martedì 26 aprile 2016

Corriere 26.4.16
Il piano studiato da Roma:
in Libia fino a 900 soldati
Il contingente militare agirebbe con funzioni di protezione di alcuni siti sensibili, compresi i pozzi petroliferi, e con funzioni di addestramento dell’esercito locale
di Marco Galluzzo
qui
http://www.corriere.it/esteri/16_aprile_25/piano-studiato-roma-f9d5f908-0b22-11e6-9420-98e198fcd5e0.shtml

Corriere 26.4.16
La sfida strategica per l’oro nero
Lo scontro per il controllo delle fonti energetiche: l’Isis è a 50 km dai terminal
di Francesco Battistini
qui
http://www.corriere.it/esteri/16_aprile_25/sfida-strategica-l-oro-nero-85563360-0b20-11e6-9420-98e198fcd5e0.shtml

Corriere 26.4.16
E contro l’Isis Barack ordina la (prima) cyber guerra
di Guido Olimpio

A Obama piace la guerra che si vede poco. Quella dei droni, dei caccia e dei commandos che colpiscono e spariscono. Uomini ombra mandati dietro le linee. Ora, al loro fianco, agiranno altri «invisibili», i «national mission teams», i militari del Cyber Command. La struttura, nata solo sei anni fa e pensata per duellare con le potenze rivali, dovrà occuparsi del Califfo con un’offensiva a tutto campo, i cui dettagli — scarsi — sono stati rivelati da sito Daily Beast e New York Times. Il piano studiato dagli strateghi del Pentagono per i suoi «cyberguerrieri» poggia su sei cardini. Primo: infiltrazione del web utilizzato dai jihadisti. Secondo: sorveglianza della rete usata da alcuni dirigenti del Califfato. I soldati studieranno mosse, abitudini, ordini in modo da costruirne i profili e capirne le abitudini. Così potranno «imitarli» per diffondere messaggi errati oppure false informazioni. Terzo: attacchi contro i sistemi bancari usati dai jihadisti. Quarto: mosse per interrompere i collegamenti e ostacolare il passaggio di disposizioni dai leader ai seguaci. Quinto: incursioni, sempre via Internet, per aumentare la diffidenza e la paranoia degli islamisti, ossessionati dalla sicurezza. E se le fonti hanno deciso di parlare ai media per rivelare le decisioni della Casa Bianca è proprio a questo fine: insinuare il dubbio nelle file dei mujaheddin. Sesto: raccolta di dati utili alla caccia dei capi dell’Isis e alle linee di finanziamento. Il Times aggiunge che l’idea di aprire questo fronte è del presidente. In una serie di incontri con collaboratori e generali ha ricordato come il budget a disposizione dello spionaggio sia imponente. Il progetto è stato al centro di un dibattito perché l’Nsa, la famosa agenzia che dispone di antenne e «orecchi» elettronici a livello globale, avrebbe mostrato qualche resistenza. Gli ufficiali temono infatti di svelare tattiche che preferiscono riservare agli avversari strategici, dalla Russia alla Cina. Inoltre ritengono che i seguaci di Al Baghdadi, una volta scoperti di essere sotto attacco, possano adottare contromisure. Una ripetizione di quanto è avvenuto con i telefonini e le radio. I terroristi da tempo si proteggono con cellulari criptati oppure ricorrono a quelli usa e getta per non lasciare tracce. Aspetti emersi in modo evidente dopo la strage di Parigi.

Corriere 26.4.16
I bimbi superati dagli over 65
Un mondo di nonni e di centenari. Ma con sempre meno (pro)nipoti. Il sorpasso, a vedere le proiezioni dei demografi sulle cifre del World population prospects delle Nazioni Unite, sembra ormai questione di mesi. Tra il 2016 e il 2017 — dicono quei calcoli — gli ultra 65enni saranno più dei piccolissimi tra 0 e 4 anni. Fino ad arrivare al 2100 quando i bimbi saranno 650 milioni, gli anziani oltre 2,5 miliardi.
In parallelo tra quegli over 65enni aumenteranno — e di molto — gli individui che avranno un’età a tre cifre. «Passeranno da 451 mila (nel 2015) a 3.676.000 nel 2050», stima un recente dossier del Pew Research Center, un think tank statunitense. Che spiega anche come la metà sarà concentrata in soltanto cinque Paesi: Cina, Giappone, Stati Uniti, Italia e India. Nel 1990, tanto per fare un confronto, se ne contavano 95 mila. A livello statistico tra trentaquattro anni se ne incrocerà uno ogni 480 abitanti. E, forse, il secolo di vita non farà più notizia.
Il documento del centro studi americano fa tutte le dovute precisazioni. Perché quel dato sugli ultracentenari nel 2050 è una stima che si tiene sui valori più bassi. Non sempre e non ovunque i documenti sono rintracciabili. L’aggiornamento dei database sulla popolazione di ogni singolo Stato, poi, va incontro a qualche imprevisto, vuoi a causa dei conflitti, vuoi perché le rilevazioni demografiche sono l’ultima preoccupazione dei governi, vuoi perché è difficile — per le caratteristiche geografiche della nazione — riuscire ad avere un’anagrafe accettabile. E però intanto i numeri già in possesso dicono qualcosa. Come l’incremento notevole degli over 80enni su tutte le altre fasce. «Succede così dal 1990 e non si nota alcuna inversione di tendenza», spiegano gli analisti del Pew Research Center.
Gli Stati Uniti oggi sono il Paese con il più alto numero di centenari: 72 mila. Seguiti da Giappone (61 mila), Cina (48 mila) e India (27 mila). L’Italia, al quinto gradino, ne conta 25 mila. Che tra trentaquattro anni diventeranno 216 mila. Quasi nove volte di più. Una progressione che nel 2050 ci consentirà — e la performance è positiva o negativa, dipende dai punti di vista — di superare nella classifica l’India. Mentre nel podio la Cina (con i suoi 620 mila cittadini nati al massimo nel 1950) scavalcherà sia il Giappone (441 mila) che gli Stati Uniti (378 mila).
Ogni diecimila persone nel 2015 hanno spento cento candeline in 7,4. Nel 2050, salvo choc demografici, diventeranno 23,6 con i record dei nipponici (41,4) e degl’italiani (38,3). Più che doni, insomma, tocca regalar nipotini.
Leonard Berberi

Corriere 26.4.16
La Stampa 26.4.16
L’appello di Obama all’Europa
“Basta muri, dovete restare uniti”
Il presidente americano prima del G5 ad Hannover: “Stop all’intolleranza” E sprona i leader Ue: “Ciò che accade qui avrà conseguenze in tutto il globo”

«Gli Stati Uniti, e il mondo intero, hanno bisogno di un’Europa forte, prospera, democratica e unita». Schiacciato tra il voto in Austria contro gli immigrati, il referendum del 23 giugno sulla «Brexit», l’anemia economica del Vecchio continente e la minaccia del terrorismo che lo ha colpito al cuore, il presidente americano Obama non poteva essere più esplicito e appassionato nel suo appello per salvare la visione e il progetto realizzati dopo le stragi della Seconda Guerra Mondiale.
Lo ha fatto ieri con un discorso alla Fiera di Hannover, che la Casa Bianca ha intitolato «Address to the People of Europe», prima di incontrare i leader di Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia al «quint» di Schloss Herrenauser. Quasi una dichiarazione d’amore e un’indicazione per il futuro, che Barack ha voluto consegnare direttamente al popolo dell’intero continente. Perché così lo vede, come un corpo unico e ormai indissolubile.
Obama ha sottolineato che nonostante la percezione generalizzata di un mondo in preda al caos, «siamo fortunati di vivere nell’era più pacifica, prospera e progressista della storia umana». Questo è successo in buona parte perché l’Europa, dopo essere stata «in guerra costante durante il secolo scorso», ha deciso di seguire un’altra strada. Ora però la crisi economica, l’emergenza dei migranti, le guerre in Medio Oriente e la minaccia del terrorismo, hanno favorito «il sinistro emergere delle politiche che il progetto europeo era stato fondato per rigettare, quella mentalità del noi contro gli altri che fa scaricare i problemi su chiunque sia diverso. Cresce l’intolleranza nelle nostre politiche, e le voci più chiassose ottengono più attenzione». Perciò «questo è un momento decisivo. Ciò che accade qui avrà conseguenze in tutto il globo. Se l’Europa comincia a dubitare di se stessa, non potremo aspettarci che i suoi progressi vengano raggiunti nel resto del mondo». Le minacce dell’autoritarismo, il nazionalismo estremista, l’intolleranza si diffonderanno ovunque. Quindi Obama ha voluto dare una scossa al continente: «Forse vi serve un esterno, per ricordarvi la grandezza di ciò che avete realizzato».
I problemi da risolvere
Il capo della Casa Bianca quindi ha elencato i problemi che l’Europa e gli Stati Uniti dovrebbero affrontare e risolvere insieme. Fermare il terrorismo dell’Isis, dove lui ha annunciato che manderà altri 250 uomini delle forze speciali in Siria, chiedendo a tutti gli alleati di fare di più. Espandere i diritti umani, cominciando da quello della privacy che tante polemiche ha suscitato dopo le rivelazioni sullo spionaggio Usa, che però resta fondamentale per proteggere i cittadini. Sostenere la Nato, portando almeno al 2% del pil il contributo economico dei suoi membri, per contrastare minacce come quella russa. Rilanciare l’economia, attraverso i commerci come quelli favoriti dal trattato Ttip, e combattere le diseguaglianze. Davanti ai rifugiati, non voltare le spalle agli esseri umani che hanno bisogno di noi ora. «Al popolo dell’Europa io dico: non dimenticare chi sei. Tedeschi, francesi, olandesi, belgi, lussemburghesi, italiani, e anche britannici. Siete i polacchi di Solidarnosc e i cechi e slovacchi della rivoluzione di velluto. I berlinesi della notte in cui cadde il muro e i parigini che riaprono il teatro Bataclan. Siete “uniti nella diversità”. E mentre andate avanti, potrete contare di aver sempre vicino il vostro amico e alleato più grande, gli Usa. Perché una Europa unita, un tempo sogno di pochi, resti una speranza di molti e una necessità per noi tutti».
[P. Mas.]

Repubblica 26.4.16
L’intervista/ Pier Ferdinando Casini
“Partito unico con Berlusconi e insieme sosteniamo Renzi”
di T. Ci

ROMA. «La scelta di Bertolaso dimostra che Berlusconi non si rassegna a una sterile subalternità rispetto ai due populisti Salvini e Meloni. I moderati di Forza Italia e quelli che invece sostengono Renzi devono tornare a parlarsi». Nel giorno in cui Silvio Berlusconi detta con una lettera al Giornale la nuova linea centrista («FI è come il Ppe») - e Giorgia Meloni giudica «finita la coalizione» -Pier Ferdinando Casini propone di sfruttare questo strappo per dar vita al Ppe italiano. «Ora o mai più, è l’ultima chiamata».
Casini, il caos di Roma può segnare la svolta?
«Io sostengo Marchini, ma l’aver resistito alla candidatura della Meloni è il segno che Berlusconi non vuole essere subalterno al populismo nazionalista e al becero qualunquismo antipolitico degli alleati. Oggi l’alleanza di centrodestra è sbilanciata a favore delle componenti estreme, che vogliono creare in Italia una succursale del lepenismo. Quelli che plaudono a Davigo sono Salvini e Meloni, dovrebbero riflettere i moderati di Forza Italia che propongono un vassallaggio completo a questi signori. Mi auguro che nasca un ripensamento che eviti la dispersione dei moderati».
Su quale terreno, quello del sostegno al governo?
«Si può discutere se la scelta giusta per un moderato sia sostenere Renzi, come faccio io, o se è meglio un’opposizione non populista al governo. Questi due filoni, in ogni caso, hanno grandi possibilità di incontrarsi, avendo più affinità di quanto si immagini. Pensate ad esempio al Jobs act e alla giustizia».
Quindi dialogo tra FI e Renzi?
«Non so dove porterà, ma certo chi sta oggi all’opposizione ha firmato ieri il Patto del Nazareno. C’è molto su cui lavorare. Ed è l’unica possibilità per Berlusconi di essere protagonista».
Protagonista o leader?
«La sua forza è quella di prendere ancora milioni di voti, però è fuori ormai dal Parlamento. Il tempo passa per me e anche per lui...».
E a Renzi conviene parlare con Berlusconi?
«Il dialogo è essenziale anche per lui, che mi sembra sia impegnato in una marcia tutt’altro che trionfale contro i cinquestelle. La sinistra interna lo boicotta, i costituzionalisti lo combattono. Da solo difficilmente riuscirà a occupare il fronte moderato».
E può farlo con FI, accreditata a un misero 6%?
«Non è un dato reale. Sono al 6% perché non si capisce da che parte sta Forza Italia. Io preferisco il Berlusconi che riceve Weber e dialoga con il Ppe».
Ppe italiano tutti assieme?
«È la mia strada. Il Ppe vive una crisi profonda. O chiude baracca, oppure cerca di costruire contenitori moderati nella singole realtà nazionali».
Lei parla con l’ex Cavaliere?
«L’ho visto due o tre mesi fa a una cena. E sentito per Pasqua. Comunque non servono conciliaboli segreti, ma un percorso di unità dei moderati, sotto le insegne del Ppe, alla luce del sole. E poi scusi: non ha più senso l’incomunicabilità tra Berlusconi e Alfano. Ha visto cosa gli hanno fatto Salvini e Meloni? Molto meglio Angelino...».

