Corriere 21.4.16
Le ragioni di un duello inevitabile
di Massimo Gaggi
Hillary
Clinton vince con ampio margine nel suo Stato e chiude, di fatto, la
partita per la «nomination» democratica. Le primarie di New York, mai
decisive dall’era di Franklin Delano Roosevelt, stavolta incoronano il
candidato progressista alla Casa Bianca. Bernie Sanders lamenta il
meccanismo penalizzante del voto, riservato ai democratici iscritti alle
liste elettorali, con gli indipendenti esclusi. Amarezza comprensibile,
ma questo risultato fa emergere una delle (varie) vulnerabilità del
senatore socialista del Vermont: un indipendente che ha indossato la
casacca democratica solo per partecipare alle presidenziali.
Il
voto di New York è un punto di svolta anche per i repubblicani: la
vittoria di Donald Trump era scontata e il miliardario, a differenza di
Hillary, probabilmente non arriverà al quorum necessario per garantirsi
la nomination. Ma lui nell’«Empire State» ha cambiato marcia su tre
fronti: intanto non solo ha vinto, ma ha stravinto conquistando 89 dei
95 delegati in palio. Inoltre Trump negli ultimi giorni ha cambiato tono
e linguaggio: forse vuole chiudere il «circo Barnum» degli insulti e
delle affermazioni mozzafiato, clamorose o agghiaccianti, che gli hanno
garantito l’attenzione continua dei «media», per darsi un’immagine più
presidenziale. Così ieri «lyin’ Ted» (Ted il bugiardo) è diventato «il
senatore Cruz».
T rump ha, infine, approfittato di giorni meno
tesi (qui giocava in casa) per riorganizzare la squadra elettorale
trasferendo la guida della campagna dall’irruento Corey Lewandowski allo
«stagionato» Paul Manafort: un super professionista della politica con
molto pelo sullo stomaco. Non è detto che queste correzioni di rotta
durino e abbiano successo: Trump è sempre imprevedibile e la scelta dei
mesi scorsi di straparlare, sicuramente studiata a tavolino, è, però,
conforme alla sua indole. Senza contare che i «nuovi repubblicani»
radicali che sono andati a votarlo pendono proprio dalla sua lingua di
carta vetrata. Quanto al team elettorale, voci anonime dall’interno
della campagna parlano di un clima da guerra civile con Lewandowski,
ridimensionato ma non esautorato, che tiene duro, mentre Manafort — uno
che in vita sua ha consigliato tre presidenti conservatori (Gerald Ford,
Ronald Reagan e Bush padre), ma anche Viktor Yanukovych, il presidente
filo-russo dell’Ucraina deposto in seguito alla «Orange revolution» —
già si comporta da padrone assoluto: piazza i suoi uomini nei centri
nevralgici e incalza il «campaign manager» uscente anche spulciando le
sue note spese.
Nè quello di ieri può essere considerato un knock
out definitivo per Cruz, arrivato qui da sicuro sconfitto, visto che si
era «suicidato» in anticipo coi suoi attacchi alla «cultura di New
York». Ma New York l’ha ripagato dandogli un misero 14% e zero delegati.
A questo punto il senatore del Texas è quasi matematicamente fuori
dalla gara per il quorum dei rappresentanti repubblicani: per farcela
dovrebbe conquistare 678 dei 734 delegati in palio nelle primarie delle
prossime settimane, lasciando a Trump solo le briciole. Impensabile. Gli
rimane, quindi, solo la guerra d’interdizione sperando che nemmeno
Trump tagli il traguardo dei 1237 delegati e che, quindi, quella di
Cleveland sia una convenzione «contestata», aperta a ogni sorpresa. È
questo lo scenario coltivato nelle settimane scorse dall’ establishment
repubblicano che teme di vedere il proprio partito smantellato dalla
leadership di un tycoon populista chiaramente pronto a gettare alle
ortiche gran parte del bagaglio ideologico del Grand Old Party.
I
sismografi repubblicani, però, indicano che, dopo la vittoria a valanga
di Trump a New York, molti oppositori del miliardario si stanno
chiedendo se, assente un candidato alternativo valido, sia davvero
possibile negargli la nomination senza traumi (o, peggio, rivolte)
qualora «the Donald» mancasse il quorum solo per qualche decina di
delegati. Quanto ai democratici, la prospettiva della prima donna
presidente è da ieri molto più concreta, mentre l’amarezza di Sanders è
temperata dal fatto che Bernie, partito dal 3% dei primi sondaggi è
riuscito non solo a insidiare la royal family della sinistra, ma anche a
spostare l’asse della politica americana.