Downing Street ha seguito questo iter. Poi Cameron ha preso in mano la situazione. A un meeting degli attivisti del partito conservatore, ieri a Londra, ha detto: «Non è stata una gran bella settimana. So che avrei dovuto gestire la situazione meglio. E avrei potuto farlo. So che devo trarne i giusti insegnamenti e lo farò. Non prendetevela con Downing Street 10 né con non meglio identificati consulenti: prendetevela con me».
Questa dichiarazione è stata sapientemente formulata per attirare ammirazione e simpatia. In primo luogo in essa si ammette che Cameron ha passato un momento difficile e quando ha detto «non è stata una gran bella settimana» ha suscitato risate e applausi. Poi ha espresso umiltà nei confronti di un errore da lui commesso: «So che avrei dovuto gestire la situazione meglio ». Più avanti ha detto: «So che devo trarne i giusti insegnamenti e in futuro lo farò». Infine, si è assunto tutta la responsabilità del caso: «Prendetevela con me».
È probabile che la sua dichiarazione sortisca l’effetto voluto. Tutti sanno che il primo ministro e la moglie Samantha sono ricchi. In verità, appartengono all’aristocrazia. Cameron ha frequentato le migliori scuole private della nazione, Eton e Oxford. La gente (che ieri ha manifestato a Londra, di fronte a Downing Street, per chiedere le sue dimissioni) non lo ammira per la sua ricchezza — come accade ai molti americani che ammirano Donald Trump per questo motivo — ma pochi lo odiano per essa.
In più, nella politica britannica di questi tempi c’è scarsa opposizione. La leadership del partito laburista è controllata dall’estrema sinistra, e nei sondaggi il partito è regolarmente distaccato dal governo — situazione alquanto insolita, soprattutto in un periodo di tagli. In Parlamento i Libdem sono stati ridotti a una manciata di deputati. Jeremy Corbyn, capo dei laburisti, sta cercando di sollevare un polverone sulla proprietà di asset a Panama da parte di Cameron in passato, ma la sua voce è automaticamente ignorata dalla maggioranza.
L’affaire lascerà una macchia, la fiducia ne sarà compromessa, e quando i dettagli saranno svaniti resterà un vago ricordo di “qualcosa che non fu giusto”. Tutto ciò potrà avere un impatto negativo sulla più grande sfida del primo ministro: vincere il referendum sull’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione europea. Cameron — pressoché lui solo — è la voce a favore di un’adesione continua all’Ue che si fa più sentire. Al momento nei sondaggi la decisione di continuare a farne parte è distaccata da quella di chi vuole la Brexit. I timori per una possibile uscita della Gran Bretagna dall’Ue sono concreti.
Cameron ha scelto l’unica posizione sull’Ue che potrebbe ottenere appoggi dalla maggioranza. Ha detto infatti con grande chiarezza che la Gran Bretagna è uno Stato sovrano; che non adotterà «mai» l’euro; che non farà «mai» parte dell’area Schengen; che non approverà «mai» la proposta di un’unione maggiore. Farne parte è utile. Nient’altro. Tra le principali potenze dell’Unione — Francia, Germania e Italia — soltanto la Gran Bretagna ha assunto questa posizione esplicitamente anti-integrazionista. Se Cameron vincerà il referendum (le urne sono ancora chiuse) la Gran Bretagna sarà, più distintamente di prima, l’alternativa alla spinta tedesca a una maggiore integrazione. I politici di altri Stati membri dell’Unione europea che desiderano mantenere il controllo sulla loro economia e alle loro frontiere la considereranno un modello. Per coloro che, invece, perseguono l’obiettivo di un’Unione più coesa, la Gran Bretagna rappresenterà un pericolo più dentro che fuori.
Cameron è un politico intelligente e capace, ed è stato fortunato. Non credo che a causa dei Panama Papers ci rimetterà molto. Il suo vero banco di prova sarà a giugno, quando dovrà convincere i britannici che, come spesso ripete, stando mezzo dentro e mezzo fuori dall’Europa «hanno il meglio di entrambe le opzioni». A dispetto dei sondaggi, a dispetto dei guai che l’Ue sta passando e che paiono al momento pressoché irrisolvibili, a dispetto dei forti timori per il terrorismo e la forte tendenza — non limitata alla Gran Bretagna — ad addossarne la responsabilità proprio all’Ue, il timore di trovarsi fuori dal club europeo, di perdite economiche, di diventare meno influenti nel mondo, gli permetterà ancora una volta di essere fortunato.
(Traduzione di Anna Bissanti)

Corriere La Lettura 10.4.16
Scienziati anglo-europei

In Inghilterra la gente è divisa sull’uscire o meno dalla Ue ma gli scienziati no. L’83% vuole rimanere in Europa, il 5% non si pronuncia e quelli che vogliono uscire sono solo il 12%. «La Gran Bretagna è troppo piccola — dicono — perché possiamo‎sostenere da soli la competizione internazionale e possiamo muoverci facilmente tra i diversi Paesi». Loro, gli inglesi, ricevono dall’Europa ogni anno per la ricerca 1,7 miliardi di euro (noi 730 milioni).

Corriere La Lettura 10.4.16
Caccia alla prima anomalia dell’universo
L’incontro
Oltre 400 scienziati si riuniscono a Roma con un sogno: costruire il più grande acceleratore di particelle della storia
Guido Tonelli racconta l’impegno per realizzare la macchina che produrrà milioni di bosoni di Higgs
di Guido Tonelli


Arriveranno a Roma da tutto il mondo: più di 400 scienziati si riuniranno dall’11 al 15 aprile in occasione delle giornate di studio sul progetto internazionale per un futuro acceleratore di particelle (Fcc Week 2016). È in programma per giovedì 14 aprile alle 21 nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica l’incontro Macchine per scoprire. Dal Bosone di Higgs alla Nuova Fisica . Tra gli altri, interverranno il direttore generale del Cern, Fabiola Gianotti, il presidente dell’Infn, Fernando Ferroni, e Guido Tonelli (foto sopra), professore di Fisica all’Università di Pisa, tra i protagonisti della scoperta del bosone di Higgs al Cern di Ginevra. Il racconto delle scoperte recenti e delle sfide future sarà accompagnato dalla musica di Umberto Petrin e dalla voce di Stefano Benni (ingresso e 5; comunicazione@presid.infn.it)

