Corriere 26.4.16
La guerra di Erdogan contro i giornalisti
di Antonio Ferrari
Fare
il giornalista in Turchia e pretendere di essere libero di esercitare
il diritto di critica è un crimine e insieme un insulto all’autorità
costituita. Lo sa bene il direttore del glorioso quotidiano Cumhurye t
Can Dundar, che sta collezionando condanne. Rischia l’ergastolo perché è
accusato di spionaggio per aver rivelato, con prove documentali e con
un video non smentibile, una assoluta verità: che il regime inviava armi
ai jihadisti più estremi in Siria e in Iraq, con l’aiuto, la protezione
e la scorta dei servizi segreti turchi.
Non è tutto. Ieri Dundar è
stato condannato a pagare un’ammenda di 9.000 euro (al cambio ufficiale
dell’importo in lire turche) per aver accusato il presidente Recep
Tayyip Erdogan, che allora era primo ministro, e suo figlio Bilal, di un
traffico d’oro con l’Iran. Il condannato Dundar è davvero un
giornalista verticale, che ha tutta la nostra ammirazione. Anche perché
ha dichiarato che «se la ricerca della verità è un crimine, continueremo
a commettere quel crimine».
Onestamente, sulla Turchia non si sa
più cosa pensare, perché tutti gli argini per contrastare
l’autoritarismo di Erdogan sono saltati. Adesso la «guerra» del regime
non è rivolta soltanto ai giornalisti turchi e ai social media, che
secondo il «dittatore» infangano colpevolmente l’immagine del Paese, ma
anche contro i reporter stranieri, obbligati a sottostare a un diktat:
chi scrive contro il governo non è il benvenuto, e chi è nel Paese può
essere querelato e perseguito.
Sappiamo molto bene che i
giornalisti non sono mai piaciuti al potere: nei Paesi dittatoriali,
semi dittatoriali, e persino nelle democrazie. Inutile addolcire la
realtà con qualche aggettivo: il reporter è sempre considerato un
fastidioso ficcanaso. Negli Stati Uniti, che sono culla di democrazia,
il giornalista è rispettato e temuto. Nelle democrazie deboli è appena
tollerato (e non sempre). Figuriamoci dove la democrazia è stata
rottamata!