Corriere 6.4.16
Renzi , l’outsider di sinistra
La stagione delle sfide smarrite
di Ernesto Galli della Loggia
C’era
un Renzi che ci piaceva. Molto. Era il Renzi arrembante all’assalto
della nomenklatura politica italiana esemplarmente rappresentata dalla
«Ditta» democrat. Il giovane uomo senza peli sulla lingua che prometteva
aria nuova, idee nuove, facce nuove: e gli si poteva credere dal
momento che era lui innanzi tutto, con il suo modo d’essere, a incarnare
ognuna di queste cose. Certo, si capiva che dietro non aveva molte
letture e vattelappesca quali studi, ma questa era roba da Prima
Repubblica. Nella Seconda bisognava rinunciare a certe fisime. Renzi era
essenzialmente uno stile — allora non poteva essere altro — ma appariva
uno stile troppo nuovo per non essere garanzia anche di vere novità.
Era di sinistra? Sì che lo era. Di una Sinistra tuttavia diversa da
quella della maggioranza dei suoi compagni. Diceva infatti cose
ragionevolmente di sinistra ma coniugandole con molto buon senso.
Fu
presto chiaro che a questa condizione, nella Penisola come altrove, la
Sinistra ha quasi la vittoria in tasca. E infatti — fallito un tentativo
iniziale troppo prematuro — vuoi con le primarie e poi con le elezioni
europee il Paese lo plebiscitò. Con una valanga di voti l’Italia
trascinò alla vittoria il Renzi che ci piaceva. Egli si trovò così alla
guida di un partito che però non lo amava, un partito che aveva perso le
elezioni, e che in un Parlamento dove nessuno aveva la maggioranza non
ce l’aveva neppure lui.
I ncurante di ciò, ma forte del suo
successo, Renzi con una spallata sloggiò dal governo il pallido Letta,
che si reggeva sul vuoto, e ne prese il posto. Poteva fare diversamente?
No. Con quel plebiscito alle spalle come avrebbe potuto lasciar passare
il tempo aspettando nuove elezioni da lì a qualche anno? Come avrebbe
potuto nel frattempo stare lì ad assistere impotente agli immancabili
giochi contro di lui dentro e fuori il Pd? Neppure a pensarci: al
governo, al governo!
Cominciò così il rapido mutamento del Renzi che ci piaceva nel Renzi della realtà. Che ci piace di meno.
Poteva
andare diversamente? Forse. Quel che è certo è che il nostro sistema
politico-costituzionale non era fatto davvero per aiutarlo. In Italia,
l’outsider, l’uomo fattosi da solo, non può diventare l’uomo solo al
comando: non lo consentono né le regole né la tradizione. Da noi la
solitudine dell’outsider è destinata a divenire solo isolamento. Per
cercare in qualche modo di evitarlo — e non avendo alleati di peso né
fuori né dentro il suo partito — al nuovo premier, allora, non è restato
che contare sui fedelissimi e sulle amicizie. Con i fedelissimi ha
costituito il suo inner circle e una parte del governo; l’altra parte
dell’esecutivo l’ha riempita di mediocri che senza di lui sarebbero
stati delle nullità: e che essendone consapevoli sono totalmente ai suoi
ordini. Il prezzo da pagare è stato la pulsione a scegliere tutti lui, a
volere dappertutto solo i suoi, un esasperato accentramento di ogni
cosa sulla propria persona; nell’azione quotidiana, poi, l’assenza al
fianco del premier di competenze e di figure forti per autorevolezza ed
esperienza; in generale, al vertice del potere, un’aria sgradevole di
arroganza da un lato e di prono ossequio dall’altro.
Le amicizie
invece il nuovo Renzi le ha cercate quasi solo nel mondo «del fare»,
come lui ama dire. A Palazzo Chigi non si sono tenute molte cene con
intellettuali o accademici illustri; raramente il premier è stato visto
in prima fila nei teatri, nei cinema o ai concerti. Lo si è visto invece
di frequente tra gli imprenditori, nei circoli della finanza, tra gli
esperti di economia e di affari. Ai quali egli non usa lesinare i
complimenti più sperticati e le più calde attestazioni di stima:
ricambiato allo stesso modo ma verosimilmente — com’è nella natura degli
affari — pure con richieste di tale medesima natura. Alle quali,
trattandosi di amici, si può immaginare che non sia sempre facile dire
di no.
Absit iniuria , sia chiaro. Sull’intelligenza, e dunque
sull’onesta personale di Matteo Renzi ci si può scommettere. Ma
l’immagine conta: in politica conta moltissimo. Vedere tanto spesso il
presidente del Consiglio «pappa e ciccia», come si dice a Roma, con gli
uomini «del fare» — qui come altrove giustamente impegnati a fare sempre
e innanzi tutto gli affari propri — non mi sembra una gran cosa. Sergio
Marchionne ha diritto senz’altro a tutta la nostra stima, ma non è
detto da nessuna parte che l’interesse della Fiat coincida con quello
dell’Italia. Bisogna vedere di volta in volta.
Il Renzi della
realtà, infine, spinto dal suo temperamento ma soprattutto dalla
mancanza di una forte e coesa maggioranza parlamentare, si è sentito e
si sente indotto, per reggersi in sella, a dire troppo spesso cose nuove
e forti che restano parole, a stupire con riforme costituzionali
improvvisate, a rilanciare le proprie fortune con nuove leggi elettorali
ad hoc. E a cercare d’ingraziarsi il pubblico con periodici gesti di
munificenza rivolti sia ai meno abbienti (gli 80 euro ai lavoratori
dipendenti con meno di 26 mila euro di reddito annuo, poi i 500 euro
agli insegnanti e ai neo maggiorenni) che ai ricchi (cancellazione
dell’Imu su qualunque patrimonio immobiliare).
Non era esattamente
questo ciò che ci aspettavamo dal Renzi che ci era piaciuto. Allorché
per esempio egli aveva promesso di «rimettere in moto l’Italia»: cioè,
nella nostra mente, di aiutare il Paese a ritrovare se stesso, il senso
smarrito di ciò che esso era stato e che ancora nel suo intimo era; a
immaginare le prospettive possibili del suo futuro. Ma non solo: anche
aiutarlo a far riacquistare vigore all’interesse pubblico e alle
funzioni dello Stato centrale, a spazzare via privilegi e corporativismi
soffocanti, aiutarlo a cancellare il fiume di inefficienze, di sprechi e
di spese inutili che quotidianamente porta soldi nelle tasche dei furbi
togliendole a quelle dei cittadini che furbi non sono. Allorché avevamo
creduto, per l’appunto, che Renzi avesse l’energia e la voglia di
cimentarsi con simili sfide.
Certo, sappiamo fin troppo bene che
la realtà dei fatti è necessariamente diversa da quella dei propositi.
Ma quel Renzi che ci piaceva, forse piaceva a Renzi stesso. E oggi,
forse, anche lui — mi piace credere — lo ricorda ogni tanto con un certo
rimpianto.