Si riuniranno a Roma per una settimana da domani, 11 aprile, fino al 15. Sono più di quattrocento scienziati, ingegneri e giovani ricercatori, vengono da trenta Paesi di quattro continenti. Sono le truppe d’avanguardia del progetto più ambizioso che mente umana abbia concepito. Una macchina dei sogni, un nuovo acceleratore di particelle di dimensioni e potenza tale da far sembrare un nano il Large Hadron Collider, l’Lhc, la macchina che ha scoperto il bosone di Higgs.
Quando si pensa a un gruppo di studio ci si immagina una decina di persone sedute intorno a un tavolo. Non è così per la moderna fisica delle alte energie. Fcc, il gruppo di lavoro che sta lavorando agli acceleratori del futuro, ha deciso di convocare a Roma la sua seconda riunione annuale (la prima si è tenuta a Washington nel 2015). È costituito da centinaia di persone sparse in decine di università di tutto il mondo. Si sta studiando se è possibile costruire un incredibile gioiello di tecnologia, un avveniristico acceleratore di 100 chilometri di circonferenza (Lhc misura 27 chilometri). C’è bisogno di fisici che simulino le collisioni fra elettroni e fra protoni a energie mai raggiunte prima e che progettino gli enormi rivelatori che si dovranno utilizzare; di ingegneri che ci dicano se si potranno costruire i potentissimi magneti che cercheranno di tenere in orbita le particelle; di geologi che affrontino i problemi di un tunnel che si vorrebbe scavare a 400 metri di profondità, nella regione di Ginevra, addirittura passando sotto il lago Lemano e così via.
Dopo la scoperta del bosone di Higgs il mondo della fisica è di nuovo in effervescenza. Riposte le bottiglie di spumante e gli abiti eleganti delle premiazioni, l’armata della conoscenza si è rimessa in marcia. Jeans e camicia l’uniforme più gettonata, qualche chioma canuta in mezzo a gruppi di giovani entusiasti; i veterani di tutte le battaglie degli ultimi trent’anni discutono le idee di giovani freschi di laurea, e scuotono la testa. Le proposte di questa nuova generazione di ragazzi sono talmente avveniristiche da sembrare folli , imprese che, oggi, sembrano impossibili da realizzare. Ma gli scienziati più anziani ricordano che lo stesso era già avvenuto quando anche loro, giovanotti nei primi anni Novanta discutevano di Lhc, e la storia sembra ripetersi. Oggi, come allora, centinaia di giovani sono pronti a lanciare il cuore oltre l’ostacolo in un’impresa ancora più ambiziosa.
Si pensa a una manovra a tenaglia per non lasciare scampo alla nuova fisica, ovunque essa si nasconda.
Costruire prima una macchina gigantesca, un acceleratore di 100 chilometri per far collidere elettroni e positroni: una fabbrica di Higgs, per produrne milioni in condizioni sperimentali ideali e studiarne con precisione tutte le caratteristiche. Le nuove particelle, che spiegherebbero la materia oscura o nuove interazioni che ci porterebbero alle dimensioni nascoste del nostro universo, potrebbero essere scoperte in maniera indiretta, attraverso le più incredibili misure di precisione dei parametri del modello standard che mai siano state concepite. E quando, analizzando i dati con grande cura, una ragazza indiana, o un post-doc cinese trovasse un’anomalia e misurasse la più piccola delle deviazioni, ecco che, di colpo, il bel castello di congetture, di cui siamo così orgogliosi, crollerebbe in un istante e dovremmo abbandonare il modello standard per una nuova teoria più generale.
Si prevede poi una seconda fase: equipaggiare lo stesso tunnel con magneti due volte più potenti di quelli di Lhc e usare fasci di protoni per raggiungere l’energia di 100 TeV. Se non basteranno le misure di precisione si passerà alla forza bruta: spingendo al massimo sull’energia si riuscirà a scoprire qualunque stato della materia che abbia una massa fino a qualche decina di TeV. Eccola qui la macchina dei sogni per ogni fisico sperimentale.
Il bosone di Higgs nasconde ancora molti misteri e ci può raccontare molto dell’universo materiale che ci circonda. Non solo non abbiamo spiegazioni convincenti per la materia oscura che tiene assieme le galassie o per la particella che ha scatenato quella crescita parossistica originaria che chiamiamo inflazione. La questione della asimmetria fra materia e antimateria è tuttora uno dei misteri che non siamo riusciti a risolvere. Non c’è motivo di pensare che nel Big Bang si siano prodotte quantità diverse di materia e antimateria e sappiamo che se due specie così diverse entrano in contatto fra loro si annichilano in un lampo di luce. Perché allora l’una è scomparsa completamente ed è sopravvissuta soltanto la materia ordinaria che occupa l’ universo intero?
Per decenni si è pensato che tutto fosse dovuto a una qualche differenza nel comportamento di materia e antimateria, ma i risultati ottenuti non sono conclusivi.
Una nuova ipotesi si è affacciata con prepotenza negli ultimi anni. Tutto potrebbe essere stato determinato da qualche dettaglio di quel momento magico della nostra esistenza in cui il bosone di Higgs ha preso il centro della scena e ha rotto quella perfetta simmetria che dominava l’universo primordiale.
La nuova macchina da 100 TeV sarà lo strumento ideale per studiare il potenziale dell’Higgs lontano da quella posizione di equilibrio in cui riposa tranquillo fin dai tempi del Big Bang. Ci permetterà di osservare, per la prima volta, cosa è successo veramente in quel momento cruciale.
Sappiamo che il mondo materiale che ci circonda ha una specifica struttura che è stata definita in quell’istante. Ma come è veramente avvenuta quella transizione?
Con la nuova macchina ricostruiremo in dettaglio, fotogramma per fotogramma, il film della nascita imperfetta delle cose. E forse scopriremo che il bosone di Higgs ha una leggerissima preferenza ad accoppiarsi con la materia anziché con l’antimateria. Oppure che è stato determinante il modo con cui è avvenuta la transizione di fase. Tutto si è forse deciso quando si sono formate le prime minuscole bolle di quello strano vuoto in cui l’interazione debole si separava definitivamente da quella elettromagnetica. Alla superficie di queste bollicine in espansione rapida si può creare una leggerissima asimmetria fra materia e antimateria. Se il passaggio di fase è molto rapido questo minuscolo difetto può sopravvivere e diventare proprietà generale del tutto. Come quando si cresce un grosso cristallo e l’infinitesima dislocazione fra piani cristallini che interessa la prima aggregazione di atomi si propaga all’intero cristallo che si estrae dal crogiolo di fusione.
Potrebbe essere questa la sottile imperfezione da cui è nato tutto. Un’anomalia che dà origine a un universo materiale che può evolvere per miliardi di anni.
Per risolvere gli enormi problemi tecnologici del nuovo acceleratore, per ridurre i costi di un’infrastruttura così ambiziosa e complessa occorrerà molto lavoro. Ci vorranno anni, forse decenni, ma si riuscirà a scrivere, prima o poi, un altro capitolo cruciale della nostra storia.

Corriere La Lettura 10.4.16
Hobbit, ci sono le prove definitive Una nuova specie di 100 mila anni fa
La grotta di Liang Bua sull’isola di Flores nell’arcipelago indonesiano


Il mistero degli hobbit è risolto, anche se tante altre domande sulla loro natura e il loro mondo restano senza risposta, compreso un destino che sembra legarli a Neanderthal. Grande scalpore aveva suscitato nel 2003 l’annuncio della scoperta dell’Homo floresiensis sull’isola di Flores, in Indonesia. Scavando nella grotta di Liang Bua i paleoantropologi delle università di Wollongong, in Australia, e di Thunder Bay, in Canada, scoprirono i resti di piccoli uomini. Analizzando i sedimenti carboniosi in cui erano stati trovati, conclusero che gli scheletri risalivano a 18 mila anni fa. Dato che erano alti poco più di un metro, venne avanzata l’ipotesi che si trattasse di una particolare specie di Homo sapiens affetta da nanismo. I nuovi dati, riferiti dalla rivista «Nature», suggeriscono che l’Homo floresiensis, soprannominato hobbit proprio per la statura, sia una nuova specie separata, vissuta nell’isola molto tempo prima, tra 60 e 100 mila anni fa. Il risultato è giunto dopo aver ampliato le analisi dei sedimenti e soprattutto datando le ossa con il sistema del decadimento degli isotopi dell’uranio e del torio. Questa diretta valutazione non era stata affrontata in passato per il timore di danneggiare i reperti. Resta aperta una questione importante: come mai, a un certo punto, il floresiensis scomparve? Qui si compie un parallelo con l’Europa e con Neanderthal, facendo emergere la possibilità che proprio l’arrivo dell’Homo sapiens abbia decretato la sua fine. L’interazione con gli umani o altre specie resta la questione sulla quale adesso si concentra l’attenzione degli scienziati per decifrare l’evoluzione dei piccoli hobbit .