La Stampa 26.4.16
De Magistris sfida Renzie pensa all’asse con Emiliano
di Amedeo La Mattina

«Masaniello è cresciuto/Masaniello è turnato», cantava Pino Daniele e oggi a interpretarlo vorrebbe essere Luigi de Magistris. Il sindaco uscente si candida a ritornare a Palazzo Marino a capo di liste civiche e di sinistra con una forte connotazione antagonista e anti-Renzi. Sta cercando di cementare un asse politico con il governatore pugliese Michele Emiliano, anche lui in rotta di collisione con il premier. Renzi li ha accusati di essere gli unici due amministratori che non hanno presentato il Master Plan per rilanciare il Mezzogiorno. Master Plan che invece il governatore campano De Luca ha siglato con il premier in pompa magna in Prefettura. De Magistris l’ha definito «una truffa». «Mi sono sentito con Emiliano, lui è del Pd e io sto politicamente da un’altra parte, ma abbiamo convenuto insieme che il Patto sia una truffa perché si mettono soldi già stanziati e si tolgono anzi 3 miliardi al Sud».
Gli ha risposto a brutto muso il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti, in pole position per diventare ministro dello Sviluppo economico al posto della Guidi. «Non si permetta di parlare di truffa. Il Patto per la Campania prevede interventi concreti per 9,5 miliardi. A lui lasciamo le chiacchiere e la propaganda».
Del resto il sindaco-Masaniello è in campagna elettorale e il suo avversario più combattivo è Valeria Valente, la candidata di Renzi che ieri è stata allontanata dal corteo per il 25 aprile da un gruppo dei centri sociali. E De Magistris non ha avuto una parola di solidarietà. Anzi ha detto di comprendere i motivi di chi contesta Renzi e la Valente. «Visto ciò che rappresentano, la contestazione ci può stare. Renzi a Napoli si è fatto proteggere da 500 poliziotti. La Valente era alla manifestazione per ricordare il 25 aprile ma lei rispetto alla Liberazione è su altro pianeta. Noi stiamo provando a liberare la città da un certo modo di fare politica, mentre loro voglio obbedienza a una oligarchia che fa riferimento a Renzi, che ha usato la Prefettura, istituzione dello Stato, per fare campagna elettorale». De Magistris annuncia che scriverà al capo dello Stato per denunciare «una certa strategia raffinata» di certe istituzioni che «appartengano alla catena del ministero dell’Interno». .
È successo che dopo la sigla del Patto per la Campania, Valente ha accompagnato una delegazione del rione Sanità all’incontro con il premier in Prefettura. «Nulla avrebbe vietato al sindaco - spiega Valente - di farsi promotore dell’incontro, ma la sua è un’ostilità preconcetta verso il governo. De Magistris sta isolando Napoli, cavalca la rabbia e non risponde delle sue incapacità come quella di non avere speso i soldi per il centro storico». Al di là del merito, De Magistris sta cercando di tirare dentro Emiliano nel suo progetto. Lo dice apertamente. «Napoli fa paura perchè sta diventando un soggetto politico autonomo in grado di essere il cuore di un movimento di liberazione nazionale».

Corriere 26.4.16
Illegalità diffusa che alimenta la nostra corruzione
di Ernesto Galli della Loggia

Il dottor Davigo non si fa molte illusioni sulla moralità dei politici. Personalmente me ne farei anche meno sulla moralità di coloro che li eleggono. Sulla nostra. Del resto come potrebbe essere altrimenti? Appena inizia ad aprirsi alla ragione il giovane italiano va a scuola. Lì tutti cercano di copiare senza che la cosa desti particolare riprovazione. Chiunque vuole, poi, può maltrattare arredi, imbrattare di scritte di ogni tipo (in genere oscene) i bagni, scrivere e disegnare a suo piacere sui muri dell’edificio: anche in questo caso senza alcuna sanzione. Così come senza alcuna sanzione significativa resterà ogni atto d’indisciplina: se marinerà la scuola, se si metterà a compulsare il suo smartphone durante le lezioni, se manderà l’insegnante a quel paese. Imitato in quest’ultima attività anche dai suoi genitori. I quali talvolta — assai più spesso di quanto si creda — ameranno ricorrere anche a insulti e minacce. Tutto coperto sempre da una sostanziale impunità. Non basta. In genere, infatti, la scuola sarà per il nostro giovane concittadino anche un’ottima palestra di turpiloquio, di bullismo sessista, di scambio di materiale pornografico quando non di spaccio di droga. Uscito dalle aule all’una, per tornare a casa l’adolescente italiano, se usa i trasporti pubblici si eserciterà nel salto del tornello sulla metro o si guarderà bene, se vorrà (ma perché non volerlo?) dal pagare il biglietto di un autobus o di un tram. Ha imparato da tempo, infatti, che in Italia pagare il biglietto sui mezzi pubblici è più che altro un’attività amatoriale, un hobby. Per farlo bisogna esserci portato.
Ma naturalmente è più probabile che invece il nostro abbia un motorino. Il più delle volte, va da sé, con la marmitta truccata. Insomma, un po’ più veloce e molto più rumoroso del consentito. Gliel’ha aggiustato un meccanico e, si capisce, il giovane italiano ha pagato per questo anche un bel po’: eppure una ricevuta fiscale o uno scontrino egli s’è guardato bene dal chiederli e l’altro dal darglieli. E allora via con il motorino truccato: tanto che probabilità ha di essere fermato e multato? Diciamo una su centomila. Dunque avanti come se nulla fosse. Avanti a sorpassare sulla destra, a tagliare la strada con repentini cambi di corsia, una mano sul manubrio e l’altra impegnata a twittare.
Un po’ di studio nel pomeriggio, e arriva finalmente la sera: il momento di svagarsi, specie se è sabato. Sì, è vero, vendere gli alcolici ai minorenni sarebbe vietato, ma via!, non vorremo mica vedere strade e botteghe deserte, spero. Dunque una birra, due birre, tre birre in un pub e poi in un altro ancora; o qualcosa di più forte in discoteca. Come si sa, tutti locali aperti di solito anche oltre l’orario stabilito: del resto è la movida, no? Pertanto anche se c’è un po’ di schiamazzo sotto le finestre della gente che dorme, e magari qua e là gare di velocità tra motorini, e sgassate micidiali, e cocci di bottiglie rotte sui marciapiedi, che problema c’è? Inevitabilmente vigili e carabinieri, seppure risponderanno mai alle telefonate inviperite di qualcuno, in genere non faranno, non potranno fare (loro almeno così dicono) un bel niente.
Ottenuta senza troppa fatica una licenza (in Italia le percentuali dei promossi sfiorano abitualmente il cento per cento), bisogna alla fine iscriversi all’università. Le tasse, è vero, sono un po’ cresciute in questi ultimi anni, ma non c’è una riduzione o addirittura l’esenzione per chi viene da una famiglia a basso reddito? È a questo punto che il nostro giovane italiano compie l’atto finale della sua educazione sentimentale alla legalità. Quando scopre, per l’appunto che il suo papà e la sua mammina, accorsati commercianti, ottimi professionisti, funzionari di buon livello, possessori di un suv e di un’utilitaria, di un bell’appartamento in un quartiere niente male, di una casetta al mare e di un adeguato gruzzoletto da parte, mamma e papà che ogni anno si fanno la loro settimana bianca e la loro vacanza da qualche parte nel mondo, e i quali come si dice non si fanno mancare niente, scopre il nostro giovane, dicevo, che essi però al Fisco risultano titolari di un reddito che consente a lui di avere una discreta riduzione delle tasse universitarie e a tutta la famiglia l’esenzione dal ticket sanitario.
A quanti giovani italiani può applicarsi questo ironico ma realistico ritratto di un’educazione alla legalità? A molti, direi. Con qualche ulteriore elemento (tutt’altro che raro) da mettere eventualmente in conto: tipo frequentazione di un centro sociale antagonista o presenza in casa di una vecchia zia finta invalida con relativa pensione.
Da quanto tempo è in questo modo — attraverso la forza senza pari dell’esempio diffuso capillarmente e quotidianamente attraverso queste micidiali dosi omeopatiche — che i giovani italiani (non nascondiamocelo: in particolare quelli del ceto medio, della cosiddetta «buona borghesia») apprendono come funziona il loro Paese e in quale conto vi deve essere tenuto il rispetto delle regole? Alcuni non ci stanno e se ne vanno, ma la grande maggioranza ci si trova benissimo e cerca una nicchia dove sistemarsi (spesso grazie alla raccomandazione e/o alle relazioni dei genitori di cui sopra).
La nostra corruzione nasce da qui. Da questo rilasciamento di ogni freno e di ogni misura che ha accompagnato il nostro divenire ricchi e moderni. In Italia il marcio della politica è il marcio di tutta una società che da tre, quattro decenni, per mille ragioni — non tutte necessariamente malvagie — ha deciso sempre più di chiudere un occhio, di permettere, di non punire, di condonare. Certo, Piercamillo Davigo ha ragione, lo ha deciso la politica. Ma perché il Paese glielo chiedeva. Il Paese chiedeva traffico d’influenza, voto di scambio, favori di ogni tipo, promozioni facili, sconti, deroghe, esenzioni, finanziamenti inutili alle industrie, pensioni finte, appalti truccati, aggiramenti delle leggi, concessioni indebite, e poi soldi, soldi e ancora soldi. E con il suffragio universale è difficile che prima o poi la volontà del Paese non finisca per imporsi.
Di questo dovrebbe occuparsi la fragile democrazia italiana, di questo dibattere i suoi politici che ancora sanno che cosa sia la politica: del mare di corruzione dal basso che insieme alla delinquenza organizzata minaccia di morte la Repubblica. Per i singoli corrotti invece bastano i giudici: ed è solo di costoro che è loro compito occuparsi.

La Stampa 26.4.16
Precari scuola, uno su tre ce la farà
Via al Concorsone che vale una vita
La selezione è riservata a chi è già in possesso di una abilitazione L’80 per cento dei candidati è donna: l’età media è di quasi 39 anni

Fine anno, tempo di esami. Ma questa volta non tocca soltanto ai maturandi o agli studenti alle prese con le ultime verifiche. A finire sotto la lente dei commissari saranno anche i 165.578 docenti precari che partecipano al concorso della scuola. Le prove prendono il via tra due giorni, giovedì 28 aprile, e i posti in palio sono 63.712, riservati ai precari già in possesso dell’abilitazione. «È un processo di stabilizzazione senza precedenti - sottolinea il ministero dell’Istruzione - A settembre 2015 abbiamo assunto circa 90mila precari che stazionavano da anni nelle vecchie graduatorie ad esaurimento (Gae). Con questo nuovo concorso sarà immesso in ruolo un docente su tre. Una percentuale altissima: l’ultima selezione pubblica del 2012 bandiva 11mila posti e a contenderseli furono in oltre 320mila».
È la «guerra alla supplentite», per dirla con il premier Matteo Renzi. Tra i partecipanti, oltre otto su dieci sono donne e l’età media è di 38,6 anni. Si tratta in maggioranza di candidati in possesso del Tfa (Tirocinio formativo attivo) e del Pas (il percorso abilitante speciale riservato agli insegnanti con tre anni di esperienza). Insomma, chi arriva alla prova del 28 aprile ha già superato una selezione durissima, con dieci esami e discussione della tesi finale. «Tutta l’impostazione è improntata a premiare la meritocrazia», dice ancora il Miur.
Ma la strada del «Concorsone» è stata tutt’altro che agevole. I paletti di accesso imposti dalla Buona Scuola hanno fatto insorgere i non abilitati, che hanno presentato una pioggia di ricorsi al Tar e hanno fatto storcere il naso anche agli stessi abilitati: «Ci hanno già giudicati, cos’altro dobbiamo dimostrare?», è il commento più diffuso tra gli iscritti ai gruppi Facebook «No concorso». Il Miur ha dovuto fare i conti anche con una serie di intoppi burocratici, come la penuria di commissari o la polemica sulla pubblicazione tardiva del bando, prevista entro l’1 dicembre e slittata al 29 febbraio.
Ma l’aspetto che fa fibrillare di più i precari è il vincolo, imposto da una sentenza europea, che vieta di rinnovare i contratti a tempo oltre i 36 mesi. La prospettiva, per chi non dovesse superare il concorso, è di lavorare ancora tre anni da precario per poi dire addio all’insegnamento. Timori che il ministero prova a fugare: «La Buona Scuola ha stabilito il principio per cui si torna a bandire con regolarità: il prossimo concorso sarà tra tre anni». Ieri, il Comitato docenti precari ha chiesto al ministero di fare un passo indietro. «La procedura va avanti regolarmente», è la replica. Il 28 aprile la campanella per i precari della scuola suonerà.
[l.cat.]

