domenica 3 aprile 2016

Corriere 3.4.16
Una gestione sovranazionale per i centri di accoglienza
di Stefano Passigli

I recenti attentati terroristici e i massicci flussi migratori dalle zone di guerra hanno mostrato le profonde carenze della risposta europea a questi fenomeni, e sottolineato la necessità di un’armonizzazione delle politiche di accoglienza e soprattutto di un più efficace coordinamento delle attività di intelligence e di polizia degli Stati dell’Unione. Di fronte alle attuali difficoltà non si può non ricordare che se nel 1954 la Francia non si fosse opposta alla nascita della Comunità Europea di Difesa oggi avremmo istituzioni europee ben più salde e forse una vera e propria unità politica del continente. Non è infatti necessario ricordare che delle caratteristiche che da sempre identificano la sovranità — l’esercizio legittimo della forza, l’amministrazione della giustizia, e l’esigere imposte e battere moneta — solo quest’ultima è patrimonio dell’attuale costruzione europea. L’Europa, insomma, è oggi poco più che una comune moneta e un mercato comune.
Per restare ai caratteri distintivi della sovranità, molto si potrebbe fare nel campo della giustizia con una armonizzazione dei codici; difficile è, ad esempio, varare politiche fiscali comuni se non si è prima provveduto ad uniformare il diritto societario e le norme sulle crisi di impresa. Ma difficile è armonizzare i codici penali se non si vuole prima modificare le norme sulla prescrizione (che solo in Italia e Grecia agisce anche nel processo). E difficile, infine, è armonizzare il diritto amministrativo e lo stesso diritto privato se perfino nel caso di alcuni elementari diritti civili permangono ancora diversità tra i Paesi dell’Unione, per non parlare dell’abisso che tuttora la separa da alcuni Paesi che aspirano a farne parte: come ipotizzare, ad esempio, un ingresso a breve-medio termine della Turchia se alcune delle libertà fondamentali vi sono negate? Poco insomma hanno fatto e poco fanno le élites politiche europee al di fuori dell’economia, specie rispetto a quanto seppero realizzare i padri fondatori agli albori della costruzione comunitaria.
Alcuni piccoli passi sono però possibili, ed alcuni con effetti sorprendenti proprio in uno dei settori che oggi mostrano con più evidenza le difficoltà di una comune azione europea come l’accoglienza dei migranti. Si pensi, ad esempio, alla situazione degli hotspots — dei centri, cioè, di prima accoglienza ed identificazione dei migranti, sostanzialmente localizzati in Italia e Grecia — oggetto di continue critiche da parte della Commissione e di molti Stati dell’Unione. Ebbene, basterebbe che gli hotspots passassero da gestioni nazionali ad una gestione sovranazionale con personale dell’Ue per ottenere una più equa condivisione dei costi e delle responsabilità. Se poi lo Stato ospitante desse a tali centri carattere di extraterritorialità, come avviene per le ambasciate, i migranti accettati verrebbero ammessi direttamente in Europa e non in un singolo Stato. Si supererebbe così alla radice il problema della revisione del Trattato di Dublino, che come ogni trattato internazionale richiede revisioni condivise e non ammette modifiche unilaterali.
Un simile passo può sembrare di poco conto. Non è così. Nell’attuale situazione dell’Unione Europea dopo il suo allargamento, con Paesi caratterizzati da diversi livelli di sviluppo e diversi tassi di crescita, con il ricorrente rischio di default di qualche Stato membro e il pericolo che un’eventuale Brexit determini quell’effetto domino che lascerebbe aperta solo la via dell’Europa a due velocità ben descritta su queste colonne il 27 marzo da Lucrezia Reichlin, una politica dei piccoli passi può essere ben più utile di grandi annunci destinati a rimanere senza seguito.