Corriere La Lettura 10.4.16
Un po’ fantasmi e un po’ mutanti
Ma i partiti non sono scomparsi


Ma i partiti sono ancora necessari a garantire la democrazia? O sono diventati consorterie di interessi che si annidano nell’organizzazione dello Stato? Una volta erano guidati dall’ideologia. Punto di riferimento irrinunciabile per l’azione politica. Col tempo la «scienza delle idee», come la definì Destutt de Tracy, si è appannata: i partiti se ne sono sbarazzati in fretta, come di un peso ingombrante, preferendo puntare su fattori più immediati.
Di questa trasformazione storica rende conto Damiano Palano in La democrazia senza partiti (Vita e Pensiero): analisi di un mutamento genetico che mette in dubbio la funzione dei partiti «in una società profondamente diversa da quella che li aveva visti nascere e crescere», tanto da prevedere la loro estinzione, sotto la spinta della marea antipolitica. Per continuare a esistere si sono dovuti adeguare, inseguire un elettorato sempre più distratto e volubile, spinto da pulsioni emotive e sedotto da soluzioni immediate. Partiti «pigliatutto», ricorda Palano, «fantasmi» intercambiabili, guidati da leader carismatici autoreferenziali. Sono mutanti all’interno di un sistema politico che non ha più regole ed etica, se non quelle di rincorrere il consenso.
Per inseguire gli umori del pubblico, come scrive Jürgen Habermas, la funzione del voto diventa quella di «fotografare la gamma delle opinioni quali si manifestano allo stato brado», dove la stessa democrazia viene a perdere di significato. Mutano ma non scompaiono. Sono stabilmente innestati nella politica e ne esprimono la prassi. Sicché, più che di una democrazia senza partiti, bisognerebbe parlare di partiti senza democrazia.

Corriere La Lettura 10.4.16
Alan Turing
La vita dell’uomo in grado di decrittare i codici cifrati dei nazisti, perseguitato e poi castrato chimicamente per la sua omosessualità nell’Inghilterra moralista, è di per sé materia da romanzo Lo svedese David Lagercrantz lo ha scritto. E noi abbiamo sollecitato due lettori interessati
La mela proibita di Alan Turing /1
Un thriller con l’odore del cianuro tocca i misteri della matematica
di Vanni Santoni


Bambino difficile, studente anticonformista, uomo dallo sfacciato candore, decrittatore geniale del codice Enigma usato dai nazisti, ideatore dei concetti dietro la moderna idea di computer, precursore dell’intelligenza artificiale, omosessuale perseguitato in un’Inghilterra in cui il moralismo latente era esacerbato dall’influenza del maccartismo, vittima di una disumana castrazione chimica, infine suicida per mezzo di una mela avvelenata.
Con una vita del genere, è normale che il matematico Alan Turing da sempre affascini letterati e artisti in ogni campo: lo incontriamo tra i personaggi di romanzi come Enigma di Richard Harris o Cryptonomicon di Neal Stephenson, a lui sono dedicati spettacoli teatrali come Breaking the code di Hugh Whitemore, film come The imitation game di Morten Tyldum, opere musicali come A man from the future e For Alan Turing di gruppi tanto diversi quanto possono esserlo Pet Shop Boys e Matmos, fino ovviamente alle biografie, da quella ormai classica di Andrew Hodges ( Alan Turing: una biografia , Bollati Boringhieri 1983) alla più recente, italiana e a fumetti, firmata quattro anni fa per Rizzoli Lizard da Tuono Pettinato e Francesca Riccioni, Enigma: la strana vita di Alan Turing .
Non stupisce allora che anche un autore come David Lagercrantz decida di lavorare sulla vita del matematico. Lo scrittore svedese, prima di essere scelto per raccogliere il testimone di Stieg Larsson e continuare la sua Millennium saga col recente Quello che non uccide , ottenendo così notorietà globale, si è infatti distinto nel campo della biografia. La più celebre è quella del connazionale Zlatan Ibrahimovicć ( Io, Ibra , Rizzoli 2011), scritta a quattro mani con lo stesso calciatore, ma già a inizio carriera Lagercrantz aveva raccontato, con biografie «pure», le vite di personaggi celebri in Svezia come l’alpinista Göran Kropp o l’inventore Håkan Lans.
In La caduta di un uomo , uscito in patria nel 2009 e proposto oggi ai lettori italiani da Marsilio, Lagercrantz giunge a indagare la vita e la morte di Alan Turing, utilizzando però gli strumenti del thriller. Il romanzo si apre con la narrazione degli ultimi istanti di vita del matematico, e subito dopo presenta la più classica delle crime scene : il detective che entra nella stanza, il cadavere riverso sul letto, la schiuma alla bocca, indizio di avvelenamento, l’odore di mandorle del cianuro che aleggia per casa. Leonard Corell, poliziotto dalle ambizioni frustrate e dalla storia familiare tormentata, «abbastanza giovane da aver evitato di misura il fronte, abbastanza vecchio da provare la sensazione che la vita l’avesse lasciato indietro», attraverso le indagini su questa morte — suicidio o omicidio? — si troverà risucchiato fino all’ossessione nella complessa vicenda umana e scientifica di Alan Turing: cosa che lo porterà a mettere in discussione se stesso, le proprie convinzioni e il proprio rapporto con una società che si rivelerà profondamente retrograda, oltre che ingrata al punto di isolare e perseguitare uno degli artefici della vittoria bellica sulla Germania.
Con La caduta di un uomo , Lagercrantz esplora nel dettaglio la storia del matematico e le circostanze dietro alla sua morte, riuscendo al contempo a divulgare con efficacia i non semplici concetti alla base del suo lavoro e della sua eredità di scienziato, ma soprattutto disegna un quadro cupo e perturbante della società inglese degli anni Cinquanta, malata di paranoia e ancora pervasa da sentimenti di virulenta omofobia, nella quale non poteva in alcun modo trovare posto un «uomo venuto dal futuro» come Alan Turing.

