Corriere 28.4.16
Se l’Italia torna disunita per colpa della Sanità
Perché la vita al Sud è più breve. Il federalismo fallito della Sanità
In calo l’aspettativa nel Meridione, tra le donne e nelle fasce deboli
di Goffredo Buccini
Aspettativa di vita
È
l’indicatore della durata media della vita, a partire da un’età data,
usato nelle scienze statistiche. Spesso viene calcolata la speranza di
vita alla nascita, che rivela il numero medio di anni che i bambini
appena venuti al mondo dovrebbero vivere. La cifra si basa sui tassi di
mortalità registrati in quel Paese nell’anno considerato. Questo
indicatore costituisce, assieme alla mortalità infantile, uno dei
parametri più significativi delle condizioni sociali, economiche e
sanitarie di uno Stato.
Se diminuisce l’aspettativa di
vita in Italia e si allarga anche il divario tra Nord e Sud. Chi vive
nel Meridione è meno longevo. E le più penalizzate sono le donne. Questi
i dati che emergono dal rapporto Osservasalute. Già tre anni fa la
Corte dei conti paventava sempre più «deficit assistenziali» al Sud. Due
anni dopo la Società italiana di Pediatria ha rilevato che nel
Meridione la mortalità infantile è più alta del 30 per cento rispetto al
Nord. Un gap iniziato all’indomani della riforma costituzionale che ha
ridisegnato il Paese in chiave federalista. Prima del 2001, dicono gli
studiosi, i cittadini della Repubblica potevano aspettarsi tutti più o
meno la stessa vita media. Dal 2001, la forbice si va allargando.
S
e un cittadino campano o siciliano ha una vita mediamente più corta di
tre o quattro anni rispetto a un cittadino trentino, il dato non è
tecnico: è politico.
E certifica il fallimento del federalismo
regionale (soprattutto se applicato alla sanità) e il tradimento
dell’articolo 32 della Costituzione che garantirebbe a tutti gli
italiani uguale diritto alla salute nonché cure gratuite per gli
indigenti.
Hanno forse una chiave di lettura assai inquietante i
già pesantissimi numeri diffusi l’altro giorno dal rapporto
Osservasalute 2015. Per la prima volta in tempo di pace, descrivono una
contrazione, pur minima, nell’aspettativa di vita degli italiani. E,
naturalmente, questa foto di «come siamo» ci sconvolge, costringendoci a
pensare a un’Italia rovesciata rispetto alla confortevole idea di
progresso continuo dentro la quale siamo cresciuti.
Tuttavia un
ulteriore elemento velenoso che motiva questo calo si coglie già nelle
analisi degli stessi ricercatori dell’«Osservatorio nazionale sulla
salute nelle Regioni»: c’entra la devolution , spiegano nel gruppo
guidato da Walter Ricciardi. Voluta fortemente dalla Lega di Bossi e
messa in atto quindici anni fa dal centrosinistra forse nella speranza
di prosciugare consenso ai leghisti, la devoluzione (ovvero la
trasformazione della nostra Costituzione in senso federalista) cambiò
l’Italia unita in un mosaico di venti staterelli, tra l’altro con venti
sistemi sanitari non integrati tra loro. Prima del 2001, dicono gli
studiosi, i cittadini della Repubblica potevano aspettarsi tutti più o
meno la stessa vita media. Dal 2001, la forbice si va allargando. Chi
stava bene è stato meglio; chi stava male, peggio. «Le più in difficoltà
sono ancora le Regioni del Meridione e lo scenario è aggravato dalle
ripercussioni della crisi economica principalmente sugli stili di vita
e, quindi, sulla qualità di vita dei cittadini, soprattutto dei meno
abbienti», scrivono Marta Marino e Alessandro Solipaca nella sintesi del
rapporto sulle Regioni.
Ieri il Mattino di Napoli evidenziava
come, in una Campania che guida l’arretramento, più penalizzate siano le
donne, con circa cinque mesi di aspettativa di vita in meno. E la
faglia non è solo (o non necessariamente) tra Nord e Sud ma tra «chi ha»
e «chi non ha», essendo saltato del tutto il ruolo di perequazione
dello Stato unitario. Il sistema sanitario nazionale, che molti ci
invidiavano e sulla carta non abbandonava nessuno, è stato cancellato
prima dalla regionalizzazione e dal saccheggio (infiniti gli scandali di
questi tre lustri) e poi da una stretta economica che ha costretto le
Regioni a piani di rientro durissimi. Sono proprio le Regioni in piano
di rientro le più problematiche, anche secondo Osserva salute .
L’allarme non è nuovo. Nel 2013 la Corte dei conti paventava sempre più
«deficit assistenziali» al Sud. Due anni dopo la Società italiana di
Pediatria ha rilevato che nel Meridione la mortalità infantile è più
alta del 30 per cento rispetto al Nord. In un saggio degno d’attenzione,
Paolo De Ioanna e Roberto Fantozzi hanno messo a punto tempo fa il
concetto negativo di «indice di disuguaglianza»: lo stato di salute
percepito dai cittadini in rapporto al sistema sanitario di
appartenenza. Beh, Calabria, Puglia e Sicilia hanno l’indice più alto;
Toscana, Emilia, Lombardia e Veneto, guidate dal solito Trentino-Alto
Adige, il più basso. Il nodo sono i «Lea», i livelli essenziali di
assistenza, depressi, nelle Regioni in cattive condizioni finanziarie
(quasi tutte del Sud). Per tappare le falle, si ricorre al prelievo
fiscale aggiuntivo a carico dei residenti di queste Regioni in «maglia
nera». Ma, ci si chiede nel saggio, se il diritto alla salute è
garantito per tutti dalla Costituzione, non è forse ingiusto che i
residenti di una Regione che usa in modo inappropriato le risorse della
sanità siano «fiscalmente penalizzati per la mala gestio dei propri
amministratori»? Non sarebbe opportuna la perequazione tra Regioni?
Domande nobili ma oziose, purtroppo: avrebbero avuto senso quando
l’Italia era davvero «una e indivisibile». Da anni la risposta è: ognun
per sé.