Repubblica 26.3.16
La riforma.
Duecento milioni, ventitremila euro per istituto: è il tesoretto messo in palio dal governo per gratificare chi si è maggiormente distinto. Tra le polemiche
Soldi ai prof più anziani anzi no, ai più tecno il caos nelle scuole per i premi al merito
di Laura Montanari Valeria Strambi

OGNI SCUOLA a modo suo, in piena autonomia e in ordine sparso, fra mugugni e polemiche. Il bonus che premia il merito degli insegnanti è una novità introdotta dalla Buona Scuola, «una riforma culturale » l’ha definita il ministro Giannini. Ora ci siamo. Fra proteste e ritardi, dall’infanzia alle superiori, gli istituti si mettono in moto e cominciano a definire i criteri. Chi vorrebbe premiare il professore di lungo corso, quello che sta per andare in pensione. Chi gli innovatori: quelli che portano i ragazzi a teatro la domenica, che insegnano con le lavagne digitali o fanno partecipare gli studenti a progetti internazionali. Chi preferirebbe assegnare il bonus a quelli che fanno lezioni supplementari di lingua italiana agli stranieri, o organizzano iniziative per i ragazzi svantaggiati o, genericamente, «danno un contributo al miglioramento della vita scolastica».
Da Nord a Sud il puzzle è variegato. Ci sono scuole che preparano griglie a punti con un ricco menù, di voci e incroci, per dare i voti alle cattedre: a fine anno, vincerà chi otterrà la somma più alta, una specie di campionato dell’impegno didattico. Esempio, in una scuola fiorentina daranno fra 12 e 24 punti a chi porterà i ragazzi a una mostra di sabato o domenica, agli animatori digitali, a chi trascriverà i verbali dei consigli di classe, a chi si occuperà di stendere i «curricoli verticali» (cioè i programmi). Altre all’opposto sono meno rigide e tracciano soltanto una cornice di principi ispiratori lasciando che siano i presidi a decidere la “pagella” del buon docente. Insomma ciascuna scuola declina come meglio crede il bonus in arrivo nei prossimi mesi. Il mondo della scuola però è diviso fra il partito del “finalmente”, “era ora” e chi come la Cgil si oppone: «Stiamo raccogliendo le firme per un referendum, fra i quattro punti, uno è proprio sui premi ai docenti. Gli incentivi vanno distribuiti a un tavolo con le Rsu, non certo a discrezione dei dirigenti di istituto» spiega Annamaria Santoro.
Fra i corridoi e le aule cresce la preoccupazione in vista della scadenza del 31 agosto quando i dirigenti scolastici dovranno consegnare al Miur la lista dei premiati. Così le scuole corrono ai ripari, molte sono in ritardo e contano di riunire la commissione nei prossimi giorni. Da oggi il ministero comincerà un monitoraggio per avere la fotografia di quello che sta succedendo e capire eventuali difficoltà. Per venire incontro a queste ultime, sul sito del Miur e anche su quello dell’Indire (Istituto di ricerca e innovazione per la didattica) sarà possibile contattare, tramite una piattaforma web, gli esperti per sciogliere i dubbi o ricevere informazioni sul bonus. Questa sperimentazione andrà avanti per tre anni lasciando piena autonomia agli istituti, poi il ministero «selezionerà i criteri più significativi e stenderà una lista unica uguale per tutti» a cui tutti si dovranno adeguare. «La scuola non può più sottrarsi alla valutazione — sostiene Giovanni Biondi, presidente dell’Indire — è importante valorizzare il lavoro di quegli insegnanti che riescono a fare una didattica innovativa contagiando i colleghi e stimolando gli studenti». Secondo Biondi l’Italia arriva in ritardo, dal momento che negli altri Paesi europei la valutazione esiste da anni: «Per noi è una novità, ma in Francia e in Inghilterra il sistema è rodato. Con la differenza che lì mandano un ispettore esterno ad assistere a una lezione e a giudicare. Qui invece, in maniera molto più trasparente, abbiamo affidato il giudizio all’intera comunità scolastica». Nel comitato che si occupa di valutazione ci sono insegnanti, genitori e, per le superiori, anche un rappresentante degli studenti. Il ministero ha stanziato un fondo di 200 milioni di euro per tutte le scuole italiane: di media 23mila euro lordi a istituto. Quanto riceverà il «buon insegnante», dipenderà dai criteri: si può pensare a una base minima che parte da 500 euro e sale. Voci dalle aule: «Il lavoro docente va valorizzato anche economicamente — spiega un preside di Piacenza, Mario Magnelli del Comprensivo di Fiorenzuola — ma il riconoscimento deve essere condiviso e sereno ». Il rischio è quello di avvelenare il clima. Fra le ipotesi in considerazione, quella di premiare i docenti che hanno fatto da tutor ai neoimmessi in ruolo. «Si può discutere come assegnarle — dice Floriana Buonocore, dell’istituto Tozzi di Siena — ma sono risorse aggiuntive per le scuole. Vanno a premiare chi aiuta i ragazzi a crescere, dipende da noi usarle bene».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
IL MINISTRO
Stefania Giannini, 55 anni, ministro dell’Istruzione

Repubblica 26.4.16
“Immigrazione zero” così la destra populista spaventa Vienna e l’Ue
Norbert Hofer, il candidato Fpö, verso la presidenza “Se eletto, tempi difficili per il governo di Faymann”
di Giampaolo Cadalanu

VIENNA. La signora asiatica con l’hijab e il lettore mp3 è impegnata a fare jogging lungo le banchine del Danubio. Non si cura molto degli ultimi manifesti elettorali rimasti appoggiati ai platani e fradici di pioggia. In effetti la gran parte dei messaggi non è per lei. Si parla di Patria da difendere, di sicurezza, di forza, e solo lo slogan del candidato che alla vigilia era considerato favorito, Alexander van der Bellen, immagina un’Austria dove ci sia posto per tutti. “Noi tutti insieme”, si legge sotto il ritratto del settantaduenne ex portavoce dei Verdi. Per gli altri candidati, il socialdemocratico Rudolf Hundstorfer e il popolare Andreas Khol, l’inseguimento fuori tempo massimo dei temi cari all’elettorato di destra si è trasformata in catastrofe.
O forse la signora velata ha deciso di uscire per correre, nonostante il brutto tempo, proprio per reagire alle brutte notizie. Dopo tutto siamo nel centro di Vienna, il cuore liberal di un paese con tentazioni nostalgiche. Qui l’uomo dei Liberali, quel Norbert Hofer che si sente già presidente, ha avuto meno consensi che nelle periferie. Qui c’è ancora chi ha voglia di aggiungere con un pennarello nero un paio di baffetti hitleriani sui manifesti del Fpö, sia per il candidato che per il leader del partito, Heinz-Christian Strache, con l’inevitabile insulto ai “fascisti”. Ma lunedì sera la Vienna aperta e cosmopolita era chiusa in casa, ad assorbire sotto choc, dopo aver scoperto che l’anima chiusa e intollerante aveva raccolto le energie e tirato su la testa.
Il successo del candidato di estrema destra era inatteso persino per i bookmaker, che ora però hanno adeguato le quote e danno Hofer alla pari con l’uomo della sinistra ecologista, fino a ieri dato per vincitore sicuro. I consensi ottenuti al primo turno — rispettivamente il 35 e il 21 per cento — sembrerebbero far pensare addirittura che il liberale abbia la strada aperta verso il castello di Hofburg (la residenza del presidente). Ma è troppo presto per disperarsi: al ballottaggio del 22 maggio torneranno in ballo gli elettori dei partiti storici, centro e sinistra, e il risultato è tutto da vedere. Hofer si sente pronto per la poltrona presidenziale, ieri parlava già di mettere il veto sulle leggi sgradite e magari di rimandare a casa il cancelliere socialdemocratico Werner Faymann. E sicuramente la convivenza con lui sarebbe difficile per questo esecutivo. «Questo governo vivrà tempi difficili se sarò eletto. Ma saranno tempi buoni per l’Austria», ha detto Hofer baldanzoso in una intervista alla tv
Orf.
Se ci fosse bisogno di individuare i motivi profondi della svolta austriaca, basta ricordare lo slogan dei liberali sul tema più rovente. “Immigrazione zero”: questa è la soluzione proposta da Strache e dai suoi. Jörg Haider, fondatore del partito, se fosse ancora vivo sogghignerebbe. A portare i nostalgici nel palazzo che fu dell’Imperatore potrebbe bastare la crisi dei rifugiati, con 90 mila fuggiaschi che si sono fermati nel paese e quasi dieci volte tanti che sono transitati, diretti verso Germani e nord Europa. Ma l’emergenza immigrazione rivela malesseri quasi innominabili, che siano verso gli spacciatori africani della stazione Thaliastrasse o i maghrebini di Praterstern. Come sempre, più che le reali difficoltà economiche e logistiche può il richiamo alla pancia, lo sfruttamento del disagio che l’arrivo in massa dei diversi provoca.
La stampa popolare cavalca il malumore, dando ampio spazio alle denunce di violenze che coinvolgono stranieri, come nei giorni scorsi, quando una studentessa 21enne è stata aggredita e violentata a Vienna da un gruppo di giovanissimi richiedenti asilo afgani.
E alla fine, la stessa onda che sta sommergendo i consensi di Angela Merkel in Germania e del premier Stefan Loefven in Svezia rischia di spazzare via anche considerazioni più concrete: quelle per esempio sulle reali capacità amministrative dei Liberali. Nella Carinzia, la regione del fondatore Haider, la Fpö ha lasciato una voragine di conti in rosso, pari a 25 miliardi di euro, per garantire l’espansione della banca locale, e adesso i creditori si vogliono rivalere con la regione. Ma questo finisce per contare poco, di fronte a una minaccia percepita come inquinamento della cultura locale. Di Patria con la P maiuscola gli austriaci, entusiasti della prima ora sul sogno europeo, non sentivano parlare da tempo. Ma non ci sono richiami che valgano. Come hanno reagito a suo tempo, chiudendosi a riccio quando i partner europei contestavano all’allora presidente Kurt Waldheim il passato nazista, così reagiranno adesso, chiudendosi ancora di più se l’Unione li richiamerà a ideali comuni.

Repubblica 26.4.16
La storia.
Non c’è solo lo shock per i migranti a scatenare paure. Havel rimproverava a Vienna di non aver mai davvero fatto i conti con la storia
Le ombre dell’Austria felix dal passato nazista al progetto di Haider
di Andrea Tarquini

SETTANTADUE operai su cento in Austria hanno votato per la destra radicale alle presidenziali. Neutrale, il dato spiega molto. Mai dire mai. L’Austria è il primo paese all’avanguardia industriale e tecnologica, economia in crescita, disoccupazione bassa e conti a posto, welfare ai vertici mondiali, in cui i populisti divengono primo partito, Volkspartei che spodesta quelli tradizionali. Sempre tra gli operai, a Vienna città campione mondiale di qualità della vita, solo il dieci per cento ha votato per la Socialdemocrazia, loro rappresentante storico.
Da decenni, la voglia di consenso — cardine della stabilità austriaca postbellica — era erosa. Nel 1986 la Fpö (liberali) che Jörg Haider trasformò in voce di protesta di destra, antimigranti, antieuropea (usa a lodi della politica sociale hitleriana e a battute antisemite) divenne terza forza. Nel 2000 Wolfgang Schüssel, leader cristianopopolare (la Dc austriaca) fu il primo statista del mondo libero a sdoganare una simile forza: divenne cancelliere in coalizione con loro, Susanne Riess-Passer nostalgica vicepremier.
«La “seconda repubblica” nata nel 1955 è finita», scrivono i grandi media. Avvertono: non c’è solo lo shock-migranti a mobilitare paure. Ha radici lontane la metamorfosi austriaca. Per decenni, socialdemocratici e cristianopopolari hanno dato l’impressione di governare “tra di loro”. In varie interviste a Repubblica, Heinz-Christian Strache lo ha detto: «Non sanno più ascoltare il paese reale, pensano solo ai loro compromessi per restare al potere. Con Bruxelles devolvendo sovranità, sulle poltrone di aziende pubbliche, sui migranti. Gli austriaci hanno bisogno di più giustizia sociale, e rifiutano un futuro da minoranza bianca cristiana circondata da minareti».
Dall’anno scorso, l’Austria — con Italia, Grecia, Svezia, Germania — è stata uno degli appena cinque tra i 28 paesi dell’Unione più investiti dalla marea della migrazione. La paura cresce da anni. Specie nei grandi sobborghi proletari e industriali di Vienna, Graz e delle altre città- locomotiva. Operai e ceti medi divenuti forti constituency con Francesco Giuseppe temono di perdere contratti di lavoro, fitti, mutui, licenze di negozi a vantaggio dei nuovi arrivati. Aggiungono gli strateghi della Fpö, il partito guidato da Strache e fondato da Haider: «Lo ha detto il presidente di sinistra uscente Heinz Fischer. Registriamo più richieste d’asilo che non nascite». Nuove società parallele — velo e sharia alla porta accanto — diventano percezione di realtà quotidiana.
I grandi intellettuali, dallo scrittore Robert Menasse alla drammaturga Elfriede Jelinek, avvertono: è morta la “Austria Felix”’ prospera, aperta al mondo, solidale. La creò il cancelliere Bruno Kreisky, padre storico della socialdemocrazia. «Compagno di strada di Willy Brandt e di Olof Palme». Successi passati: i partiti storici non sanno sostituirli con certezze di progetti nuovi. E troppo spesso hanno governato in larghe intese: monopolio dell’opposizione ai radicali. Il nuovo “Grande disegno” lo offre Strache, e convince: «un’Europa delle Patrie, insieme al Front National, alla Lega, a Geert Wilders. Un’Europa amica di Putin, non succube della leadership imperiale Usa».
Lo sfondo storico è particolare, ricordano voci critiche. L’Austria postbellica non è la Germania federale: ama autovittimismi nazionalisti di stile polacco- magiaro. Non ha compiuto la Vergangenheitsbewaeltigung, resa dei conti col passato, valore costitutivo tedesco.
I tedeschi apprendono colpe e Passato dalla prima elementare, gli austriaci no. Ma Vienna fu tutta in piazza all’Anschluss (1938) in delirio per Hitler in visita. In Waffen-SS e Gestapo si contarono in proporzione alla popolazione più volontari austriaci che tedeschi. «Fummo occupati, vittime» (libri di testo). Il dopoguerra (per il Centro Wiesenthal) fu segnato da protezione e sdoganamento di ex decision maker del Terzo Reich, infinitamente più che in Germania. In sinistra e centrodestra. Fino a Kurt Waldheim, capo dello Stato già manager di Shoah e repressione antipartigiana in Jugoslavia. «Chi non affronta il passato non è degno del futuro», lo criticò in pubblico Vaclav Havel. Geograficamente e non solo, Vienna è meno a ovest di Praga.