Corriere La Lettura 10.4.16
La mela proibita di Alan Turing /2
Sommava il genio al candore E così immaginò il computer
di Stefano Gattei


All’inizio dell’estate del 1954, il ritrovamento di un corpo senza vita, in un appartamento della città inglese di Wilmslow, pone all’ispettore Corell un problema inaspettatamente complesso. Incaricato di ricostruire la vicenda che ha portato alla morte di Alan Turing, giovane e brillante matematico condannato alla castrazione chimica per omosessualità, Corell è combattuto fra i pregiudizi omofobici tipici del tempo (e ancora non sopiti) e la curiosità per la natura delle ricerche di Turing. Si interroga in particolare su un paradosso che aveva assorbito per anni l’attenzione del matematico: il paradosso (o, più correttamente, l’antinomia) del mentitore. «Io mento»: una frase che nega sé stessa, che si spaccia per falsa e che proprio per questo è vera — una contraddizione interna che, osserva il protagonista del romanzo di David Lagercrantz La caduta di un uomo , «rende il concetto di verità vano o, per così dire, lo mette temporaneamente fuori uso».
Fra tutte le scienze, la matematica è quella che più si occupa della verità. Lo scopo di una dimostrazione è trasmettere la verità delle premesse alla conclusione, o giustificare la conclusione alla luce di un certo numero di assunzioni: forse si tratta di proposizioni astratte, che poco hanno a che fare con il mondo di tutti i giorni, ma quelle della matematica sono comunque asserzioni vere, perché dimostrate. In anni in cui la fisica opponeva al determinismo laplaciano le «strane» conseguenze della teoria dei quanti — con particelle distinte che rimangono indissolubilmente correlate fra loro anche a enormi distanze, e principi che stabiliscono un limite alla determinazione dei valori di grandezze coniugate — la matematica pretendeva ancora di dire la verità. Forse non tutta , la verità; ma almeno nient’altro che la verità.
Fra i più influenti matematici del tempo, David Hilbert era pronto a giurarlo. Nel 1928 invitò i colleghi a rispondere a tre domande: la matematica è completa? È coerente? È decidibile? Detto altrimenti: ogni enunciato prodotto dalla matematica può essere dimostrato vero, oppure confutato? Si può dimostrare che un enunciato contraddittorio non può mai essere ricavato attraverso una procedura valida? E dato un sistema assiomatico e una proposizione scelta arbitrariamente, esiste una procedura che consenta di determinare se tale proposizione sia vera o falsa all’interno del sistema? Hilbert era convinto che fosse possibile rispondere di sì a tutte e tre le domande. Da buon matematico, tuttavia, voleva conoscere la risposta con certezza.
Già nel 1931, tuttavia, Kurt Gödel fornì una prova straordinariamente elegante dell’incompletezza della matematica. Più tardi, Turing decise di concentrarsi sulla decidibilità: si domandò se fosse possibile immaginare una procedura meccanica che consentisse di dimostrare una qualunque proposizione matematica. E si chiese, a tal fine, che cosa fosse di preciso una procedura meccanica, e che cosa fosse una macchina in grado di eseguirla. Per Turing, una macchina è un oggetto in grado di manipolare simboli in accordo con un determinato insieme di regole. Non importa se si tratti di giocare a scacchi, tradurre ideogrammi o cercare numeri primi: in ognuno di questi casi, il problema è quello di stilare un certo numero di regole che, introdotte in una macchina in grado di eseguirle grazie a un codice, le consentano di svolgere una qualunque attività. Oggi i concetti di hardware e software sono di dominio comune, ma in quegli anni la questione passò quasi inosservata: tutti si concentrarono sulla dimostrazione formale dell’impossibilità di costruire una macchina in grado di «decidere» tutti i problemi matematici; sfuggì, invece, il risultato conseguito nel tentativo di giungere a tale dimostrazione, cioè la definizione rigorosa di macchina calcolatrice, o computer.
Alcuni risero di Turing: solo uno stupido, si disse, può pensare che i matematici facciano le loro scoperte accendendo una macchina miracolosa. Ma Turing, nelle parole di Corell, «non era un matematico serio; non in quel senso, almeno. Manteneva intatto il suo candore, ed essere ingenui e geniali è una combinazione felice».
David Lagercrantz La caduta di un uomo. Indagine sulla morte di Alan Turing Traduzione di Carmen Giorgetti Cima Marsilio Pagine 468, e 19

Corriere La Lettura 10.4.16
Il lavoro nobilita? Non per Cicerone
L’economia dei Romani conobbe notevoli progressi sul piano tecnologico e monetario Ma per la mentalità dominante contava lo status sociale, non l’attività svolta. I guadagni
dei salariati erano considerati disonorevoli. E lo stesso valeva per commercianti, artigiani e attori
di Livia Capponi


Ogni epoca proietta sul mondo antico le aspirazioni e le preoccupazioni del presente. Lo storico Michael Rostovtzeff, quando pubblicò la Storia economica e sociale dell’impero romano nel 1926, aveva esperienza diretta sia della rivoluzione russa che del capitalismo americano. Tenney Frank, curatore dell’ Economic Survey of Ancient Rome («Indagine economica sull’antica Roma») , aveva vissuto la Grande Depressione. Moses Finley, storico e sociologo britannico, reagì all’eccessivo ottimismo degli anni Sessanta criticando nel suo L’economia degli antichi e dei moderni (1973) l’approccio capitalistico all’economia antica e attirandosi l’accusa di marxismo. Oggi, l’ingresso di nuovi poteri economici come la Cina, la globalizzazione e il credit crunch hanno stimolato nuove interpretazioni del mondo antico. Negli ultimi decenni, inoltre, nuove scoperte archeologiche e pubblicazioni di iscrizioni e papiri hanno gradualmente ovviato alla scarsità di informazioni di tipo economico e tecnico nella letteratura antica, sempre e ossessivamente concentrata sulla storia politica e militare.
La Storia del lavoro in Italia. L’Età romana , appena uscita per i tipi di Castelvecchi a cura di Arnaldo Marcone, è un contributo di cui si avvertiva il bisogno per comprendere un concetto oggi in fase di radicale cambiamento e ridefinizione. I saggi di più di venti storici riconsiderano sistematicamente le principali attività, affrontando anche temi trasversali come le forme di protesta dei lavoratori, il rapporto fra lavoro e identità sociale, lo sfruttamento di donne e bambini.
Lo studio dell’agricoltura come base portante dell’economia antica si è a lungo polarizzato sulle posizioni di «primitivisti contro modernisti». Se Finley vedeva l’economia antica come disinteressata alla produzione e all’investimento finanziario, volta alla conservazione più che all’innovazione, e gestita da aristocrazie terriere di tipo parassitario, simili alla nobiltà nullafacente e polverosa descritta da Goncharov nel romanzo Oblomov (1859), Rostovtzeff usava i concetti di dirigismo statale e borghesia per spiegare il mondo ellenistico, in modo anacronistico seppure di grande efficacia. Altra vecchia convinzione era che la caduta dell’impero romano fosse da imputare al mancato salto tecnologico, che avrebbe potuto invece portare a una precoce rivoluzione industriale. Marcone e colleghi tengono conto di queste opinioni, pur superate, come punti di partenza per l’indagine. Riportano, per esempio, al centro dell’attenzione le molte innovazioni romane prima sottovalutate, dal mulino ad acqua alle tecniche edilizie, dal torchio a vite agli acquedotti, fino al sistema monetario stesso, diffuso capillarmente ai più remoti confini dell’impero, in un dinamico rapporto fra commercio e tasse, con livelli di sofisticazione e razionalismo non più raggiunti fino al tardo Medioevo. Tuttavia, viene fatto notare, le differenze fra noi e gli antichi sono maggiori delle somiglianze.
I Romani non percepivano il lavoro come un valore fondamentale su cui costruire la propria identità, poiché questa si basava sullo status, collocato su uno spettro di condizioni intermedie fra i due poli di libero e schiavo. Non c’era nemmeno una reale competizione fra schiavi e salariati, che lavoravano affiancati nella villa , il principale strumento di sfruttamento agricolo. Parlare di modo di produzione schiavistico e di classi sociali, dunque, non basta a spiegare la realtà romana. Le rivolte servili non mirarono mai all’abolizione della schiavitù. Nel Satyricon di Petronio, Trimalcione, diventato un ricchissimo latifondista, nella mentalità rimane sempre un ex schiavo.
Nel trattato I doveri , Cicerone giudica le professioni secondo una scala morale, affermando che «indegni di un uomo libero e sordidi sono anche i guadagni di tutti i salariati, dei quali si compra il lavoro manuale, e non l’abilità; poiché in essi il salario stesso è quasi prezzo di servitù». Condanna come volgari pure le professioni di esattori, usurai, commercianti, artigiani e attori, salvando solo le arti liberali, insieme a medici e architetti perché utili al pubblico, e concludendo che «di tutte le occupazioni dalle quali si trae qualche guadagno nessuna è più nobile, più produttiva, più piacevole, né più degna di un uomo libero dell’agricoltura», beninteso dal punto di vista del proprietario terriero. Mentre oggi avere un salario è sinonimo di libertà, per Cicerone, un uomo libero che riceveva una paga diventava come uno schiavo, perché si metteva alle dipendenze di qualcuno. Le arti liberali non vendevano professionalità per denaro, ma erano ricompensate con benefici di altro genere, anche perché chi le coltivava non aveva bisogno di guadagnare. Per gli antichi il valore del beneficium era incalcolabile; uno schiavo liberato spesso continuava a lavorare gratis per l’ex padrone tutta la vita.
Ma come pagò Cicerone i tre milioni e mezzo di sesterzi per la sua casa sul Palatino? Sebbene tendesse a nasconderlo, l’aristocrazia senatoria praticava ampie speculazioni. Tacito afferma che sotto Tiberio tutti i senatori prestavano a interesse ben oltre il valore dei loro averi, tanto da creare nel 33 d.C. una crisi di liquidità che fece crollare il prezzo della terra da Lione a Corinto, finché l’imperatore intervenne con un’iniezione di 100 milioni di sesterzi senza interesse alle mensae , cioè le banche.
Il più grande pericolo per un aristocratico inadempiente era incorrere nell’infamia, la perdita dello status sociale e morale, con conseguente disfacimento dell’ordine costituito. Mettere in pericolo le fortune dell’oligarchia era dunque un rischio per tutta la comunità, o almeno così argomentava Cicerone, poi letto e assimilato, ad uso di noi moderni, da Adam Smith.

