domenica 17 aprile 2016

Corriere 17.4.16
Michele Ciliberto
Divisi già prima del fascismo. Le Italie di Croce e Gentile

Associare Benedetto Croce a Giovanni Gentile in una sola «enciclopedia» che ne ricostruisse l’opera, il pensiero e il ruolo nel loro tempo, poteva essere una molto buona o molto cattiva idea. Contro quel che di solito si pensa, la diversità tra i due non cominciò ai primi del 1925, quando Croce liquidò formalmente il loro rapporto, con una lettera memorabile, per i sopravvenuti dissensi sul fascismo. La rottura fu l’esito di una lunga e graduale accumulazione di divergenze di varia natura. I due amici le presero a lungo come divergenze soltanto teoriche, perché a lungo li unì in una grande e forte amicizia un ampio e comune impegno contro vari aspetti della vita culturale e civile dell’Italia dei primi decenni del Novecento. La rottura sul fascismo fu, quindi, solo la piena esplicitazione di una divergenza originaria.
Non vi fu mai davvero, perciò, una «Italia di Croce e di Gentile». Vi fu, invece, un’Italia di Croce, alla quale via via si affiancò un’Italia di Gentile, con fortune, peso e senso diversi nel corso del tempo, anche se ai loro confini quelle due Italie si sovrapponevano alquanto, per cui le loro zone di frontiera, a seconda dei tempi, e per varie ragioni (nobili e non), furono molto frequentate.
Alla prova dei fatti, nel volume della Treccani Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa , diretto da Michele Ciliberto, si può dire, però, che l’idea di una comune «enciclopedia» Croce-Gentile abbia superato il difficile collaudo. Ne è venuto fuori uno strumento di studio di ampia e sicura importanza per la cultura non solo italiana (e che, anche, risponde alla tradizione dell’editore, l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, alla cui origini fu Gentile).
Avendo più di una volta navigato per questi mari, so bene quanto sia difficile assicurare a opere con diecine e diecine di collaboratori una soglia critica ed esegetica al di sotto della quale non si scenda; e qui si è di certo al di sopra di una tale soglia. E so anche bene, per quanto riguarda la scelta o le proporzioni dei temi trattati, che la completezza enciclopedica è un’utopia, e non è sempre un’utopia feconda. Si sa (Croce insegna) che nei libri non si deve cercare ciò che non vi è, ma ciò che vi è, facendone tesoro o oggetto di critica. E quel che qui si trova è un impianto dell’opera chiaro nel suo procedere in ordine, in effetti, cronologico, e parallelamente per i due autori e per i loro rapporti, non seguiti solo nelle loro concluse individualità, bensì entro il tessuto vivo e attivo della cultura italiana ed europea del tempo.
Ciliberto spiega, nella prefazione del volume, che si è cercato al di là delle polemiche di un tempo, di registrare convergenze e divergenze fra Croce e Gentile col criterio sia di non inchiodarli alla formuletta di un neo-idealismo dottrinariamente definito, che non dice niente di loro; sia di non ritenerli espressioni provinciali italiane della cultura del secolo XX, di cui furono, anzi, espressioni di rilievo; sia di non investirli della infondata responsabilità di una deleteria egemonia sulla cultura italiana del loro tempo, che presenta ben altre circostanze e nodi storici.
È un criterio-guida sano, indubbiamente, al quale Ciliberto congiunge anche la questione della «nazionalità della filosofia», ravvisando nei due pensatori una sorta di epilogo della «tradizione italiana» a questo riguardo.
A volerlo, si può osservare che la dimensione filosofica è, sul piano del pensiero e dell’attività critica militante, alquanto più inclusiva per Gentile che per Croce. Il che va tenuto presente, perché è anche in ciò che si rivela la non risolta, perché non risolvibile, difficoltà di tenere unite le due personalità.
Abbiamo accennato che i conti fra Croce e Gentile furono cominciati, soprattutto a iniziativa del primo, molto presto (già intorno al 1908). Gennaro Sasso ne ha offerto qui, in alcune pagine fra le migliori dell’opera ( Dalla «concordia discors» alla polemica ), una sostanziale conferma. Sarebbe facile, e anche seducente, risolvere il problema di questa dualità col catulliano non poter stare l’uno né con, né senza l’altro, o con la nota clausola per cui, se si sta insieme, si cade insieme. Il problema è più complesso e impone riflessioni ulteriori.
Anche nella fortuna dei due autori fuori d’Italia vi sono differenze non trascurabili. Sia pure molto in sintesi, si constata qui che non vi fu un incontro del pensiero di Gentile con quello contemporaneo pari a quello che di certo vi fu, pur con ogni riserva o limitazione, nel caso di Croce; e il punto è così importante da far ritenere che bisognerà farne materia di uno studio più specifico e diffuso.
Già da queste osservazioni emerge, peraltro, il pregio di un’opera, che è un vero servigio reso alla cultura non solo italiana su punti difficili e tornanti decisivi del passato prossimo italiano ed europeo, di stringente attualità. Ne emerge un discreto, ma giusto restauro dell’immagine di un’Italia (duplice, ripetiamo, fra Croce e Gentile) assoggettata poi molto più a facili e supponenti recriminazioni e condanne che conosciuta e giudicata, anche per il presente, come occorreva. Un’Italia che, invece, come qui si vede, lavorò molto e seriamente, e che, in un mezzo secolo ricco di ombre e di luci, rivelò (in specie con Croce, io credo) una vitalità e una capacità creativa, la cui eredità vive al di là della sorte che è toccata o può toccare alla «tradizione italiana».