Corriere 26.4.16
L’Austria accelera sulla barriera al Brennero (e sigilla l’Ungheria)
di Maria Serena Natale

Vienna accelera sulla barriera al Brennero e la chiusura dei confini. Effetto collaterale dell’exploit nazionalista al primo turno delle presidenziali.
È stata annunciata per domani al valico di frontiera con l’Italia la conferenza stampa per illustrare «il management di controllo del confine». In sostanza le nuove misure per frenare gli arrivi dei migranti da Sud.
Controlli rafforzati anche dal lato ungherese. Dove nel 2015 volontari in festa accoglievano i profughi della rotta balcanica, già ieri erano schierati militari e agenti della Polizei per ispezionare le auto in transito.
È la prima conseguenza politica della grande paura per il 35% di consensi ottenuto domenica scorsa dal candidato dell’ultradestra Norbert Hofer. La coalizione di governo formata da popolari e socialdemocratici — i due grandi partiti che si spartiscono il potere in Austria dal Dopoguerra e che sono finiti fuori dal ballottaggio — manda così un messaggio di fermezza per rassicurare gli elettori tentati dalla retorica anti-immigrati del Partito della Libertà guidato da Heinz-Christian Strache. Per dimostrare che il tema della sicurezza non è monopolio dei populisti e drenare consensi sull’ambientalista Van der Bellen. L’anno scorso Vienna ha ricevuto 900 mila richieste di asilo: a fronte di una popolazione di otto milioni e mezzo, si tratta in proporzione di un numero tra i più alti dell’intera Ue. Per il 2016, dopo la chiusura di fatto della via balcanica con l’accordo Ankara-Bruxelles sulla riduzione dei flussi, il ministero dell’Interno austriaco ha lanciato l’allarme sul possibile picco di 300 mila ingressi proprio dal fronte Sud, dall’Italia chiamata a gestire i nuovi arrivi dalla Libia.
Allarme respinto ancora ieri dal premier Matteo Renzi che da Hannover ribadisce: «Nessun elemento giustificherebbe la chiusura del Brennero. Se ci fosse, sarebbe la Ue a prendere le decisioni conseguenti». Due settimane fa i ministri degli Esteri e degli Interni Paolo Gentiloni e Angelino Alfano avevano inviato alla Commissione europea una lettera per sollecitare «con estrema urgenza la verifica della compatibilità» delle misure austriache con il principio della libera circolazione di Schengen. Da Bruxelles finora nessuna risposta.

Corriere 26.4.16
Troppo facile condannare l’Austria: ci tocca capire
di Claudio Magris

Un motto imperiale diceva: Austria erit in orbe ultima, l’Austria durerà sino alla fine del mondo, sarà l’ultimo impero a tramontare. Così in passato. Ma oggi quell’orgoglioso aggettivo sembra cambiare di significato e mettere pure l’Austria col suo aspirante pistolero attualmente vittorioso fra gli ultimi della classe. Certo, si può sperare che il ballottaggio bocci il leader e il partito attualmente in testa, che usurpano e insozzano un glorioso nome della politica, il sostantivo o l’aggettivo «liberale». Ma non è il caso di fare il processo all’Austria attuale, bensì di imparare, prima che sia troppo tardi, la lezione che essa oggi ci dà. È impressionante che lo straordinario successo dell’estrema destra abbia avuto luogo in un Paese tranquillo, in cui le forze politiche che lo hanno governato danno tutte le garanzie di pacifica stabilità. Il pericolo di un’Europa barbarica è reale e questo campanello d’allarme austriaco va ascoltato .
A E. I. O. U. Ancona. Empoli. Italia. Otranto. Udine. Diceva ai tempi asburgici un motto imperiale: Austria erit in orbe ultima, l’Austria durerà sino alla fine del mondo, sarà l’ultimo impero a tramontare. Oggi quell’orgoglioso aggettivo sembra cambiare di significato e mettere pure l’Austria col suo aspirante pistolero attualmente vittorioso fra gli ultimi della classe, seduti in fondo con le orecchie d’asino. Certo, si può sperare che il ballottaggio bocci il leader e il partito attualmente in testa, che usurpano e insozzano un glorioso nome della politica, il sostantivo o l’aggettivo «liberale».
La Germania che abbiamo amata , diceva il titolo di un libretto in cui Croce, nutrito della grande cultura tedesca, la distingueva, nel suo valore universale, dalla rozza e sanguinaria barbarie del nazismo. Adesso potremmo e dovremmo scrivere un’analoga dichiarazione d’amore, L’Austria che abbiamo amata , e qualcuno l’ha già scritto. Del resto ogni Paese, ogni cultura, è un Giano bifronte, con una faccia di umanità e civiltà e un’altra di ottusa violenza e nessun popolo, nessuna cultura possono dare lezioni agli altri. Indubbiamente c’è stata — e c’è ancora, culturalmente — una grande Austria sovranazionale, crogiolo pure drammatico ma fecondo di genti, di lingue, di culture; culla e interprete di impareggiabile genialità della complessità e delle trasformazioni che hanno mutato il mondo e le visioni del mondo. Un’Austria plurinazionale — il cui sale era forse in primo luogo la contraddittoria ma incredibilmente vitale simbiosi culturale ebraico-tedesca — ammirata pure da chi l’ha combattuta, come gli irredentisti triestini; l’Austria il cui imperatore si rivolgeva «ai miei popoli».
Anche dopo la dissoluzione dell’impero la piccola Austria è stata straordinariamente ricca e vitale in ogni campo dell’arte e del sapere. Ma c’è stata ed evidentemente c’è un’Austria diametralmente opposta, torva gretta; quella che nel 1938 ha accolto tripudiante «l’invasore» Hitler, che pure la declassava a marca alpina di confine — Andreotti ricordava folle osannanti e alti prelati viennesi inneggianti al Führer in quel marzo 1938 e che ha votato in massa per l’annessione al Terzo Reich e pure fornito alcuni tra i più alacri carnefici.
Ma non è il caso di fare il processo all’Austria attuale, bensì di imparare, prima che sia troppo tardi, la lezione che essa oggi ci dà. È impressionante che lo straordinario successo dell’estrema destra abbia avuto luogo in un Paese tranquillo, in cui le forze politiche che lo hanno governato danno tutte le garanzie di pacifica stabilità: il Partito popolare cristiano-sociale è una tipica forza moderata che ha avuto e dovrebbe aver la fiducia dei cittadini giustamente amanti dell’ordine e della sicurezza e il partito socialista è completamente scevro di ogni immaturità barricadiera, di ogni prurito rivoluzionario e di ogni ingenuità sentimentale. Si tratta di due partiti che, da soli o coalizzati offrono l’immagine di una politica concreta, realista, non vagamente emotiva anche nei confronti del tremendo problema dell’immigrazione. Se sono stati sconfitti così clamorosamente, ciò significa che il pericolo di un’Europa barbarica è reale e che questo campanello d’allarme austriaco va ascoltato e non semplicemente e moralisticamente deplorato.
L’Europa di oggi sembra assomigliare progressivamente a quella degli ultimi anni Venti, con le crescenti insicurezze d’ogni genere, lo spettro e la realtà della disoccupazione, l’assenza di ogni progetto del futuro, la debolezza delle organizzazioni e istituzioni internazionali, a cominciare dall’Unione Europea. Tanti decenni fa quella crisi ha creato, in molti Paesi d’Europa, regimi terroristici, tirannici e populisti di ogni genere, mentre a Oriente si consolidava il terrore sovietico. All’origine della violenza c’è spesso la paura, come oggi la paura dell’immigrazione che pure, entro precisi ma ampi limiti, è necessaria in un’Europa sempre più vecchia e sempre più povera di figli e dunque pure di forza lavoro. La paura dell’immigrazione nasce certo da stolidi e feroci pregiudizi, che vanno combattuti e sfatati, ma anche da un problema reale, ossia dal numero dei dannati della terra, ognuno dei quali ha il diritto di vivere umanamente e non vale meno di ognuno di noi, ma il cui numero potrebbe diventare materialmente, concretamente, insostenibile, non per idioti odi razzisti ma per impossibilità oggettiva.
Conciliare la solidarietà umana e la considerazione realistica del problema sembra la quadratura del circolo. Se non sarà risolta, l’Europa di domani potrà assomigliare a quella orribile degli anni Trenta e la Vienna di queste elezioni sarà nuovamente stata, come diceva di essa tanti decenni fa Karl Kraus, un osservatorio meteorologico della fine del mondo. Non sembra probabile l’altra interpretazione di quell’antico motto latino, che diceva che all’Austria spettava il compito d i governare il mondo intero.

Corriere 26.4.16
In Austria tornano i fantasmi di Bernhard
di Paolo Di Stefano

In questi giorni viene voglia di farsi del male tornando a leggere lo scrittore austriaco Thomas Bernhard che se non fosse morto nel 1989 avrebbe compiuto 85 anni nel febbraio scorso. Leggerlo non per verificare se e quanto fosse giusto o sbagliato l’odio (ricambiato) che nutriva per il suo paese. Ma per cercare di capire perché non aveva mai smesso di percepire l’Austria come «un insieme di muri». È vero che ragioni molto personali, biografiche, contribuivano a quel risentimento viscerale, ma c’era anche altro, una sorta di ipersensibilità visionaria e iperbolica. Nel 1968, ricevendo il Premio di Stato austriaco per la Letteratura, Bernhard ringraziò per il riconoscimento pronunciando un discorso che era un’invettiva violentissima: «Noi siamo austriaci, noi siamo apatici; siamo la vita come volgare disinteresse alla vita, siamo il senso della megalomania come futuro nel processo della natura». Parlò di stupidità e intransigenza divenute «bisogno quotidiano». «Volgare disinteresse alla vita», «senso di megalomania», «stupidità e intransigenza». Parole impressionanti, che dette quasi venticinque anni dopo la caduta del nazismo sembravano tradire il gusto (sadico o masochistico) di rivangare le responsabilità di un passato che Bernhard si ostinava a considerare per nulla passato. Eppure rilette oggi balzano agli occhi, evidenti come un presentimento: «quel che pensiamo è già pensato», disse allora Bernhard e potremmo ripeterlo adesso se solo avessimo l’accortezza banale di mettere in relazione quel che è stato a suo tempo con quel che accade oggi. Perché il ritorno trionfale dell’estrema destra in Austria — imbevuto di xenofobia — evoca fantasmi più che altrove.
Il misantropo Bernhard è stato il re dell’invettiva contro la sua Austria, così come Dante era il principe dell’invettiva contro la sua Italia: sopraffatto dalla rabbia, urla il suo furore a futura memoria. Mette in moto quella che è stata chiamata, da lui stesso, «l’arte dell’esagerazione» che investe tutto e tutti. Molti leggendolo si chiedevano se quella distruttività fosse uno spingere le cose all’estremo come esercizio fine a se stesso. Dice il protagonista del romanzo Estinzione : «Solo l’esagerazione dà alle cose forma visibile, anche il pericolo di esser presi per pazzi non ci disturba più, a una certa età». Esagerando, a volte, la letteratura ci mette di fronte all’orrore della realtà. E spesso, purtroppo, lo prevede.

Repubblica 26.4.16
Dal voto di vienna un messaggio all’europa
di Angelo Bolaffi

DA buon conoscitore della storia europea, Helmut Kohl, nel discorso tenuto nell’ottobre del 1993 dinnanzi all’Assemblea nazionale francese, aveva messo in guardia gli europei.
AVEVA ricordato loro che «gli spiriti maligni non sono stati banditi per sempre dall’Europa». Per questo, aveva concluso, «ad ogni generazione si pone di nuovo il compito di impedire il loro ritorno, di superare i pregiudizi e di far cadere i sospetti». Una previsione quella fatta del Cancelliere dell’unificazione tedesca che appare drammaticamente confermata da quanto accade oggi nel Vecchio Continente. La clamorosa affermazione di Norbert Hofer esponente xenofobo e populista della Fpö al primo turno delle elezioni presidenziali austriache è, infatti, solo l’ultimo capitolo di una vera e propria controrivoluzione nel segno di “terra e sangue” il cui obiettivo dichiarato è la sconfitta del progetto europeista. E con esso dei valori dell’illuminismo democratico e del progresso sociale. Quella che una volta tra ammirazione e sospetto veniva chiamata Mitteleuropa sembra tornata preda di antichi fantasmi e di pulsioni identitarie che si illudono di trovare risposte alle sfide del mondo globale in una inattuale autarchia economica e spirituale. Ma proprio la gravità della minaccia impone a chi davvero voglia opporsi a tale deriva di evitare l’inutile quanto impotente retorica dello sdegno cercando invece nella «analisi concreta della situazione concreta» risposte ai problemi veri ai quali i populismo danno risposte sbagliate. Intanto per quello che riguarda l’Austria è bene non dimenticare che in quel Paese, per la colpevole reticenza con la quale ha accuratamente evitato di fare i conti col proprio passato, la destra reazionaria dispone di uno storico potenziale che puntualmente torna a manifestarsi nei momenti di crisi. Non è un caso che già Jörg Heider, il leader carinziano scomparso nel 2008, sotto la cui guida si era compiuta la mutazione della Fpö in senso populistico e xenofobo, aveva raggiunto nelle elezioni politiche del 1999 il 30% dei voti. Inoltre un rilevante segnale della radicale trasformazione in corso nel sistema politico europeo è la crisi forse irreversibile dei due grandi partiti, quello socialdemocratico della Spö (il 72% degli operai ha votato per Hofer) e quello popolare della Övp. Partiti che hanno guidato il Paese dalla fine della Seconda guerra mondiale secondo un ormai inaccettabile sistema di “grande coalizione spartitoria”. Una ripulsa quella nei confronti dei partiti tradizionali confermata dal fatto che il 40% degli elettori austriaci ha espresso la propria preferenza per i due candidati alternativi. Sarà così il “verde” Alexander van der Bollen ad andare al ballottaggio confermando in tal modo il crescente protagonismo dei “Verdi” nel mondo politico di cultura tedesca annunciato in Germania qualche settimana fa dalla vittoria di Winfried Kretschmann nella elezione del Land del Baden-Württemberg, una regione per demografia e ricchezza decisiva. Impossibile, dunque, non prendere atto che è in crisi il “consenso europeista” che per mezzo secolo aveva funzionato da collante politico e culturale. Il futuro dell’Europa dipende per questo dalla possibilità di costruire un “nuovo racconto” che tenga conto delle mutate condizioni geo-politiche del pianeta-mondo sorto dopo la fine della Guerra fredda. E dalla capacità degli attori politici di dare risposte inclusive e cosmopolitiche ai grandi fenomeni, primo fra tutti quello dei migranti, che stanno riclassificando demograficamente e economicamente tutte le società occidentali. E in primo luogo quelle del Vecchio continente. Oggi come accadde negli anni ’20-’30 del Novecento assistiamo, dunque, allo scontro di “due Europe”: quella che crede che sia possibile governare le metamorfosi in atto nel segno della giustizia sociale, della libertà e dell’universalismo dei diritti. L’altra che, invece, fa politica con la paura e l’odio e insinua la velenosa convinzione che sia possibile impedire l’irruzione del mutamento costruendo dei muri. Come quello che il “socialdemocratico” Cancelliere austriaco ha minacciato di erigere al Brennero senza per questo riuscire però a impedire il successo del partito xenofobo. Per questo ha un enorme significato simbolico e strategico la visita di Obama ad Hannover: il Presidente americano è stato, per così dire, “costretto” a riscoprire nel momento di sua massima crisi il ruolo strategico dell’Europa e delle relazioni transatlantiche per gli equilibri mondiali e il futuro stesso dell’intero Occidente. Schierandosi con inusuale chiarezza e determinazione — «è dal lato giusto della Storia», ha affermato — a sostegno della politica seguita da Angela Merkel nella crisi dei rifugiati, il presidente americano riprendendo una antica intuizione strategica di George Bush senior che diede via libera alla riunificazione tedesca proponendo a quel Paese una «partnership nella leadership », ha affidato alla Germania il compito di tenere assieme l’Europa per far fronte all’emergenza dei rifugiati, alla lotta contro l’Isis, tenere a bada Putin e forse anche arrivare a stipulare il molto controverso trattato transatlantico di cooperazione commerciale. Resta però ovviamente da vedere se Frau Merkel riuscirà a tenere dietro di sé unita la Germania.