Corriere La Lettura 10.4.16
La ricomparsa di Majorana
Arriva nelle sale «Nessuno mi troverà», che affronta la misteriosa sparizione nel 1938 del geniale fisico siciliano
Lo scienziato vi appare disegnato accanto a maeriali d’archivio e interviste
di Alessandra Arachi


Non sperate nella soluzione del mistero: Nessuno mi troverà è un docu-film che resta fedele al suo titolo. E, soprattutto, resta fedele al suo protagonista, Ettore Majorana. Il fisico più enigmatico della storia non soltanto italiana, un giorno di marzo del 1938 decise di scomparire e aveva la certezza — matematica, ovviamente — che nessuno lo avrebbe mai più trovato.
Aveva trentun anni appena Majorana il 25 marzo 1938 e aveva già vergato pagine assai preziose della fisica teorica, pagine che ancora oggi danno da discutere ai fisici del mondo.
Non sono bastati fiumi d’inchiostro e chilometri di pellicole per sciogliere il mistero di questo giovanissimo fisico nato a Catania e trapiantato a Roma nel fulcro della fisica mondiale qual era la facoltà di via Panisperna, all’interno del complesso del Quirinale. Al suo caso si sono dedicati uno scrittore come Leonardo Sciascia ( La scomparsa di Majorana , 1975) e un regista come Gianni Amelio che, con un film di fiction ( I ragazzi di via Panisperna , 1989) basato sul rapporto controverso fra Majorana ed Enrico Fermi, ha cercato di indagare e di scavare nei meandri della sua psiche. Senza successo.
Ettore Majorana la sera del 25 marzo 1938 è salito sul postale che da Napoli portava a Palermo e nessuno lo ha mai più visto. E a oggi non soltanto non si è capito dove sia andato ma non si è trovato nemmeno un briciolo del perché abbia voluto sparire dalla faccia della terra quando a questa terra avrebbe potuto ancora dare tantissimo.
Egidio Eronico non si è messo a cercarlo. Non con la pretesa di trovarlo, perlomeno. Con il suo Nessuno mi troverà , il nostro regista ha scelto la strada dei documenti, dei fatti, delle testimonianze e non è un caso che il docu-film si avvale della collaborazione del dipartimento Scienze fisiche del Cnr, con la consulenza di due storici della fisica del calibro di Francesco Guerra e Nadia Rebotti, oltre ad avere una testimonianza preziosa e inedita di Ettore Majorana jr, un nipote, fisico anche lui.
È un’animazione dolce ad accompagnare l’apertura del film, e accompagnerà poi tutte le scene dove Ettore Majorana è per lo spettatore un fumetto in chiaroscuro. Massimo Ottoni ha curato l’animazione di quei disegni fatti da Leomacs, illustratore del centro sperimentale di Torino. Chissà che non sia davvero questa la scelta migliore per rappresentare un uomo di cui non si sa più nulla da quasi ottant’anni.
Beveva molto latte, Ettore Majorana, e per questo soffriva d’ulcera, ci svela la voce narrante di Marco Foschi, velata e segreta proprio come quella del nostro fisico geniale, davvero troppo geniale per non soffrire di scompensi, anche se nel docu-film Guerra e Rebotti si ostinano a volerlo descrivere come «normalissimo» ed è forse questa l’unica cosa alla quale è difficile credere nella loro ricostruzione che ha il timbro della scienza.
Davvero si può dire che Ettore Majorana fosse «normalissimo»? Uno che metteva in seria difficoltà intellettuale Enrico Fermi e che nessuno dei ragazzi di via Panisperna ricorda di aver mai visto con una donna, nemmeno nel segreto dei bordelli della Suburra. Doveva avere una sensibilità che lo ha schiacciato, questo fisico che quando era bambino di tre anni si metteva sotto il tavolo della cucina e — su richiesta — era capace di estrarre a mente radici quadrate a tre cifre. Quanto deve essergli pesato che fosse proprio Enrico Fermi a firmare per lui l’assegnazione a Napoli della cattedra per chiara fama, così da non disturbare il concorso di Roma? Quanto deve avere sofferto che fosse proprio Enrico Fermi a scippargli lavori da pubblicazioni senza mai mettere il suo nome in calce? Quanto deve aver capito in anticipo tutto sulle scoperte nucleari che avrebbero aperto la strada alla bomba atomica?
Anche nel docu-film questa rimane la tesi in qualche modo prevalente come motivazione: Ettore Majorana sparisce dal mondo dopo aver ripetuto che «siamo sulla strada sbagliata». E con questo metteva in dubbio tutte le scoperte e il lavoro dell’istituto di via Panisperna.
Ma forse, come al solito, la spiegazione più semplice è sempre alla fine la più vera. Ce la racconta la voce narrante, all’inizio del film, quando Ettore, figura animata, attraversa la pellicola con un cappello a tese larghe e scopriamo che sì, lui «soffriva per mancanza di amore».
Nessuno mi troverà arriverà nelle sale in alcune città italiane — tra queste Roma, Torino, Milano, Firenze, Bologna — e chissà se all’Istituto Luce si sono accorti di aver scelto per l’uscita una data assai emblematica: il 15 aprile.
Perché il 15 aprile 1987 spariva dalle scene della storia un altro grandissimo, la cui vita rimane altrettanto misteriosa come la sua scomparsa: l’economista Federico Caffè.

