Corriere 18.4.16
Scusa, cosa succede alla fine ?
Vidas,
l’associazione che assiste i malati terminali, ha raccolto le
testimonianze degli adolescenti sul tema della morte. La paura, il
silenzio dei genitori e le confidenze con i coetanei, le domande sul
dopo
di Paolo Di Stefano
«Rigore e fantasia». Su
questo binomio Giovanna Cavazzoni ha fondato, 34 anni fa, Vidas,
l’associazione di assistenza ai malati terminali. È stato un percorso
lungo, anche faticoso ma paradossalmente felice. «Far sì che fino
all’ultimo respiro sia vita»: non facile, ma possibile, se hai persone
pronte alla compassione totale e gratuita. «Il donarsi agli altri senza
nulla attendersi in cambio ci ritorna come la forma più evoluta di
felicità», ha detto il poeta Giovanni Raboni pensando all’impresa di
Vidas. Bisogna sapere parlare di vita e di morte. Affrontare il pensiero
della morte senza farne un tabù: ci vogliono «rigore e fantasia».
Comunicare questi concetti ai giovani e insieme ascoltarli, i giovani.
Saperli ascoltare. Solo allora ci si può stupire di certi pensieri che
affiorano dalle loro labbra. I dialoghi di Vidas con i giovani, a
partire dal 2010, nascono da qui: incontri con le scuole inferiori e
superiori sui temi della cura, della separazione, dei limiti, della
malattia, della fine, per smuovere le sensibilità e le coscienze. Le
testimonianze dei tredicenni e quattordicenni dell’istituto milanese
Majno, raccolte dagli psicologi e dagli assistenti sociali di Vidas,
sono state videoregistrate: fanno parte, dice Raffaella Gay,
dell’attività culturale dell’associazione, così come i tirocini della
scuola-lavoro nell’hospice avviati con tre scuole superiori milanesi.
La
morte dunque, per questi ragazzi, può essere tante cose, ovvie o
spiazzanti: il rimpianto per non aver passato abbastanza tempo con il
nonno malato («una lontananza mascherata da rispetto…»), «la fine di
un’esperienza di gioia e di sofferenza», «un passaggio molto curioso
perché nessuno sa cosa accade dopo», «il desiderio di vivere la vita nel
modo migliore», «il termine di un percorso», «il ricordo di un bagno
notturno in mare in cui non mi ritrovavo più», «una cosa che un po’
spaventa». Come si convive con questo pensiero? Con diversi gradi di
consapevolezza (o di rimozione): «non pensandoci», «vivendo come se non
si dovesse mai morire», «sapendo che c’è qualcuno che ti vuole bene»,
«pensando che si tratta di una cosa che accadrà in un futuro lontano»,
«sfruttando al meglio le possibilità della vita», «accontentandosi delle
piccole gioie», «vivendo ogni minuto come fosse l’ultimo», «accettando
l’idea», «sapendo che la vita non è una cosa scontata», «vivendo con
felicità».
E ci sono anche le riflessioni scritte di un istituto
superiore professionale milanese, che risalgono al 2011 e che possiamo
leggere solo oggi. Brevi pensieri appesi al ricordo di una zia morta di
cancro: «Pensavo a lei tutti i giorni, non riuscivo a dimenticarla».
Cosa si sente quando la morte è vicina? «Ho chiesto a mia nonna e mi ha
risposto: questo devi scoprirlo quando arriverai a una certa età». C’è
chi si domanda: «Perché ci hanno creati per farci stare bene/male?». C’è
chi vede nella morte il solo modo per godersi la vita e «apprezzare
meglio il tempo che viviamo e le persone che ci circondano». C’è chi la
identifica con l’oscurità e si chiede perché «Dio deve farci soffrire».
C’è chi è più combattivo: «Mi dicono che è il ciclo della vita, voglio
cambiarlo». C’è chi la annovera tra le fasi della vita, anche se «non si
è mai pronti per smettere di vivere». L’aggettivo più ricorrente è
anche il più semplice: «brutto». I sostantivi sono: «angoscia», «paura»,
«panico», «rabbia», «dolore». «Ingiustizia» soprattutto se avviene in
giovane età. Dio? Su trenta riflessioni, solo una parla di una «missione
che finisce in terra e di un’altra che comincia in cielo». Un’altra
parla di anima e di paradiso (minuscolo): «Lassù tutti ci rincontreremo
un giorno». C’è un pensiero solo apparentemente contorto: «Vuol dire
essere troppo perfetti per rimanere in questo brutto mondo». Dio semmai è
più un’idea di ribellione che di conforto. Pochi associano la morte con
un’immagine di serenità e di pace, mentre alcuni pensano che sia
necessaria «per fare spazio nel mondo ad altre persone». Il pensiero va
più a ciò che si lascia che a ciò che si trova, dopo. Eppure qualcuno si
chiede: «La paura del morire non è il morire stesso ma è il fatto di
andare in un posto completamente sconosciuto». E anche: «Tutto ciò che
ho coltivato e che ho costruito dove andrà a finire?». E gli altri? «La
morte è abbandonare le persone che ti vogliono bene». E in definitiva:
«Perché fare di tutto per avere successo e poi morire?».