Corriere 26.4.16
Le notti di Parigi
In piedi fino all’alba: tra i ragazzi che (di nuovo) vogliono cambiare il mondo
di Stefano Montefiori

PARIGI «Adesso che siamo insieme le cose vanno meglio», si legge sul pavimento della piazza. La frase del drammaturgo libano-canadese Wajdi Mouawad dice molto del perché dal 31 marzo a oggi tutte le sere centinaia di parigini si raccolgono in place de la République.
«Nuit debout», notte in piedi, è un movimento che intanto cambia i nomi dei giorni — ieri non era il 25 aprile ma il 55 marzo —in attesa di trasformare il mondo: ci sono le commissioni «internazionale», «diritto», «serenità» (ovvero il servizio d’ordine), «digitale», «economia» e molte altre. Si discute di tutto, dalla solidarietà ai migranti alla lotta contro lo specismo (in virtù del quale gli uomini mangiano gli altri animali); si tengono seminari sulla differenza tra scheda bianca e astensione, sulla repressione in Egitto, si affronta la questione del femminismo in tre assemblee distinte: mista, riservata a donne e transessuali e alla comunità LGBT. Sui volantini è stampato una specie di manuale dei gesti utili durante i dibattiti: alzare e ruotare le mani indica approvazione, pugni chiusi e avambracci incrociati significano opposizione, pugni a mulinello sopra la testa vogliono dire «già detto, taglia corto». Accanto agli smartphone che grazie a Periscope rilanciano le assemblee in diretta su Twitter, ecco i vecchi megafoni per farsi sentire nella piazza tra i rumori del traffico e gli inevitabili suonatori di bongo.
«Tutti possono prendere la parola e si vota per alzata di mano, cerchiamo di informarci, capire e immaginare un futuro migliore senza farci intontire dalla tv e dagli altri media», dice Olivier Benchel, 23enne studente di sociologia, che è venuto qui il 31 marzo e non ha più mancato una notte in piedi. Tutto è nato dall’opposizione alla legge El Khomri, ovvero la riforma del codice del lavoro che vorrebbe rendere più facile l’accesso dei giovani al mercato, e che molti giovani combattono come il Male perché la trovano un’ennesima, pigra ripetizione dello schema neo-liberale abbracciato dal partito socialista: «Il governo tutela i padroni, i padroni chiudono le fabbriche, la disoccupazione aumenta, per farla diminuire il governo incentiva il precariato, le aziende continuano a non assumere e i disoccupati crescono ancora, e intanto decenni di lotte sindacali vanno in fumo», riassume Jean, trentenne furibondo con Hollande e la sua «sinistra traditrice».
La «Nuit debout» si sta allargando a molte città della Francia, soprattutto a Ovest (Nantes, Rennes, Tolosa), mentre a Parigi il movimento comincia a suscitare qualche irritazione. L’atmosfera in place de la République sa di fratellanza, ma anche senza contare gli incidenti (un’auto della polizia data alle fiamme, un uomo gravemente ferito cadendo dalla statua, qualche scontro con gli agenti), crescono i dubbi attorno a una mobilitazione che oscilla tra sogno di rinnovamento e grande happening dell’estrema sinistra eterna, tra venditori di falafel e birre, giocolieri, canzoni di Manu Chao e gesti situazionisti. Un paio di settimane fa qualche invasato del «ritorno alla terra» ha divelto le lastre del pavimento per piantare semi e fondare un orto urbano (place de République era stata da poco ristrutturata con una spesa per il Comune di 24 milioni di euro).
Il filosofo accusato di essere «neo-reazionario» Alain Finkielkraut una sera si è affacciato con la moglie, ed è stato cacciato in malo modo. Incidente prevedibile, che ha fatto male all’immagine del movimento. Se gli «Indignados» di Puerta del Sol a Madrid cercavano di allargare la partecipazione democratica rifiutando la divisione destra-sinistra, Nuit debout sembra scartare in partenza chi non è di sinistra, poi chi ha simpatie per la gauche al governo (quasi peggio), poi quanti non si riconoscono nella triade anticapitalismo-decrescita-antagonismo.
Il maître à penser non ufficiale ma sempre più riconosciuto è l’economista Frédéric Lordon, meno naif delle signore che ogni tanto arrivano sorridenti in piazza portando cibo e vestiti: «Non siamo qui per essere amici di tutti, non portiamo la pace, non abbiamo alcun progetto di unanimità democratica», dice duro Lordon. Ieri l’assemblea si è spostata al teatro dell’Odéon, in solidarietà con gli «intermittenti dello spettacolo» che lo occupano da due giorni. «I soldi ci sono! Costruiamo nuovi diritti!», si legge sullo striscione. La Nuit debout punta ora ad allearsi con i sindacati per organizzare un grande sciopero generale, rito bloccato non meno della società che vuole rinnovare.

Corriere 26.4.16
La svolta a sinistra dei fedelissimi di Hollande

Su iniziativa del fedelissimo Stéphane Le Foll, portavoce del governo, ieri sera si è tenuta a Parigi davanti a circa 600 militanti una riunione pubblica dei politici sostenitori di François Hollande, tra i quali una ventina di ministri. Il ministro dell’Economia Emmanuel Macron non era invitato: privo della tessera del partito socialista ma soprattutto fondatore del movimento «En marche!», Macron è sospettato ogni giorno di più di essere pronto a tradire Hollande e a lanciarsi come candidato all’elezione presidenziale del 2017.
Di fronte al successo — nei sondaggi e nei media — di Macron, l’entourage del presidente sembra deciso a lanciare un ultimo disperato tentativo. Il comizio di ieri sera era intitolato «Hé oh la gauche!» — slogan subito ridicolizzato perché ricorda la canzone di Biancaneve e i sette nani — e puntava a difendere il bilancio della presidenza Hollande, dopo il disastro della trasmissione tv di qualche sera fa, nella quale il capo di Stato è apparso in grave difficoltà nel rispondere alle domande dei giornalisti e soprattutto alle rimostranze di quattro cittadini scelti in rappresentanza di tutti i francesi.
Nella precedente corsa all’Eliseo Hollande si scagliava contro la finanza, diceva di non amare i ricchi e prometteva una tassa al 75% per cento per i più fortunati che ha fatto temere ad alcuni l’arrivo dei soviet sulla Senna. La svolta social-liberale di Hollande è stata scontata ma più repentina e traumatica del previsto. Il presidente sembra deciso ora a seguire la massima del suo maestro Mitterrand «nessun nemico a sinistra», soprattutto in campagna elettorale. Se Macron affascina al centro e persino a destra, se il premier Manuel Valls insiste sui temi identitari e denuncia il velo islamico, da ieri sera il campo di Hollande si ributta a sinistra e parla di disoccupazione, potere d’acquisto, crisi degli alloggi. Secondi i sondaggi è finito, ma il grande incassatore Hollande ci crede ancora.
Stefano Montefiori

Corriere 26.4.16
La guerra di Erdogan contro i giornalisti
di Antonio Ferrari

Fare il giornalista in Turchia e pretendere di essere libero di esercitare il diritto di critica è un crimine e insieme un insulto all’autorità costituita. Lo sa bene il direttore del glorioso quotidiano Cumhurye t Can Dundar, che sta collezionando condanne. Rischia l’ergastolo perché è accusato di spionaggio per aver rivelato, con prove documentali e con un video non smentibile, una assoluta verità: che il regime inviava armi ai jihadisti più estremi in Siria e in Iraq, con l’aiuto, la protezione e la scorta dei servizi segreti turchi.
Non è tutto. Ieri Dundar è stato condannato a pagare un’ammenda di 9.000 euro (al cambio ufficiale dell’importo in lire turche) per aver accusato il presidente Recep Tayyip Erdogan, che allora era primo ministro, e suo figlio Bilal, di un traffico d’oro con l’Iran. Il condannato Dundar è davvero un giornalista verticale, che ha tutta la nostra ammirazione. Anche perché ha dichiarato che «se la ricerca della verità è un crimine, continueremo a commettere quel crimine».
Onestamente, sulla Turchia non si sa più cosa pensare, perché tutti gli argini per contrastare l’autoritarismo di Erdogan sono saltati. Adesso la «guerra» del regime non è rivolta soltanto ai giornalisti turchi e ai social media, che secondo il «dittatore» infangano colpevolmente l’immagine del Paese, ma anche contro i reporter stranieri, obbligati a sottostare a un diktat: chi scrive contro il governo non è il benvenuto, e chi è nel Paese può essere querelato e perseguito.
Sappiamo molto bene che i giornalisti non sono mai piaciuti al potere: nei Paesi dittatoriali, semi dittatoriali, e persino nelle democrazie. Inutile addolcire la realtà con qualche aggettivo: il reporter è sempre considerato un fastidioso ficcanaso. Negli Stati Uniti, che sono culla di democrazia, il giornalista è rispettato e temuto. Nelle democrazie deboli è appena tollerato (e non sempre). Figuriamoci dove la democrazia è stata rottamata!

Corriere 26.4.16
Se i ricchissimi fratelli Koch (ultrà di destra) votano Hillary
di Maria Laura Rodotà

«È possibile che un’altra Clinton sia meglio di un altro repubblicano?». «Sì, è possibile», ha risposto il principale finanziatore del partito repubblicano. Charles Koch, uno dei due fratelli Koch arcimiliardari dell’energia, destri e ultraliberisti, che da anni scelgono candidati e spendono centinaia di milioni di dollari in campagne nazionali e locali, lo ha dichiarato domenica, intervistato dalla Abc. Il quasi endorsement — Koch ha detto «dovremmo convincerci che le sue azioni saranno diverse dalla sua retorica elettorale», insomma vorremmo essere sicuri che non manterrà le promesse — è stato visto come un segnale dell’avvilimento delle élites repubblicane. Che, dovendo scegliere tra il protezionista Donald Trump e il reazionarissimo Ted Cruz, li scarterebbero preferendo la probabile candidata democratica alla Casa Bianca. I sostenitori di Bernie Sanders hanno subito fatto battute su Hillary spinta da uno dei due fratelli-simbolo della «billionaire class» di lotta e di governo. E Clinton ha subito twittato il suo disinteresse verso «endorsement di persone che negano i cambiamenti climatici e vogliono rendere più difficile andare a votare». Forse è un gioco delle parti; forse — si dice anche questo — Koch, cattivo come sempre, ha voluto danneggiare Hillary con un mezzo abbraccio della morte, mettendola in cattiva luce con gli elettori radicalizzati ma soprattutto impoveriti di Bernie. O magari, almeno un Koch si vuole accreditare con la potenziale prossima Casa Bianca; in caso a novembre i repubblicani perdano seggi e maggioranze parlamentari, e i fratelli e le Koch Industries perdano interlocutori. Per questo Charles Koch potrebbe aver dato un’intervista a primarie in corso; per far sapere di vedere Clinton come «una con cui si possono fare affari», più professionale di altri (nel frattempo Ted Cruz e John Kasich si sono disperatamente alleati contro Trump: Kasich non farà campagna in Indiana per favorire Cruz, che starà lontano da Oregon e New Mexico per aiutare Kasich; i Koch non andranno a vederli alla convention repubblicana, comunque, hanno fatto sapere).