La Stampa 10.4.16
La lezione di Keynes dall’Aldilà
“La politica torni a comandare”
Un colloquio immaginario con il grande economista inglese: “Bisogna che a spendere sia lo Stato. In Italia il settore pubblico si blocca da solo”
di Mario Deaglio


Era una sera d’aprile di sette anni fa. In poco più di sei mesi la disoccupazione negli Stati Uniti era raddoppiata; la produzione industriale dei paesi ricchi aveva preso la peggior batosta dalla fine della Seconda guerra mondiale. Banchieri centrali, ministri, capi di governo delle venti maggiori economie del mondo si erano da poco riuniti a Londra ed erano tornati a casa ripetendo come un mantra tibetano «il peggio è passato, il peggio è passato», ma senza saper bene che cosa fare. E proprio a Londra, in quella sera d’aprile, uscii dal British Museum dopo una giornata di studio: aleggiava una bruma sottile d’altri tempi, poche le auto in circolazione, di foggia antiquata, la luce dei lampioni era fioca; e, mentre percorrevo Gordon Square, vidi un’ombra che sembrava famigliare uscire da una bella e solida casa borghese. Faccia lunga, baffetti, capelli radi, l’aria svelta, un misto di simpatia e di arroganza. Giacca, cravatta, ombrello nettamente fuori moda. Quella faccia l’avevo già vista molte volte in fotografia, apparteneva a uno dei «padri fondatori» dell’economia moderna. Fu più forte di me, lo chiamai.
Professor Keynes!
Si bloccò, si voltò di scatto, come l’avessi punto. «Non mi chiami professore. Certo, sono stato fellow del King’s College di Cambridge, ho tenuto corsi, ho diretto l’Economic Journal, una delle riviste economiche più importanti al mondo. La chair, la cattedra, non me l’hanno mai voluta dare: le gelosie e le lotte interne tra accademici non le avete certo inventate voi moderni. E così sono diventato uomo di ministeri, un grande burocrate come dite voi; ma così ho imparato come va il mondo assai più di quanto avrei fatto da un’università. Ma perché non ci beviamo una birra?».
Fu così che riprendemmo il discorso al Duke, un pub che non doveva esser molto cambiato dagli anni Trenta, con le sue sedie e tavoli di legno spesso.
Già, il mondo. Non Le pare che vada piuttosto male?
«Guardi, finora avete evitato la Terza guerra mondiale. Se vi fermate qui è già un bel risultato; noi non ne siamo stati capaci e il 1914 ci colse di sorpresa. Non state però imparando dai nostri errori. Con la Grecia continuate a comportarvi come ai miei tempi francesi e inglesi con i tedeschi, ossia come se avesse perso una guerra e dovesse pagare riparazioni fino all’ultimo centesimo. Nel 1919 proprio per la questione delle riparazioni mi dimisi per protesta dalla delegazione inglese alla Conferenza di Versailles e scrissi un saggio che ebbe grande successo dal titolo Le conseguenze economiche della pace; in estrema sintesi, le conseguenze erano quelle di preparare una nuova guerra, che in effetti scoppiò vent’anni più tardi. Il Fondo Monetario (che contribuii a creare nel 1944) ha versato, su pressione americana e senza garanzie, miliardi di dollari all’Ucraina mentre li sta negando alla Grecia. In momenti pericolosi, quando il sistema può scardinarsi, la politica non la devono fare i ragionieri e neppure le banche centrali: avete bisogno di uomini di Stato. Penso a Trump e mi viene un brivido giù per la schiena».
Ma in definitiva come trova il nostro capitalismo?
«In generale, il capitalismo non può dirsi un successo: non è un sistema intelligente, non segue criteri di giustizia e meno che mai di virtù. Generalmente non ci piace e un po’ lo disprezziamo, ma quando ci chiediamo con che cosa sostituirlo, abbiamo molte difficoltà. Io ho cercato di migliorarlo e mi hanno dato del comunista, magari anche perché, dopo una vita privata molto varia, ho sposato una ballerina russa. La realtà è che le mie ricette di spesa pubblica - applicate da altri dopo la mia morte a economie occidentali sostanzialmente capitaliste - hanno precisamente fatto sì che l’Europa non diventasse sovietica».
Non Le sembra che stampando moneta a raffica, come stanno facendo le grandi banche centrali, poniamo le basi per il disastro?
«Vede, la moneta non basta stamparla e buttarla giù da un elicottero come crede ingenuamente Alan Greenspan, ex governatore della Fed, nella speranza che la gente la raccolga e la spenda. In realtà, prima che arrivi giù, la nuova moneta viene aspirata dai circuiti finanziari globali, e il rallentamento delle vostre economie non si ferma. Per questo avete contemporaneamente troppa liquidità e troppo poca inflazione, anzi una deflazione che comporta un trasferimento di ricchezza dalla parte produttiva della comunità a chi vive di rendita. L’inflazione comporterebbe un trasferimento di segno opposto. Naturalmente, inflazione e deflazione sono entrambe “ingiuste” ma, mentre l’inflazione rende leggeri i debiti e stimola le imprese, la deflazione li rende pesanti, danneggia i produttori e ammazza la crescita».
Ma perché la gente non spende e così fa ripartire l’economia?
«Perché, come dicevamo ai nostri tempi, se il cavallo non ha sete non si riesce a costringerlo a bere e la paura del futuro ha fatto passare la sete ai consumatori dei Paesi ricchi. Il vostro Renzi ha messo 80 euro al mese in più nelle buste paga, ma gli italiani hanno, come tutti, una paura inconscia e ne hanno spesi pochissimi. Negli Anni Trenta io feci un discorso alla radio appellandomi alle “massaie democratiche” perché andassero a comprare: i prezzi, infatti, erano bassissimi. Ma non è servito a nulla».
Allora che cosa bisogna fare per riavviare il motore della crescita?
«Bisogna che a spendere sia lo Stato, e il Suo paese, l’Italia, è un esempio da manuale in cui il settore pubblico si blocca da solo: la burocrazia che non lascia partire quasi nessun investimento. Sarebbe necessario che il tetto al rapporto deficit/Pil salisse almeno dal 3 al 4 per cento e tutto probabilmente si riaggiusterebbe con un ritorno a un’inflazione ragionevole, a una crescita sostenibile, a una vera ripartenza dell’occupazione. Lo aveva proposto Dominique Strauss-Kahn, direttore del Fondo Monetario, ma fu travolto da uno scandalo provocato dalle sue smodate abitudini sessuali. Come dire: l’andamento dell’economia, come quello dei mercati, può dipendere dalle cose più impensate. In ogni caso, come scrissi in La fine del laissez-faire nel 1926, il capitalismo va “saggiamente amministrato”; altrimenti è come un bambino che può far sempre nuovi disastri».
E i mercati dovrebbero essere messi sotto un maggiore controllo?
«Certo. Un tempo (dopo essermi bruciato con un’operazione speculativa, anche se poi fortunatamente recuperai) scrissi che i mercati possono comportarsi in maniera irrazionale così a lungo da mandare chiunque in bancarotta. Nella vostra economia globale non c’è solo irrazionalità, c’è anche malafede: le cronache finanziarie si mescolano con quelle giudiziarie e scopriamo che grandi banche internazionali hanno fatto grandi imbrogli. I principali parametri finanziari sono stati alterati sistematicamente per anni».
In definitiva, Lord Keynes di Tilton (visto che non vuol essere chiamato professore, La chiamerò con il titolo che le venne conferito nel 1942), secondo Lei quali speranze abbiamo?
«Mio giovane amico (mi sento di chiamarLa così perché Lei aveva tre anni quando passai a miglior vita), si rilegga il mio breve saggio - scritto nel 1930 - sulle Possibilità economiche dei nostri nipoti (siccome l’umanità ha perso tempo, possono essere i nipoti Suoi). Se non fa stupidaggini e si tiene in equilibrio tra Stato e mercato, secondo me l’umanità ha davanti a sé un futuro bellissimo: potrete risolvere il problema della scarsità, lavorare poco e fare per gran parte del tempo quello che vi piace. E soprattutto non avrete più bisogno di economisti che vi facciano la predica».
Non mi sembra che oggi gli economisti diano molti consigli ai loro concittadini. Mi paiono sempre più con la coda tra le gambe, sotto il peso di previsioni sbagliate e di teorie carenti.
«Anche se non parlano, gli economisti hanno moltissima influenza, soprattutto se morti. Gli “uomini pratici”, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto. Siete anche schiavi miei, e non per la mia Teoria generale - che gli uomini pratici non hanno mai letto - ma perché, con un gruppo di colleghi, ho contribuito a inventare la Contabilità Nazionale. Sì, sono corresponsabile della creazione del Prodotto interno lordo, il famigerato Pil che condiziona tutti i vostri discorsi di economia. Il Pil andava bene quando l’industria era l’attività principale. Ora l’economia è cambiata e non ve ne siete ancora accorti abbastanza».
Di colpo mi ritrovai solo. Sul tavolo di legno del Duke c’era unicamente la mia birra, molti avventori avevano il cellulare. Le luci erano diventate più forti, sulla strada sfrecciavano auto moderne. Dietro il bancone, su uno schermo televisivo scorrevano le notizie economiche: la Borsa si riprendeva e l’economia continuava a rallentare.

