venerdì 8 aprile 2016

Corriere 8.4.16
Come scoppiò in Bosnia Una guerra di religione
    Non giudico la sentenza di un tribunale internazionale per la condanna di un capo serbo a 40 anni di carcere, che sono più di quanto gli resta da vivere. In pratica, l’ergastolo. Questo, dopo le stragi di Bruxelles e di Parigi a opera di musulmani, fa un certo effetto di sapore indefinibile. La guerra a cui abbiamo partecipato ai tempi del governo D’Alema è stata la prima guerra di religione, dopo secoli. Forse un prodromo di quella di oggi. L’Occidente corse proprio a difesa dei musulmani. Ma proprio la Serbia oggi è
fuori dagli attacchi del terrorismo musulmano. E un belgradese potrebbe dire
agli occidentali: «Vedete chi avete difeso?». Cosi, invece di colpire chi ha attaccato militarmente i loro correligionari, questi attaccano proprio la Francia e il Belgio che
da un secolo li hanno accolti in casa propria, hanno dato cibo, lavoro, specializzazioni e intere «enclaves». Tutta roba che avrebbero potuto benissimo rifiutare se contraria ai loro costumi. Specie cibo e lavoro. Invece non attaccano Belgrado, ma i loro benefattori. Intanto i servizi segreti del Cairo se la sono presa con Giulio Regeni, un innocente studioso che lavorava tra i sindacati egiziani. Misteri della politica!
Gianni Oneto g91125@libero.it
Caro Oneto,
Q uella di Bosnia non fu, all’inizio, una guerra di religione. I musulmani avevano avuto da Tito, negli anni Settanta, la qualifica di gruppo etnico: uno status che li autorizzava a godere di una certa autonomia amministrativa. Ma i loro costumi, con il passaggio del tempo, si erano fortemente secolarizzati e l’ideologia dominante era, comunque, il comunismo. Dopo la morte di Tito, tuttavia, la crisi dello Stato jugoslavo rimise in discussione i rapporti di forza tra i maggiori gruppi etnici del Paese. I serbi cercarono di recuperare la supremazia che avevano esercitato prima della formazione dello Stato titino. I croati, pur senza confessarlo esplicitamente, sognavano il regno di Croazia, risorto grazie a Italia e Germania durante la Seconda guerra mondiale. E i musulmani, circondati da due grandi gruppi nazionali, rischiavano la sorte dei vasi di coccio fra vasi di ferro.
Per rafforzare il loro sentimento identitario, il maggiore esponente politico della comunità, Alija Izetbegovic dichiarò pubblicamente che occorreva «islamizzare i musulmani». Era convinto che niente avrebbe contribuito a militarizzare il sentimento identitario dei musulmani bosniaci quanto l’appello alla fede. Il risultato fu l’arrivo in Bosnia, dopo l’inizio delle ostilità, di volontari provenienti dall’Afghanistan, dall’Algeria, dal Libano e da tutte le jihad che si stavano predicando o combattendo in Africa e in Medio Oriente.
Ai serbi questa svolta confessionale del conflitto non spiacque. Potevano atteggiarsi a difensori della cristianità slava. Potevano sostenere che stavano combattendo per la croce contro la mezzaluna, per l’Europa contro il suo tradizionale nemico. Quando andai a Belgrado verso la metà degli anni Novanta e mi permisi di esprimere qualche dubbio sulle reali motivazioni del conflitto, fui guardato con sorpresa e rammarico. Non ho cambiato idea, e devo riconoscere che l’uso della fede per giustificare un disegno politico ha fatto da allora passi da gigante.