Corriere 26.4.16
Come scompare uno Stato La fine della Jugoslavia
risponde Sergio Romano

Una sua risposta termina con un accenno ad un suo viaggio a Belgrado negli anni Novanta, dove ebbe, come Lei dice, l’occasione di esprimere qualche dubbio sulle reali motivazioni del conflitto e aggiunge «fui guardato con sorpresa e rammarico». Termina la frase con un «non ho cambiato idea». Potrei conoscere «la sua idea», sull’argomento sul quale io non ho ancora la idee chiare di quella tragedia.
Remo Colombo
   
Caro Colombo,
Credevo allora, e la mia analisi non è cambiata, che la crisi dello Stato jugoslavo fosse strettamente collegata con la storia del Paese. La Jugoslavia era nata dopo la fine della Grande guerra dalla unione delle tre maggiori popolazioni slave della penisola balcanica: sloveni, croati e serbi. Ma i tre popoli avevano alle spalle storie alquanto diverse. La Serbia poteva vantare una indipendenza conquistata sul campo di battaglia, soprattutto contro i turchi ottomani. La Croazia, dopo una antica indipendenza, era ormai da tempo una provincia del regno d’Ungheria e la Slovenia una sorta di appendice balcanica della Carinzia austriaca. L’unione premiava i serbi, nemici degli Imperi centrali sin dal primo giorno del conflitto, ma dava a croati e sloveni un ruolo minore e, agli occhi di molti nazionalisti, insufficiente.
Ne avemmo la prova durante la Seconda guerra mondiale. Quello che è passata alla storia come un epico conflitto tra le formazioni jugoslave del maresciallo Tito e le potenze occupanti (Germania e Italia) fu anche una duplice e crudele guerra civile: i comunisti di Tito contro i monarchici del generale Michalovic, i serbi contro i croati di Ante Pavelic. Tito sfruttò la vittoria, alla fine della guerra, per imporre la sua autorità e seppe creare una nuova ideologia nazionale per un Paese che negli anni della Guerra fredda riuscì a essere contemporaneamente comunista e neutrale. Ma le antiche divisioni sopravvissero; e ai tre gruppi etnici originali si aggiunse, fra gli anni Settanta e Ottanta, quello dei musulmani bosniaci: una popolazione slava che si era convertita all’Islam durante la dominazione ottomana.
La fine della Guerra fredda e la disintegrazione dell’Urss ebbero per la Jugoslavia due effetti negativi: segnarono la fine del comunismo e resero inutile quel ruolo di Paese neutrale fra i due blocchi che la Jugoslavia aveva intelligentemente recitato sino alla fine degli anni Ottanta. Scomparse le ragioni dell’unità, occorreva creare uno Stato confederale, fondato su interessi e criteri diversi. Ma il frettoloso riconoscimento tedesco dell’indipendenza croata e slovena resero quel tentativo impossibile. La divisione del Paese sarebbe stata relativamente semplice se i confini interni avessero separato zone etnicamente omogenee. Ma in Bosnia e in Croazia esistevano regioni abitate da importanti comunità serbe e nella prima, in particolare, esisteva anche un minoranza croata.
Furono queste, e non i contrasti religiosi, caro Colombo, le vere cause della guerra.

La Stampa 26.4.16
Lager di Unterlüss, la rivincita degli eroi dimenticati
Un libro ricostruisce la storia dei 44 ufficiali italiani internati che nel ’45 si rifiutarono di diventare schiavi di Hitler: sei di loro pagarono con la vita
di Mirella Serri

Gaetano era di Torino e quando fu catturato si trovava in Albania con la IX armata; Michele, originario di Campobasso, era in Slovenia per difendere il confine; Antonio, 31 anni, combatteva a Larissa, in Grecia, e allorché, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, chiese al capitano cosa si doveva fare, ottenne questa risposta: «Quello che volete». Gaetano Garretti di Ferrere, Michele Montàgano, Antonio Rossi rientrarono nel nutrito contingente di militari italiani che, fatti prigionieri dopo la fuga del re Vittorio Emanuele III e l’occupazione tedesca della Penisola, ebbero il coraggio di dire «No!» e si rifiutarono di combattere sotto le bandiere del Reich. Con altri duecento commilitoni manifestarono un’ulteriore audacia: si sottrassero al lavoro coatto al servizio di Hitler.
Il 24 febbraio 1945 diventarono i protagonisti di uno degli episodi più significativi della Resistenza italiana, compiendo un gesto di altissimo «onore militare e personale», come lo definisce Andrea Parodi nel libro Gli eroi di Unterlüss.
La storia dei 44 ufficiali Imi che sfidarono i nazisti (Mursia, pp. 216, € 16). Una vicenda che, ci avverte l’autore, è rimasta fino a oggi inedita. E che non sarebbe mai stata ricostruita se Parodi stesso non si fosse imbattuto nei documenti di un suo prozio, Carlo Grieco, che non solo non aveva mai raccontato ai parenti e alla moglie di essere stato un ufficiale Internato Militare Italiano, ma non aveva mai nemmeno rivelato di essere stato un eroe di guerra.
Gelo, pioggia e ratti
Gaetano, Michele (vivacissimo ancora oggi, con i suoi 94 anni ben portati), Antonio (padre dell’economista Nicola Rossi) e tanti altri, dopo essere stati catturati e designati non come prigionieri di guerra ma come Italienische Militär-Internierte, detti anche Imi (in modo che non dovessero essere loro riconosciute le garanzie della Convenzione di Ginevra), furono chiusi nel Lager di Wietzendorf. Qui si trovarono con il futuro dirigente politico Alessandro Natta e lo scrittore Giovanni Guareschi, pronti a resistere alla sollecitazione di diventare «optanti» e di indossare la divisa delle SS. Alloggiati in baracche dal cui soffitto pendevano ghiaccioli, e con la pioggia che cadeva sui loro letti infestati da ratti parassiti e pidocchi, nutriti con brodaglie di rape e qualche buccia di patata, furono ridotti allo stremo delle forze.
Successivamente, però, dall’estate del 1944, il loro status mutò: furono considerati alla stregua di «lavoratori civili», per poter essere sottoposti a fatiche e privazioni senza godere delle tutele della Croce Rossa Internazionale. Al Lager arrivavano ogni giorno gli imprenditori per scegliere i loro sottoposti o schiavi. Misuravano la corporatura, la massa muscolare, controllavano bocca e denti: per i tedeschi, «noi eravamo civili», ricorda Montàgano, «ma continuavamo a sentirci ufficiali del Regio esercito italiano».
Un drappello di 214 italiani fu mandato a Dedelstorf a costruire una pista di volo: gli ufficiali, consapevoli della propria dignità e del proprio ruolo, incrociarono le braccia. Il gruppo in realtà non era compatto: alcuni avrebbero voluto trattare con gli uomini di Hitler, chiedere incarichi meno pesanti. Altri invece firmarono un documento esponendo le ragioni di un netto rifiuto. All’alba del sesto giorno, la sveglia fu drammatica. Un ufficiale della Gestapo li convocò accusandoli di tradimento, poiché «lo sciopero in Germania è considerato un delitto». Per questo era necessaria una punizione esemplare: vennero selezionati 21 condannati a morte.
Atroci torture
Tra i prescelti non rientrava nessuno di coloro che avevano sposato la posizione più intransigente. Così si fecero avanti prima 31 militari e poi altri 13 chiedendo di sostituire i compagni già designati per la fucilazione. I tedeschi si riunirono in un conciliabolo che durò otto ore: non solo erano stupefatti di tanta audacia ma, prevedendo la disfatta, riflettevano anche sulle ripercussioni che sarebbero derivate da quell’assassinio di ufficiali che non si piegavano. Nel frattempo i 44 volontari furono rinchiusi in un piccolo cortile all’interno del campo di aviazione, così come si trovavano, scalzi e svestiti, con la temperatura di parecchi gradi sotto zero. Poi, a colpi di manganello, gli internati furono fatti salire su un rimorchio trainato da un trattore che si avviò per i campi.
I 44 erano convinti che sarebbero stati passati per le armi: invece furono spediti a Unterlüss, uno dei Lager più duri di tutto il Reich, dove furono sottoposti a atroci torture. Sei di loro morirono, tre uccisi dalle botte dei sorveglianti. Per quelli che si salvarono, l’esistenza nel dopoguerra non fu facile e dovettero aspettare decenni perché il loro gesto eroico fosse riconosciuto: era qualcosa di anomalo, che non rientrava nei parametri più noti e accreditati della Resistenza. Gli ex militari, in generale, erano guardati con sospetto, come ex fascisti.
«Di questa Resistenza senza armi», afferma Parodi, «si è diffidato a lungo anche se ha contribuito a portare la libertà e la democrazia nel nostro paese». Nei Lager del Terzo Reich furono deportati circa 710 mila militari italiani registrati come Imi e tra loro ben circa 600 mila decisero di boicottare e ostacolare, a costo della vita, lo sforzo bellico dei tedeschi.

Corriere 26.4.16
La teocrazia di Ambrogio
Il patrono di Milano affermò per primo la supremazia della chiesa sullo stato
di Paolo Mieli

Nel IV secolo il mondo cristiano fu sconvolto dall’eresia ariana. Ario, teologo nordafricano, sosteneva che Cristo, essendo stato «generato» da Dio unico, eterno e indivisibile, era «venuto dopo» e non poteva essere considerato allo stesso modo del Padre: c’era stato, cioè, «un tempo in cui il Figlio non c’era». Ai tempi di Costantino, che aveva spalancato le porte dell’impero ai seguaci di Cristo, si tenne il Concilio di Nicea (325) che condannò la dottrina ariana. Ma qualche tempo dopo l’imperatore riabilitò Ario e costrinse all’esilio il suo grande nemico, Atanasio vescovo di Alessandria. Dopodiché i decenni successivi furono contrassegnati da una lunga controversia tra ariani e atanasiani e la Chiesa di Roma faticò non poco per venire a capo della dottrina eretica che nel frattempo aveva conquistato vescovi e sovrani. Un grande protagonista di questa battaglia fu Ambrogio, che pure sulle prime aveva avuto qualche indulgenza (o qualcosa di più) nei confronti dell’arianesimo. È questo il punto di partenza di un originale libro di Franco Cardini Contro Ambrogio , che sta per essere dato alle stampe dalla Salerno.
Fin dalle prime righe, Cardini mette le mani avanti per difendersi dalle accuse che potrebbe ricevere per questo saggio impertinente. Il suo non vuol essere né un pamphlet «provocatorio», né «un’indecorosa dissacrazione», tantomeno «un dissennato attacco a livello storico o peggio ancora teologico» all’indirizzo dell’uomo che, tra l’altro, fu ispiratore e modello per sant’Agostino. Non vogliono essere, i suoi, «giudizi moralistici del tutto antistorici», né «paradossali esercitazioni ucroniche» e neppure «fatue e faziose polemiche» con il senno del poi. È, quello di Contro Ambrogio , solo un tentativo di «uscire dal comodo riparo dello storico» a favore di una modalità che gli consenta di «scoprirsi», «esporsi», «prendere posizione». Il tutto non disgiunto da un «pizzico di autoironia per aver tentato, al cospetto di un gigante della storia e del pensiero, una specie di ruggito del topo».Tra l’altro che ci siano aspetti controversi nella vita di Ambrogio traspariva già, tra le righe, dalle impeccabili note di Marco Navoni alla Vita di sant’Ambrogio (edizioni San Paolo) scritta da Paolino, coevo e principale collaboratore del patrono di Milano. Così come, sempre tra le righe, dalle biografie di Cesare Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo (edizioni San Paolo) e di Angelo Paredi, S. Ambrogio e la sua età (Jaca Book). E anche, sia pur marginalmente, dallo straordinario Teodosio il Grande (Salerno) di Hartmut Leppin.
Il libro di Cardini prende le mosse dal 374 allorché, avendo esercitato fin lì il ruolo di governatore laico di una regione che all’epoca corrispondeva alla Liguria e all’Emilia e pur non essendo ancora battezzato, il trentacinquenne Aurelio Ambrogio (era nato nel 339 a Treviri, città che dal 292 era la residenza ufficiale dell’imperatore romano d’Occidente) fu nominato vescovo di Milano, dal 286 «sede imperiale». Era figlio di un alto magistrato del sovrano Costantino II, ma su suo padre c’è un «ambiguo silenzio» che ci indurrebbe a sospettare fosse stato coinvolto in una delle controversie dell’epoca e avesse «militato dalla parte degli sconfitti». A «portarlo così in alto» era stato il prefetto Sesto Petronio Probo, un uomo molto chiacchierato con evidenti inclinazioni all’arianesimo, così come l’imperatrice Giustina (moglie di Valentiniano I e madre di Valentiniano II) protettrice di Probo. Ariano fu anche il suo predecessore alla cattedra episcopale milanese, Aussenzio.
A decidere della sua elevazione a quell’importantissimo incarico sarebbe stato il grido di un bambino, che in una riunione popolare avrebbe invocato «Ambrogio vescovo!», suscitando un immediato entusiasmo popolare in quella che Cardini definisce una evidente «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un genere di «spontaneità popolare accuratamente pilotata». Dietro la quale è ancora ben riconoscibile la regia di Probo. In ogni caso, a seguito di quell’acclamazione, Ambrogio si fece battezzare, divenne vescovo (con qualche irregolarità formale) e non tardò a liberarsi dell’ingombrante appoggio del suo potente protettore.
Da quel momento comparve al suo fianco il presbitero Simpliciano, fedele di Atanasio, che gli fu accanto tutta la vita e, nonostante avesse venti anni più di lui, gli sopravvisse. Per un breve periodo ci fu anche suo fratello Satiro, che Cardini sospetta nutrisse simpatie ariane. Quanto a lui, nel 376, in contrasto con l’imperatrice Giustina, si oppose all’elezione a Sirmio di un vescovo seguace di Ario e dal 378 iniziarono a comparire spunti anti-ariani nelle sue omelie. Giusto in tempo per essere in sintonia con l’editto di Tessalonica (380), con il quale l’imperatore d’Oriente, Teodosio, impose «a tutti i popoli a noi soggetti» la disciplina apostolica e la dottrina evangelica del credo «nell’unica divinità» di Padre, Figlio e Spirito Santo. Sicché Teodosio, secondo Franco Cardini, «ben più adeguatamente di Costantino, può essere considerato il vero fondatore dell’impero romano-cristiano».
Comunque la partita religiosa si riaprì nel 386, quando Giustina impose un decreto per la libertà di culto che consentiva agli ariani di pretendere una basilica in cui poter celebrare il rito. Ambrogio si oppose con forza e una folla («spontaneamente convocata», ironizza Cardini) scese in piazza a spalleggiare il vescovo, creando «una situazione al limite della legalità». La «contesa delle basiliche» andò avanti per settimane, incrinò il rapporto di Giustina con il proprio figlio Valentiniano, si concluse con il trionfo di Ambrogio e la sconfitta della libertà di professare religioni diverse da quella stabilita al Concilio di Nicea.
Il vescovo di Milano, una volta piegata la corona d’Occidente, si dedicò a sottomettere quella d’Oriente. Vale a dire Teodosio. Una prima volta, nel corso di una cerimonia religiosa, il vescovo invitò l’imperatore a lasciare il presbiterio e ad andarsi a sedere, sia pure in prima fila, tra i fedeli. Quasi esplicito il significato, sotto il profilo simbolico, di questo gesto. Ma l’occasione decisiva si presentò, dopo una serie di piccoli e grandi sgarbi da parte dell’autorità religiosa nei confronti di quella imperiale, con l’orrenda vicenda del tempio di Callinicum (l’odierna Raqqa). Lì un gruppo di cristiani aveva date alle fiamme una sinagoga, l’imperatore li aveva condannati a risarcire la comunità ebraica: Ambrogio impose a Teodosio di revocare quell’ingiunzione.
Poi, nel 390, ci fu la strage di Tessalonica. Un auriga dei giochi circensi era stato imprigionato per «comportamento immorale». I suoi tifosi avevano reagito aggredendo a sassate un funzionario imperiale, Buterico, che era stato ucciso e trascinato per le vie della città greca. Teodosio giudicò sospetta quell’esplosione di rabbia e accondiscese alla richiesta dei militari di reprimere con violenza (migliaia di morti) i rivoltosi. Ambrogio ne approfittò per umiliare una seconda volta Teodosio, chiedendogli un pubblico pentimento per l’eccidio. L’imperatore provò a resistere, ma poi decise di sottomettersi all’ingiunzione. Secondo la ricostruzione di Paolino, Teodosio «pianse pubblicamente nella Chiesa il suo peccato… con lamenti e lacrime invocò il perdono». Anche Agostino, nel De civitate Dei , ricorda la scena: Teodosio «fece penitenza con tale impegno» che tra i fedeli il «dolore nel vedere umiliata la maestà dell’imperatore» prevalse sullo sdegno per il ricordo della strage. Teodosio si accorse probabilmente di quel che era accaduto nel profondo e, per rimediare, si recò a Roma dove fu accolto da senatori e ottimati con feste che più o meno esplicitamente rendevano omaggio agli antichi culti pagani.
Tuttavia l’episodio dell’imperatore «penitente per imposizione di un vescovo», osserva l’autore, fece scalpore in tutta l’ecumene romana: era la prima volta che «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono». Ambrogio approfittò di quell’atto di sottomissione per riprendere e condurre a compimento «il progetto di delegittimazione totale e irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto l’impero». Fu lui ad ispirare l’editto del 391 che vietava qualunque forma di ossequio alle divinità «gentili» nella città di Roma e prevedeva pesanti sanzioni per i funzionari inadempienti. Era la «totale palinodia» rispetto al comportamento tenuto e alle misure adottate dall’imperatore un po’ meno di due anni prima nel corso della menzionata visita a Roma. Da quel momento fino alla morte, nel 397, Ambrogio esercitò una sorta di «dittatura» sottile sul potere imperiale d’Oriente e d’Occidente. Anche a costo di lasciarsi andare ad imprudenze, di commettere errori, e di fare scelte in contraddizione con i suoi principi. Ma la sua missione era compiuta.
I l suo lascito fu inequivocabile. Dal momento che il sovrano era stato per lui non al di sopra, bensì all’interno della Chiesa, ne discendeva che risultava subordinato all’autorità ecclesiale. In tal senso, Ambrogio si pone alla base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio», ha configurato una ben delineata tradizione. Tradizione «che in ambito cattolico — una volta battute le eresie e isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non conformisti” medievali — solo il conciliarismo quattrocentesco, in una certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di papa Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».
Un messaggio venuto da lontano, radicato nella certezza che «il liberare e il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di qualunque autorità terrena — ben al di là se non al contrario di quanto Gesù dichiara esplicitamente a Pilato — sarebbe stata condizione necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene». E sappiamo, aggiunge Cardini, che «l’intera storia della Chiesa dimostra l’opposto». Dopo Ambrogio, la Chiesa romana divenne potente «con la forza di una mirabile espansione intellettuale e missionaria, ma anche con l’inflessibilità e l’intransigenza della fedeltà a un disegno egemonico affermatosi poi tra l’XI e il XVI secolo attraverso la rimozione delle istanze provenienti dal mondo greco, da quello orientale, da quello vario, insidioso e imprevedibile delle eresie, da quello musulmano (pensiero filosofico-scientifico a parte), salvo dover poi subire i contraccolpi degli scismi, della Riforma protestante, dell’offensiva razionalistico-scientifica».
Traendo ispirazioni e suggestioni da Francesco d’Assisi, Nicola Cusano ed Erasmo da Rotterdam, Cardini si chiede se, «astraendo dal modello e dal magistero ambrosiani la Chiesa sarebbe mai giunta a dover concepire i tribunali inquisitoriali, ad affrontare scismi e riforme, a subire lo “strappo culturale” della “modernità” con il relativo processo di secolarizzazione». Dubbi e rilievi che, come è evidente, vanno ben al di là della figura storica di Ambrogio.