La Stampa 10.4.16
A ciascuno la sua “Bella ciao”
Nato come canto delle mondine, fatto proprio dai partigiani, oggi è diffuso nelle lingue di tutto il mondo. Un libro ne ricostruisce la storia
di Gian Luigi Beccaria


«Ciao» è oggi l’italianismo più usato nel mondo come formula di saluto confidenziale. Di pari successo planetario è pure una canzone popolare italiana, Bella ciao, il celeberrimo canto mondino/partigiano di cui percorre la storia con rara minuzia e competenza il denso libretto di Carlo Pestelli, edito da Add, con prefazione di Moni Ovadia. Non si sa per certo chi siano gli autori di questo canto oggi trasnazionale, tradotto in oltre quaranta lingue (c’è anche una traduzione in latino, una in esperanto, altre in idiomi di minoranze come il curdo, il basco, il ladino, il friulano, il galiziano, il bretone). Questa canzone di impegno e di protesta è diventata una canzone del mondo: nella Germania Est un noto canto di lavoratori, canto di successo a Praga nel 1947 durante il primo festival mondiale della gioventù, cantato e ricantato ai tanti festival dell’Unità, intonato in occasioni pubbliche, nell’84 ai funerali di Berlinguer, preferito all’Internazionale e a Bandiera rossa. «Bella ciao» si cantò a Genova ai funerali di don Gallo, ai funerali di Enzo Biagi, di Bruno Trentin, di Pietro Ingrao.
Anche Woody Allen
La si intonò a Belgrado, al funerale di Jovanka Broz, la vedova di Tito (2013). Negli Anni Sessanta i braccianti chicanos in sciopero in California la cantavano in una versione spagnola. Woody Allen conclude con Bella ciao il concerto romano del 2010 con la sua New Orleans Jazz Band. Cantautori molto noti l’hanno diffusa nel mondo, è stata ripresa anche da gruppi punk rock, se ne conosce una versione di Manu Chao. Più di cinquant’anni fa la rese popolare Yves Montand, in un famoso disco del 1963. In Francia abbiamo assistito a una sua comparsa recente, gennaio 2015, cantata dai parigini che sfilavano con i capi di Stato in piazza dopo l’attentato a Charlie Hebdo.
Nella palestra della scuola di Treiso, nelle Langhe, in questi ultimi anni, quante volte l’ha intonata, nella ricorrenza del 25 aprile, il nostro amato e indimenticabile Gianmaria Testa! Nel suo libro Carlo Pestelli ci parla anche di una versione in cabilo (lingua berbera) di Ferrat Mehenni, un popolare artista algerino inviso al potere per le sue lotte contro l’integralismo. Suo figlio aveva sempre desiderato di tradurre in cabilo Bella ciao. Il ragazzo è assassinato nel 2004, per vendetta contro il padre, che la traduce rapidamente e la canta nel cimitero di Marahna, il loro villaggio nativo.
I canti autenticamente popolari non sono riconducibili a un autore. Nel folclore tradizionale la genesi non è riconoscibile, si perde nei sentieri di una storia percorribile con difficoltà, nelle trame nebbiose della trasmissione orale. Quanto a Bella ciao molti si sono attribuiti il merito di averne scritto parole e musica. Persino un brigadiere badogliano. In realtà questo canto svolge i nuclei principali di due canzoni popolari ottocentesche già raccolte da Costantino Nigra, La bevanda sonnifera e Fior di tomba, la nota storia della ragazza che levatasi al mattino prima del sole va alla finestra e vede comparire il suo primo amore (la canzone partigiana dirà invece che quel mattino è arrivato «l’invasor» tedesco).
Già nella Grande guerra
La versione «moderna», partigiana, ha avuto una particolare diffusione al Nord durante la Resistenza, ma c’è chi riporta la primogenitura ai partigiani abruzzesi protagonisti della liberazione di Bologna. Una storia complicata. Esistono versioni provenienti dal mondo delle risaie, già circolanti nell’anteguerra, e tracce risuonavano nelle trincee della Prima guerra mondiale. La probabile origine sembra proprio da ricercare nel mondo delle mondine, che denunciavano la loro vita grama cantando «E fra gli insetti e le zanzare / o bella ciao bella ciao / bella ciao ciao ciao / e fra gli insetti e le zanzare / un duro lavor mi tocca far» (Giovanna Daffini, ex mondina, una delle più acclamate protagoniste dello spettacolo Bella ciao andato in scena a Spoleto nel 1964, dichiarava di averla imparata negli Anni Trenta in risaia; in seguito la stessa Daffini fornisce in una intervista informazioni diverse, raccontando di averla cantata la prima volta nel 1940).
Comunque siano andate le cose, così come «ciao» saluto nazionale entra nell’uso comune soltanto a partire agli Anni Cinquanta, anche Bella ciao comincia a spopolare a quei tempi, insieme con canzoni di grande successo come Ciao ciao bambina di Modugno, e anni dopo accanto a Ciao amore ciao di Tenco (1967). Dal canto loro bambini da tempo usavano accompagnare con le note di Bella ciao un gioco a due ponendosi uno di fronte all’altro, tenendo le mani all’altezza delle spalle e percuotendosele reciprocamente, con ogni battuta intercalata con un festoso battito delle proprie. E gli italiani intanto avevano cominciato a viaggiare sul più pratico dei ciclomotori, battezzato, non a caso, «Ciao».

