Corriere 9.4.16
Lotta ai corrotti non al mercato
di Antonio Polito
A
leggerli così, mescolati in quella secrezione delle nostre vite che
sono le nostre peggiori telefonate (tanto quelle belle, corrette,
trasparenti, nel faldone di un’inchiesta non ci arrivano, e dunque
nessuno le conoscerà mai) viene da pensare che gli affari siano sempre
affarismo. Non è vero. E dovremmo dirlo, perché già viviamo in un Paese
pieno di pregiudizi contro il business. Già sembriamo una repubblica di
Banana (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything) ostile a ogni
calcestruzzo, in cui la produzione di qualsiasi forma di energia, dal
nucleare alle pale eoliche, dal gas agli inceneritori, solleva proteste e
veti ecologisti. E invece tutte quelle parole che ci fanno sobbalzare
nelle intercettazioni, contratto, gara, appalto, soldi, non sono lo
sterco del demonio, non sono sinonimi di imbroglio e truffa. Gli affari
fanno girare il mondo, o non lo fanno girare. Quando a fine anno
piangiamo per lo scarso Pil o la forte disoccupazione, quando ci
lamentiamo perché il Sud è vent’anni indietro, non facciamo altro che
tirare le somme di troppi pochi affari, transazioni, vendite, acquisti,
opere pubbliche e private. Per questo è difficile dare torto a Renzi
quando rivendica al governo, con quell’aria di sfida ai magistrati di
Potenza, la responsabilità politica di sbloccare gli investimenti,
accelerarne l’iter, produrre lavoro. La corruzione va combattuta senza
quartiere e senza riguardi, perché è distruttiva del mercato. Ma guai se
pensassimo di stroncarla stroncando gli affari. La qualità della nostra
vita e il nostro stesso reddito dipendono dal livello di sviluppo e di
tecnologia del Paese in cui viviamo.
N on diamo alibi a chi sogna
di sostituire il mito del regresso a quello del progresso. Però proprio
un governo che vuole finalmente rompere il tabù degli affari deve
cercare antidoti più forti all’affarismo. Non basta la giustificazione
del «fare» per esorcizzarlo. L’inchiesta di Potenza, facendoci guardare
dal buco della serratura nelle stanze dove si decide, demolisce l’idea
che centralizzare e personalizzare il potere possa tagliare le unghie
all’affarismo.
Se mai c’è stata, l’illusione dell’uomo solo al
comando della nave si è dimostrata incapace di eliminare il caotico
affollarsi degli interessi giù nella sala macchine, dove ministri,
sottosegretari e capi di gabinetto restano esposti, e forse anche più
esposti quanto minore è la loro personalità e il loro peso nella
collegialità del governo, alla pressione delle lobby. E così finiscono
per combattersi, rubarsi competenze, costruire cordate, perfino in un
governo del premier, virtualmente monocolore, come è quello Renzi.
C’è
poi una seconda lezione da apprendere. La riduzione del Parlamento a
votificio non semplifica le cose. Tutti gli emendamenti, ad progettum,
aziendam o personam, cercano disperatamente un treno legislativo su cui
saltare, e di solito finiscono per trovarlo nel maxi emendamento alla
legge di Stabilità, patchwork che la maggioranza deve approvare in pochi
minuti, in piena notte e a occhi chiusi. È vero che le Camere sono un
ricettacolo di clientele, e l’assalto alla diligenza di un tempo non era
preferibile, ma il Parlamento è anche un filtro degli interessi. Sempre
meglio farli passare allo scrutinio di una commissione, che trovarseli
riversati sul tavolo di un ministero, dove si decide certamente con
maggiore opacità e discrezionalità, e dove il potere di un funzionario
vale più dell’opinione di un deputato eletto dal popolo.
Infine
bisogna regolamentare il lavoro dei gruppi di pressione. Questo Gemelli
era un lobbista? Allora doveva essere iscritto a un registro della
professione, dichiarare i propri interessi, e il ministro con cui
conviveva doveva a sua volta dichiarare il legame al momento di assumere
un incarico nel governo, e il presidente del Consiglio doveva sapere
che il suo ministro dello Sviluppo economico aveva questo ulteriore
interesse, diciamo così, familiare.
L’esito più infausto del
clamore di questa storia, insomma, sarebbe un ritorno al passato, quando
non si combinava niente e si corrompeva anche di più.
Ma per
evitarlo non ci sono scorciatoie autoritarie o dirigiste, bisogna
seguire la strada maestra di una democrazia funzionante, fatta di pesi e
contrappesi, check and balance; e adeguarsi così, un po’ alla volta,
agli standard etici dei Paesi puritani.