Corriere 26.4.16
Intrighi e delitti in Vaticano: indaga Sigmund Freud
di Roberta Scorranese

In una Roma profumata e calda di inizio Novecento, un giallo scuote i palazzi del Vaticano: una guardia svizzera si lancia dalla finestra. È abbracciato a una florida cameriera. La stanza da cui si getta è quella di un cardinale. Il colto e ironico papa Leone XIII sente che sta per morire e di tutto ha bisogno tranne che di un successore dai facili costumi. Che fare? I Savoia, da poco vincitori sui destini del Paese, non aspettano che un clamoroso scandalo ecclesiastico sul quale consolidare il potere. Una speranza forse c’è: perché non chiamare quel medico di Vienna che sta diventando famoso per le sue bizzarre terapie sull’inconscio, nonostante il disprezzo di parte della cultura accademica? E così il Papa incarica Sigmund Freud di svolgere una singolare indagine: psicanalizzare alcuni «papabili» in odor di malefatte e scoprire chi escludere dalla successione al soglio pontificio.
Non sta in piedi, certo. Ma è questo il bello dei libri di Carlo A. (A. sta per Adolfo) Martigli: nitida fiction innestata in un rigoroso e dettagliato contesto storico-simbolico. Così, in La scelta di Sigmund , l’ultimo romanzo (che sancisce il passaggio a Mondadori, dopo diversi anni al gruppo Gems), lo scrittore nato a Pisa nel 1951 tenta un azzardo forse maggiore rispetto all’ Eretico e alla Congiura dei potenti , nei quali Ferruccio e Paolo de Mola, discendenti dei Templari, indagavano nelle pieghe della storia ai tempi di Savonarola e di Lutero. Lì infatti il giallo storico si innervava in un universo esoterico riconoscibile e letterario, dalla massoneria all’alchimia, passando per quel prodigio di scienza e intuito che fu Pico della Mirandola. Qui è tutto molto più complesso, poiché il terreno narrativo sul quale si muove la vicenda è franabile e rischioso: la psicoanalisi.
Come giustamente faceva notare Antonino Ferro in un bel saggio pubblicato anni fa da Raffaello Cortina, Psicoanalisi in giallo (per inciso: volume in cui si analizzavano i metodi del commissario Montalbano come del tenente Colombo in modo serissimo), se è vero che lo psicoanalista e l’investigatore muovono dalla stessa domanda, cioè «di chi è la colpa?», è anche vero che l’esito sarà diverso. Perché il detective arriva alla verità (almeno quella giudiziaria), mentre lo psicanalista, al massimo, può arrivare a una interpretazione. Martigli risolve così il nodo letterario: anche qui, come avveniva nei gialli esoterici precedenti, l’investigatore (Freud in persona) non arriverà mai a una certezza assoluta, come in un giallo classico, ma la verità resterà sempre al di sopra, accessibile solo a pochissimi iniziati. La psicoanalisi, insomma, si riannoda all’occulto e il cerchio romanzesco si chiude. Il resto è — piacevole — racconto.
C’è la ricostruzione (molto ben fatta) della Roma dell’epoca, comprese certe sottigliezze come le vetture che strombazzano ad ogni vicolo, perché nel 1903 le prime macchine erano viste come demoni meccanici e se ne aveva paura; ci sono i dettagli della personalità di Sigmund Freud, che visse Roma come una lunga autoanalisi, evitandola per anni finché cedette e se ne innamorò; c’è un ritratto affettuoso di Angelo Roncalli, all’epoca un semplice novizio ma già splendente di rettitudine e onestà contadina.
C’è infine la nostra storia che, nel bene e nel male, da sempre ruota intorno a quel piccolo Stato lambito dal Tevere.

Repubblica 26.4.16
L’umanità immortale di Shakespeare
risponde Corrado Augias

CARO AUGIAS, guardo l’espressione di Shakespeare su una vecchia incisione. Lo immagino seduto sull’impiantito del Globe, gambe penzoloni dal palcoscenico e penna d’oca in mano, infervorato a scrivere versi in un pomeriggio d’estate. Di fronte a lui rumoreggia il pubblico più umile, assiepato in piedi sotto il palco per una commedia dopo aver messo un penny nella scatola all’ingresso. Molti bevono dalle fiaschette di whisky, alcuni tagliano formaggi e mangiano, ruttando in libertà. Uno urina tranquillo contro il legno del palcoscenico mentre ride con un amico, due ubriaconi fanno goffamente a pugni, e un ragazzo nei pressi bacia con trasporto una giovane cercando di infilarle una mano nella scollatura. Shakespeare sbircia, e intanto scrive. Se presti attenzione, in qualche pausa del vociare e del tramestio percepisci il grattare nervoso della lunga penna bianca sul foglio. Tanta la foga di scrivere e al contempo di curiosare a destra e a manca, che William rovescia il calamaio; il suo contenuto cola giù, tinge di nero il legno del palcoscenico e l’alone ancora caldo della pisciata dello spettatore. Riposa da 400 anni, William, ma non è mai morto.
Teresio Asola

HA CERTO ragione il signor Asola ma perché Shakespeare non è mai morto? Si può rispondere in vari modi, ne ho scelto uno semplice: perché nessuno come lui ha saputo descrivere la complessità dell’animo umano, la variabilità ed estensione delle emozioni, la compresenza in ognuno di noi di elementi commoventi, nobili, addirittura sublimi con altri spregevoli che si alternano nell’arco della vita o di una stessa giornata. Shakespeare è il numero uno della letteratura mondiale certo per il talento ma anche per l’assoluta libertà dello sguardo che né una fede religiosa né il rispetto umano hanno mai limitato. Perfino Dostoevskij, tra i pochi che possano essergli affiancati, ha una visione meno ampia per le circostanze tragiche della sua vita e per la malattia che lo affliggeva. Ha giovato all’altezza della creazione anche la relativa monotonia della sua esistenza – per quanto ne sappiamo – un po’ come sarebbe accaduto a Immanuel Kant, anche se la vita nell’Inghilterra di Shakespeare era certo molto più agitata che a Königsberg. La sua visione della politica dà rappresentazione plastica alle teorie di Machiavelli. Shakespeare illustra la necessaria crudeltà che accompagna l’esercizio del potere, gli strumenti obliqui per conseguirlo, l’arte dell’inganno e della dissimulazione. In “Amleto”, forse il più noto dei suoi drammi, sono chiaramente machiavellici sia il protagonista sia Claudio il re usurpatore. Riccardo III è un infaticabile, spietato, tessitore di trame. Lo è anche Bruto nel “Giulio Cesare” ma per ragioni diverse che ne fanno un eroe, l’uomo che compie il male in vista di un interesse e bene superiori. Quindi non solo un “traditore della maestà terrena” come invece lo vede Dante. Nella visione dei protestanti inglesi Machiavelli incarnava la corruzione dell’Italia cattolica e della Chiesa. Shakespeare si sbarazzò anche di questo luogo comune affiancando il suo genio a quello del segretario fiorentino.

