Corriere 5.4.16
Appalti a Tempa Rossa, prime condanne
Il processo di Woodcock del 2008: gare pilotate, tre anni e sei mesi al numero uno di Total Italia
di Fulvio Bufi
Quella
di questi giorni non è l’unica inchiesta giudiziaria sulle attività
petrolifere in Basilicata e in particolare a «Tempa Rossa». Otto anni fa
indagò il pm Henry John Woodcock, all’epoca alla Procura di Potenza, e
la sua inchiesta che portò in carcere manager della Total, oltre ad
amministratori e imprenditori locali, è sfociata in un processo giunto
ieri alla sentenza di primo grado. E il tribunale, pur infliggendo pene
ridotte rispetto a quanto chiedeva il pubblico ministero Veronica
Calcagno, che ha sostenuto in udienza le tesi del suo collega
trasferitosi nel frattempo a Napoli (è in servizio alla Dda), ha
sostanzialmente accolto l’impianto accusatorio della Procura.
Secondo
i giudici di primo grado intorno a «Tempa Rossa» nacque negli anni
scorsi una associazione per delinquere che aveva lo scopo di pilotare
gli appalti per la realizzazione dell’impianto destinato all’estrazione
del greggio. E in quella che alla luce di questa sentenza è da ritenersi
una organizzazione criminale, c’erano manager importanti come l’allora
amministratore delegato della Total Italia, Lionel Lehva (condannato a
tre anni e sei mesi di reclusione), e gli ex dirigenti Jean Paul Juguet
(stessa condanna di Lehva) e gli italiani Roberto Pasi e Roberto
Francini, condannati entrambi a sette anni. Erano loro, insieme con
amministratori e imprenditori locali, a far parte di quello che Woodcock
definì all’epoca un «comitato d’affari», e che il gip nella sua
ordinanza accusò di aver «svenduto la terra della Basilicata e le sue
ricchezze».
«Questa sentenza è la conferma del buon lavoro che
facemmo», commenta ora Woodcock. Che all’epoca concentrò le
investigazioni su un patto corruttivo di una quindicina di milioni di
euro che gli indagati si sarebbero divisi grazie alla manipolazione
delle gare d’appalto. L’inchiesta rilevò anche un livello politico
nell’organizzazione. Il nome di spicco fu quello del senatore pd
(all’epoca deputato) Salvatore Margiotta, per il quale fu emessa una
ordinanza di arresto ai domiciliari la cui esecuzione non fu però
autorizzata dalla Camera. Margiotta ha scelto di essere giudicato con
rito abbreviato, e dopo una assoluzione in primo grado e una condanna a
un anno e sei mesi in appello, è stato recentemente assolto in via
definitiva dalla Cassazione.