Corriere 30.4.16
«Femminicidio, ultimo atto del mio Messico impunito»
di Alessandra Coppola
L’aveva
scritto Sergio González Rodríguez già vent’anni fa: «Da giornalista
indagavo sugli omicidi di donne a Ciudad Juárez — le prime inchieste per
le quali è diventato celebre anche all’estero, e per le quali ha
rischiato la vita — e in più di un articolo ho avvertito che se questa
impunità non fosse stata contenuta, si sarebbe estesa al Paese intero».
Così è stato, sotto i suoi occhi attenti e impotenti: non c’è una
ragione geografica o culturale per spiegare tanta violenza, sottolinea,
il motivo sta principalmente nella mancanza di conseguenze.
«Il
Messico registra ormai un’impunità del 98-99 per cento per ogni reato
commesso — continua —. E, come è noto, è l’impunità il detonatore dei
crimini. In più, da quando è stata condotta la guerra al narcotraffico
(2007-2012), il Paese è devastato. In questo conflitto ci sono stati
almeno 120 mila assassinati e 25 mila scomparsi. Negli ultimi anni,
nonostante il governo dica di aver concluso quella guerra, ci sono stati
60 mila ammazzati e migliaia ancora di desaparecidos». L’ultima cifra
che elenca è la più spaventosa: «Ogni giorno in Messico spariscono 13
persone, delle quali non si saprà mai più nulla».
È anche di
questa tragedia, che nel tempo ha preso proporzioni sconvolgenti, che
González Rodríguez parlerà al Festival dei diritti umani. A partire dal
tema centrale della violenza sulle donne e del «femminicidio» che lui
stesso ha contribuito a definire, con un primo reportage sulla rivista
messicana Reforma nel 1997 ( Noche y Dia. Las muertas de Juárez ) e poi
in un libro del 2005, tradotto in italiano da Adelphi, Ossa nel deserto .
Negli
anni, la quantità e l’orrore dei casi si sono moltiplicati; ma la
consapevolezza, anche sul piano giuridico, si è completamente
trasformata. «Il termine femminicidio è entrato nel codice messicano nel
2007, nella Legge generale di accesso delle donne a una vita libera
dalla violenza, in cui l’articolo 21 si afferma: “Violenza femminicida è
la forma estrema di violenza di genere, prodotto della violazione dei
diritti umani delle donne, in ambito pubblico e privato, determinata
dall’insieme delle condotte misogine che possono implicare impunità
sociale e dello Stato e può culminare con l’omicidio”». Così a Città del
Messico, ma anche in altri codici penali latinoamericani.
Gli
strumenti dunque ci sono, spiega il giornalista, «è la volontà politica
di metterli in pratica che manca». Senza impulso dei governanti e in
mancanza di una pena certa, la violenza, in particolare nella sua
declinazione misogina, si spande. Anche lungo le rotte dei migranti che
continuano ad attraversare il Centroamerica verso gli Stati Uniti «le
donne soffrono un grado maggiore di sfruttamento, prepotenze, abusi». In
Messico, in particolare, strada obbligata per il Nord, «a causa della
corruzione, le reti criminali che gestiscono il traffico di persone
hanno trasformato questa migrazione in un’avventura ad alto rischio. Una
situazione aliena al rispetto dei diritti umani: i territori di
passaggio sono diventati campi di sfruttamento e di sterminio
nell’indifferenza generale».
Tragedie enormi di cui in pochi si
curano. «La responsabilità delle grandi potenze e dei Paesi sviluppati
di fronte al dramma della violenza contro le donne, della corruzione
politica, della migrazione in Messico o in America Latina risulta
evidente — denuncia González Rodríguez —. Il modello economico della
globalizzazione ha portato con sé tali avversità che pochi vogliono
vedere. Come è ovvio, le formalità dominano le relazioni internazionali e
le grandi potenze ricevono con onori di Stato governanti
impresentabili. È una vergogna e un ulteriore dolore per milioni di
cittadini che subiscono i cattivi governi, incapaci di far rispettare la
costituzione e il diritto internazionale. Bisogna cercare maniere
critiche di contrastare questa spinta negativa».