La Stampa 26.4.16
Che cosa resterà di noi se Hawking ha ragione
Da Israele l’annuncio: abbiamo dimostrato la sua teoria dei buchi neri. E ora il Nobel sembra più vicino
di Giovanni Bignami

Niente è eterno, neanche i buchi neri in giro per l’Universo. Almeno così disse, 42 anni fa, Stephen Hawking, il genio inglese della fisica inchiodato su una sedia a rotelle. Sembrava una affermazione indimostrabile sperimentalmente, e invece forse (forse!) una dimostrazione è stata trovata, rifacendo un buco nero (finto) in laboratorio al Technion di Haifa, in Israele.
Naturalmente Stephen, che ha un’alta opinione di sé, dice che adesso gli tocca il premio Nobel, perché la sua previsione teorica sarebbe stata confermata. In fondo Higgs aspettò 49 anni da quando immaginò il suo bosone a quando il Cern gli disse che c’era davvero. Vedremo cosa decideranno a Stoccolma, ma forse ci vorrà ancora un po’ di tempo.
Sempre meno, però, di quello per avere una prova naturale in cielo: un buco nero stellare ci può mettere anche 10 alla 67 anni ad evaporare da solo (ricordiamo che l’Universo è nato poco più di 10 alla 10 anni fa…).
È difficile capire come possa evaporare un buco nero. Anche perché ci hanno insegnato che un buco nero è un grande aspirapolvere cosmico, che inghiotte tutto ciò che passa troppo vicino al suo orizzonte, e da cui non dovrebbe uscire niente, neanche la luce (e infatti è nero). Ma nel 1974 Hawking immaginò che se una coppia particella-antiparticella fosse creata molto vicino a quel fatale orizzonte, una sarebbe scomparsa dentro, ma l’altra avrebbe potuto sfuggire. Nascerebbe così la “radiazione di Hawking”, l’unica cosa in grado di sfuggire a un buco nero.
Anche se poco alla volta, un buco nero finirebbe per evaporare, vomitando fuori, pian piano, attraverso la radiazione di Hawking, anche la massa di tutte le stelle che aveva inghiottito nella sua lunga vita. Naturalmente, per la evaporazione completa bisogna che il buco nero non trovi più niente da mangiare in giro nello spazio, e si capisce quindi che il tutto richieda un tempo molto maggiore dell’età dell’Universo.
Facile no? Non so, certo sembrava una teoria elegante ma impossibile da dimostrare, anche avendo a disposizione tutto il cielo. Osservare la evaporazione “naturale” di un vero buco nero è oggi impossibile, perché la quantità di energia nella radiazione di Hawking, istante per istante, è piccolissima, invisibile ai nostri strumenti. Trovare una dimostrazione in laboratorio sembrava altrettanto difficile, neanche immaginando di usare il Cern per fare dei micro- buchi-neri.
Adesso quelli del Technion dicono di aver costruito un finto buco nero, raffreddando elio liquido fino a un niente sopra lo zero assoluto e facendolo girare vorticosamente su se stesso per creargli intorno una barriera insuperabile. E dicono di aver visto qualcosa superare la barriera, come ci si aspetta dalla radiazione di Hawking. Non tutti sono d’accordo, specie in un laboratorio concorrente, dove creano un “buco nero” facendo girare vorticosamente dell’acqua… Il fascino culturale del risultato di Haifa, ancora difficile da capire e quindi da accettare, è nelle sue conseguenze filosofiche (se fosse vero). Se tutto quello che un buco nero ha mangiato evaporasse in radiazione, si spezzerebbe il legame fisico tra passato e futuro. Si perderebbe anche quella informazione necessaria alle particelle subatomiche per costruire noi stessi e tutto il mondo in cui viviamo. Hawking, anzi, conclude: «Sarebbe anche la fine del determinismo, e non saremmo più sicuri di niente, neanche del nostro passato: i libri di storia e la nostra stessa memoria potrebbero essere una illusione ». Speriamo che abbia torto.

Repubblica 26.4.16
Il nuovo Kinsey. Il sesso secondo le donne
Oltre duemila americane. Messe a parlare di orgasmo e dintorni. Videointerviste e interattività touch per capire e spiegare le dinamiche del climax. Risultato: un quadro inedito dei desideri delle signore
di Elisa Manacorda

SFUGGENTE, MISTERIOSO, complesso, inafferrabile. In realtà l’orgasmo femminile, di questo parliamo, è soprattutto poco studiato. Non se ne conosce ancora la sua funzione evolutiva, ammesso che ve ne sia una. Si continua a dibattere sull’esistenza del punto G, il fantomatico “pulsante” del piacere. Si versano fiumi di inchiostro sulla differenza tra orgasmo vaginale e clitorideo. E però non esistono ricerche scientifiche su vasta scala che affrontino il tema del piacere sessuale femminile da un altro, e fondamentale, punto di vista. Ovvero: quali sono le tecniche migliori per ottenerlo? Certo, sull’argomento c’è una vastissima letteratura popolare, che descrive nei dettagli “tutti i modi per farle piacere”: ma si tratta generalmente di decaloghi scritti dagli uomini per gli uomini, incentrati sulla penetrazione e dove l’obiettivo è soprattutto il piacere del maschio.
Dall’altra parte dell’Atlantico, però, un team di studiose dell’Università dell’Indiana ha deciso che era ora di sollevare il velo sull’orgasmo femminile. Di trovare nuove parole per descriverlo, di analizzare e confrontare le tecniche più usate per raggiungerlo, e di condividere queste scoperte con tutte le persone (uomini e donne, single o in coppia, etero o omosessuali) interessate a saperne di più. Così, guidato da Debby Herbenick, ricercatrice all’Università dell’Indiana e al Kinsey Institute for Sex Research in Sex, Gender and Reproduction (sì, proprio quello del famigerato Rapporto Kinsey del 1953) il gruppo di ricerca ha condotto la più ampia indagine mai svolta sul piacere femminile e sui modi più diffusi per procurarselo. Si tratta dell’Omgynes Study of Women’s Sexual Pleasure: duemila donne di età compresa tra i 18 e i 90 anni hanno raccontato, spiegato, descritto nei dettagli i diversi modi in cui amano praticare il sesso, da sole o in compagnia. In primo luogo – spiegano le ricercatrici – abbiamo chiesto alle donne di raccontare la propria vita sessuale, cosa si aspettano durante il rapporto, come raggiungono l’orgasmo, quali tecniche usano più frequentemente in coppia o in solitudine, quali aspetti psicologici ritengono più importanti, cosa vorrebbero che il partner sapesse fare, cosa migliorerebbero della propria vita sessuale se potessero tornare giovani... e così via. A questa prima esplorazione ha fatto seguito una seconda indagine su un campione rappresentativo di oltre mille donne sul piacere sessuale. I risultati sono stati ora raccolti e pubblicati nel sito di Omgyes: 47 brevi videointerviste, e 11 video “touch” interattivi per dispositivi portatili, grazie ai quali esplorare la propria sessualità per tentativi ed errori, ricevendo feedback immediati dal sistema.
Il focus è sulle tecniche che danno più soddisfazione Insegnate con qualche click
Così si scopre che indipendentemente dall’età e dalla provenienza geografica, le donne utilizzano tecniche molto simili. «Noi – scrivono le ricercatrici - abbiamo individuato quelle che fanno davvero la differenza, e le abbiamo descritte con parole chiare, semplici, efficaci». Quello che manca al genere femminile, infatti, è anche un linguaggio esplicito ma non volgare per raccontare cosa si desidera dal partner o come si fa per raggiungere il piacere. Ecco allora l’”edging”, ovvero il mantenersi sul filo dell’eccitazione, interrompendo la masturbazione poco prima dell’orgasmo per poi ricominciare: lo praticano 6,5 donne su 10. C’è chi si concentra sul ritmo dei movimenti (8 donne su 10), chi preferisce l’”orbiting”, ovvero compie movimenti circolari (8 donne su 10), chi invece si concentra su una specifica parte del movimento (lo chiamano “accenting”, e lo fanno 4 donne su 10). Nuovi termini per descrivere e condividere esperienze antichissime.
«Non avere le parole giuste rende tutto più difficile: è come provare una nuova ricetta senza conoscere le dosi o i nomi degli ingredienti – dice Herbenick – o ordinare da un ricco menù dove i piatti hanno tutti lo stesso nome». Invece le parole sono importanti: le donne che sono in grado di parlare di ciò che rende il sesso piacevole vivono relazioni otto volte più soddisfacenti di quelle che non sanno come dirlo.

Repubblica 26.4.16
Scansare noia e autocompiacimento
Dialogare con il lettore e non farsi dominare dalla tecnica. I consigli di un maestro del genere noir
Una crime story funziona solo se è imperfetta
di Giancarlo De Cataldo

Il dibattito su chi si possa definire uno scrittore è aperto. Me ne accorgo, per esempio, ogni volta che presento uno dei miei libri in un ambiente universitario, sono gli incontri in cui si palesa in modo assolutamente manifesto una presunta dicotomia tra chi «è scrittore» e chi «racconta storie». Sono catalogato in questa seconda categoria, e la mia opera viene assimilata più a quella dello “storyteller” che non dello scrittore. Per quanto mi riguarda, la definizione non mi offende, non foss’altro perché mi trovo in ottima compagnia: si giudicarono nello stesso modo, un tempo, i miei amati Balzac e Dickens,
si scrisse che Tolstoj scriveva meglio di Dostoevskij, si accusò Hemingway di essere troppo popolare. E Hammett e Chandler e Simenon sono stati nobilitati soltanto in epoca recente, dopo intere esistenze trascorse sui banconi della letteratura «triviale ».
Ma in che cosa consiste, ammesso che esista, questa differenza che ad alcuni pare così netta? Potrei cavarmela affermando che è soltanto una questione di gusto personale, e in fondo di questo si tratta. Di valutazioni soggettive, oltretutto soggette al mutevole corso del tempo: autori un tempo affermati e osannati sono oggi dimenticati, e nessuno degli autori oggi affermati e osannati può essere sicuro di non incorrere, in futuro, nel medesimo oblio. Tuttavia, il tema merita un qualche approfondimento. Lo scrittore, in quanto autore, mi ha spiegato un eminente esponente della critica accademica, deve essere fondamentalmente noioso, non deve instaurare un dialogo con il lettore: il dialogo lo instaura con sé stesso e con la lingua, con la parola. Da questo tipo di autore il lettore non deve essere compiaciuto, ma sfidato; ed è il livello della sfida, consapevolmente accettato, che induce il lettore a scegliere uno scrittore.
Si tratta a mio parere di una posizione nobile e dignitosa. Non è la mia idea, comunque. Personalmente, ragiono da scrittore un po’ come ragionerei da lettore. Ho già detto di essere un divoratore compulsivo di libri. Devo aggiungere che, però, sono insofferente verso alcuni elementi nei quali mi capita, come lettore, di imbattermi. Mi limito a segnalare le due mie peggiori «bestie nere »: l’autocompiacimento e la noia. Per «autocompiacimento» intendo l’esasperata ricerca della
soi- disant perfezione stilistica allorché sia fine a sé stessa. Per intenderci: Gadda fu un fenomenale esploratore della parola, ma non troverete mai in un suo scritto un virtuosismo inerte e vacuo. L’autocompiacimento è ai miei occhi un vizio insostenibile che opprime troppi scrittori, compresi taluni fra i più amati e osannati. L’autocompiacimento è tipico dello scrittore che si ritiene perfetto, o che mira alla perfezione. È il trionfo della tecnica. Ma la scrittura non è solo tecnica. Nella mia visione delle cose, l’imperfezione aggiunge sempre qualcosa a un testo. E lascia libero il lettore di riempire di senso gli spazi bianchi, di individuare, secondo il proprio gusto, l’errore, e di correggerlo. Questa è la vera sfida. Lo scrittore perfetto è come il regista del quale si dice: «Gira bene ». Ma a me interessa che, oltre a girare bene, abbia anche qualcosa da dire, e che quel qualcosa parli alla mia mente e al mio cuore. Pasolini girò Accattone disponendo di nozioni basilari e approssimative sulla tecnica. E Accattone è un capolavoro.
Il mio maestro di critica letteraria si chiamava Giuseppe Petronio, era un signore di Napoli sui cui libri avevo studiato al liceo. Uno dei suoi testi si intitolava L’attività letteraria in Italia.
Ma perché «attività letteraria»? Perché c’era tutta la solita parte accademica, presente in ogni libro di testo, in cui si spiegava la grande, strategica importanza di Massimo Bontempelli o delle riviste La Voce o Lacerba, sulla formazione dello spirito nazionale nei primi vent’anni del Novecento. E poi c’era un breve paragrafo, «La fortuna dello scrittore», che sembrava dirmi: «Attenzione, De Cataldo o chi per te, perché quello che abbiamo appena visto lo dice l’Accademia, ma ora vai a guardare qui sotto cosa leggevano gli italiani in quel tempo... ». Ed erano Guido da Verona, Luciano Zuccoli, Pitigrilli, il postdannunzianesimo, eccetera. Cosa forma lo spirito di un popolo lettore, cos’è la letteratura e la vita nazionale, per dirla gramscianamente, cos’è la letteratura e la vita accademica, per dirla invece aulicamente e via discorrendo.
Petronio, il responsabile di queste epifanie critiche, mi si presentò a un convegno nel 2001, io trasecolai. Esordì: «So cosa stai pensando. Sì, sono ancora vivo». Aveva novant’anni e li portava benissimo, e mi aveva letto nel pensiero. Grande studioso di Ariosto, mi tenne un giorno una lezione sul concetto di ispirazione. «Tu credi», mi disse, «che per ognuno delle decine di migliaia di versi Ariosto sia stato baciato dall’ispirazione divina? L’avrà avuta venti volte l’ispirazione. Il resto era dura fatica, caro mio». Ebbene Petronio scrisse un saggio imprescindibile, che si intitola Il punto su: il romanzo poliziesco.
Qui Petronio enuclea alcune leggi universalmente valide del genere, come fosse un manuale aristotelico della letteratura popolare, e Petronio l’Aristotele della situazione. Colse un punto fondamentale per comprendere l’evoluzione del genere, dai grandi classici, Agatha Christie o Nero Wolfe, al contemporaneo. Sosteneva, Petronio, che nel giallo classico si segue lo schema delitto/investigazione/ risoluzione. Ma sin dai tempi dell’hard boiled, cioè da Hammett e Chandler, dunque dagli anni Trenta, questo schema viene messo in discussione. È la soluzione che viene meno, e la ragione storica sta nella sfiducia verso le «magnifiche sorti e progressive» che attendono l’umanità. Il giallo si trasforma lentamente, ma inesorabilmente, da giallo d’ordine, in cui i «buo- ni» rimettono a posto le cose, a giallo del disordine, in cui diviene più arduo ripristinare l’ordine compromesso da un crimine invasivo e diffuso. E Petronio citava, come esempio, il romanzo La promessa di Friedrich Dürrenmatt. È la storia di un poliziotto che dà la caccia a un serial killer e fallisce. Ma non perché il serial killer sia più abile di lui. Perché costui muore per un incidente. E dunque è il caso, conclude Petronio, a fornire, e nello stesso tempo a negare, la soluzione.
Fu lui a spiegarmi: «Guarda che in Italia c’è una legge: tu non puoi scrivere un bel romanzo poliziesco. Perché i critici ti taglieranno fuori uno dei due aggettivi: o bello o poliziesco. Vale per la fantascienza, vale per l’avventura, vale per la letteratura rosa e via dicendo». Un giudizio netto, a cui Petronio aggiunse però: «Ma è un’emerita asinata».
IL LIBRO Il testo di Giancarlo De Cataldo è tratto da un volume che da oggi sarà in libreria: Come si racconta una storia nera ( Rai- Eri, pagg. 80, euro 12)