E c’è una
quindicenne che la morte l’ha vista passare, all’età di quattro anni. O
meglio, non l’ha vista, ma l’ha patita. Una storia esemplare. Quando
sua sorella, incinta a 17 anni, si è ammalata di leucemia («non potevano
farle la chemio per via della bimba nel suo pancino»), i genitori
decisero di mandarla da una zia. Il tema comincia con il presente («la
sento ancora la notte quando mi accarezza i capelli»), ma i ricordi la
costringono a passare subito all’imperfetto: «L. mi portava all’asilo,
al parco, mi faceva il bagnetto… Lei era più presente di mia mamma che
doveva lavorare». S. non sa nulla di nulla, viene protetta, tenuta
all’oscuro: «Pensavo che ritornata a casa ritrovavo la mia bella
sorellona con i suoi capelli biondi e i suoi occhioni azzurri e il suo
pancino con cui parlavo». Viene richiamata a casa dopo un paio di mesi,
quando tutto si è compiuto («quando mia mamma si riprese»). «Dov’è la
L.?, dicevo… Piangevo. L.! L.! chiamavo. Ma lei non veniva… “È partita,
amore” mi dicevano… Io salutavo gli aerei che vedevo nel cielo sperando
che mia sorella mi vedeva!! Poi col passare del tempo ho capito! Alcune
volte sento il suo profumo. Mi vengono in mente ricordi… Quanto mi
manca! E io, io cosa dovrei pensare di questa fottuta morte? È ingiusta,
dico solo questo».
Caso esemplare. Ed è da qui che parte, dal
vuoto del tabù familiare, Gino Rebosio. È lo psicologo che segue gli
incontri con i ragazzi. Piccoli e grandi. Uno «psicologo che viene dai
matti», si definisce, avendo cominciato negli anni Sessanta, «quando i
manicomi erano manicomi» e avendo poi continuato con la cosiddetta
«psichiatria politica»: «Più si va in basso — dice — più è possibile
parlare di morte, più si sale con l’età e più diventa difficile: con i
genitori è difficilissimo, ma il problema vero è cercare, su questi
temi, un dialogo tra le generazioni». La solitudine dell’adolescente,
l’assenza di dialogo è l’argomento-chiave, una volta di più: «Ho
raccolto storie in cui i ragazzi riconducevano la malattia del nonno al
silenzio del contesto familiare, mentre loro sentivano il bisogno di un
chiarimento che avrebbe diminuito l’ansia su un dato di realtà come la
morte. Quando chiedevo: con chi ne parlavate?, rispondevano: con i
nostri amici. Il dialogo con i coetanei compensa la mancanza del dialogo
tra le generazioni». La differenza è tra spiegazione e condivisione:
«La morte non richiede una spiegazione, ma una condivisione, una
compartecipazione: la spiegazione, eventualmente, viene dopo, perché
quel che conta nell’immediato è il piano emozionale, affettivo, non
tanto quello cognitivo… Dunque, vado dal mio amico per vomitare il mio
star male. Oggi in noi adulti, se va bene, prevale la cultura della
spiegazione, dell’educazione, oppure la cultura del silenzio protettivo
se non dell’assenza».
Gino, che ha superato da un bel po’ i
settanta, racconta le sue estati in un paesino, sul Lago Maggiore, con
la bisnonna materna, le passeggiate per raggiungere il pollaio, la sosta
per il Requiem alla cappelletta votiva con i teschi in bella vista, il
casée , il prete, i due matti del paese, le visite ai morti: «La morte
per noi bambini era una cosa naturale, oggi si è patologizzata, un po’
come il parto. Quanti familiari di malati terminali che stanno in casa
mi chiamano per chiedere come comportarsi con i bambini: la tentazione è
sempre quella di allontanarli per non farli soffrire. Ma prima o poi
soffrono anche i ragazzini, è inutile fingere che la sofferenza nella
vita non esista: oggi c’è il tabù della morte esattamente come ai miei
tempi c’era il tabù del sesso. Noi da bambini giocavamo nella stessa
stanza in cui il nonno era a letto malato…». Rebosio si è laureato su
questi temi a Ginevra con Jean Piaget, maestro della psicologia dello
sviluppo, poi per vent’anni ha studiato il «processo a morire» con
Vidas. La sua allegria non sembra per nulla oscurata da questa
esperienza. Nessuno conosce come lui il rapporto dell’infanzia e
dell’adolescenza con la morte: «Fino ai 10-11 anni la perdita rimane
legata all’esperienza del cerchio familiare: è sentita come fine di riti
e di rapporti. Dopo viene coniugata in termini più astratti, quasi
filosofici. In tutti c’è la domanda su cosa viene dopo, per dare senso a
qualcosa di inevitabile che devi subire. Il fatto sorprendente è che
nei morenti tutto questo costrutto si perde e oltre alla paura c’è la
preoccupazione delle conseguenze: l’essere dimenticati. Una vecchina una
volta mi ha detto il suo desiderio». Qual era? «Mi ha detto: vorrei
essere sepolta dentro nei miei. Quella per lei era l’immortalità, non
morire nel ricordo dei suoi cari. L’altra preoccupazione è la
conflittualità, perché con la rabbia vieni espulso. Un anziano una volta
ha espresso ai due figli la sua unica volontà: chiedeva loro di andare a
mangiare tutti gli anni in un certo ristorante …».