La Stampa 10.4.16
Venezia, il Museo di Baghdad e Ca’ Foscari a difesa del patrimonio archeologico iracheno


Sollevare l’interesse della comunità internazionale verso l’Iraq e dello stesso Iraq nei confronti del proprio patrimonio culturale: con questa aspirazione, il Consiglio di Stato per l’Antichità e il Patrimonio Culturale dell’Iraq e l’Università Ca’ Foscari di Venezia sigleranno un protocollo d’intesa per un progetto espositivo bilaterale con il Museo archeologico di Baghdad e per lo sviluppo di un programma di ricerca scientifica e formazione. La firma aprirà il convegno «La Dama di Warka nell’Iraq Museum», martedì alle 16 a Ca’ Dolfin (Venezia). Gli ospiti iracheni presenteranno la situazione del patrimonio archeologico del loro Paese e le strategie di tutela. Protagonista del convegno sarà la cosiddetta Dama di Warka (nella foto), una testa femminile di marmo scoperta a Uruk (Warka) e datata 3200 circa a. C., uno dei più importanti reperti archeologici della scultura sumerica. Trafugata nel 2003 nel corso dell’occupazione di Baghdad, fu riconsegnata al museo intatta qualche mese dopo perché troppo famosa per poter avere un mercato.

Corriere La Lettura 10.4.16
Kandinsky, Dubuffet e Chagall seducono i borghesi appassionati
di Guido Santevecchi


L’Asia ha fatto irruzione nel mercato occidentale dell’arte con i suoi collezionisti che fanno incetta di opere moderne nelle aste internazionali. Ma ora sta nascendo un interesse non solo commerciale che coinvolge il pubblico della nuova classe media. Un segno di questa tendenza viene da Singapore dove (fino al 17 luglio) è in corso la mostra inaugurale della Singtel Special Exhibition Gallery (www.nationalgallery.sg) che sotto il titolo Reframing Modernism propone 200 opere di 50 artisti tra i quali Vasily Kandinsky (sotto: Impression V / Park , 1911), Fernand Léger, Marc Chagall, Jean Dubuffet, Pablo Picasso e Henri Matisse. La mostra è frutto della collaborazione tra la National Gallery di Singapore e il Centre Pompidou di Parigi che presta i suoi capolavori europei. Il museo della Città Stato fondata dal mitico Lee Kuan Yew (1923-2015) affianca agli europei in questa esibizione artisti del Sud-Est asiatico come i vietnamiti Lê Pho e Nguyen Gia Trí, gli indonesiani Sudjojono e Affandi, il malesiano Latiff Mohidin, Galo B Ocampo delle Filippine e Georgette Chen di Singapore. ()

Repubblica Cult 10.4.16
Le idee rivoluzionarie che hanno fatto la storia
di Giulio Azzolini


La Rivoluzione francese fu la conseguenza dell’Illuminismo radicale. È questa la tesi centrale dell’ultimo saggio di Jonathan Israel, ricchissimo di fonti, erudito nei contenuti e raffinato nello stile. La prosa è agile, poco scolastica, capace di guidare il lettore nelle trame degli eventi e soprattutto degli ideali che hanno segnato il periodo rivoluzionario. Lo storico di Princeton ricostruisce magistralmente le fazioni del tempo, soffermandosi anche su personaggi, episodi e dettagli curiosi, e quando il filo del discorso sembra sfuggirgli di mano lo riacciuffa, perché nitida (e fin troppo schematica) è l’interpretazione di fondo e saldo (ma controverso) è il credo metodologico. Revolutionary ideas, recita il titolo originale. Israel è convinto infatti che siano le idee a muovere la storia. Gli approcci materialistici o genericamente culturali non riuscirebbero a spiegare l’evento fondativo della modernità politica occidentale. Bisogna piuttosto scavare nel suo retroterra intellettuale, cui Israel ha dedicato gli ultimi vent’anni, insegnando che l’Illuminismo era percorso da due correnti profondamente diverse: una moderata, composta tra gli altri da Locke, Montesquieu e Voltaire, che credevano nella provvidenza e nella monarchia; l’altra radicale, composta tra gli altri da Diderot, d’Holbach e Condorcet, che da Spinoza avevano ereditato il materialismo ateo e il radicalismo politico. Se i primi erano “integrati” nell’Ancien Régime, furono i secondi a ideare la Rivoluzione che, di fatto, si aprì nel 1788 con la lotta per la libertà di stampa. Ci penserà poi Robespierre, più incline al furore rousseauiano che ai lumi della ragione radicale, a capovolgere i valori di un movimento che, nel 1799, troverà sulla sua strada Napoleone. Ma la storia moderna, secondo Israel, è una storia di liberazione. E se oggi beneficiamo dell’emancipazione individuale, sessuale e razziale, del secolarismo e della libertà di espressione, dei diritti umani e della democrazia, lo dobbiamo alla coraggiosa lungimiranza di un certo Illuminismo.
LA RIVOLUZIONE FRANCESE di Jonathan Israel EINAUDI, TRAD. P.DI NUNNO E M.NANI PAGG.960, EURO42

Repubblica Cult 10.4.16
Dal nostro corrispondente Karl Marx
Prima che filosofo, Karl Marx è stato giornalista.
di Stefania Parmeggiani


A Colonia negli anni Quaranta dell’Ottocento per la Rheinische Zeitung e poi a Londra, come corrispondente del quotidiano americano New York Daily Tribune. Una selezione dei suoi articoli londinesi è stata pubblicata in ebook dalla casa editrice Corpo 60. Dal nostro corrispondente a Londra. Karl Marx giornalista per la New York Tribune (a cura di Giordano Vintaloro, euro 6.99)viene presentato dall’editore con parole ironiche: «Quanti sanno che Karl Marx ha scritto per gli Yankee?». E soprattutto, che cosa scriveva? Dal conflitto di Crimea all’affaire del Crédit Mobilier, dal commercio dell’oppio alle crisi economiche, non sono cronache ma commenti. Lo stile è polemico, pieno di sarcasmo. Le idee sono espresse con chiarezza. I nemici, ad esempio il libero mercato e la società borghese, ben identificati. Accanto a questioni economiche e militari, ci sono poi le morti bianche e la corruzione. L’ebook sfrutta le possibilità del digitale, grazie a link che aprono la versione originale degli articoli o che chiariscono i nomi e gli eventi storici citati.