sabato 16 aprile 2016

Corriere 16.4.16
Poliziotti e carabinieri assolti per il caso Uva I parenti: «Maledetti»
«Il fatto non sussiste». Esultano gli imputati
La morte nel 2008 dopo l’arresto a Varese
di Roberto Rotondo

VARESE Quelle fotografie che mostrano i lividi sul cadavere di Giuseppe Uva non sono le prove di un pestaggio. Passate tante volte in televisione, hanno indignato una parte di opinione pubblica, ma sono state giudicate come ininfluenti dalla Corte di Assise di Varese, quando i giudici hanno appreso dai medici legali che si trattava solo di macchie ipostatiche, il sangue che si deposita verso il basso dopo qualche ora dalla morte in obitorio. È solo una delle prove mediatiche, che in aula i giudici di Varese hanno considerato senza fondamento.
Questo è quanto risulta dalla sentenza della Corte d’Assise sulla morte di Uva, dopo 4 ore di camera di consiglio. I sei poliziotti e i due carabinieri imputati sono stati assolti da tutte la accuse: omicidio preterintenzionale, abbandono di incapace, arresto illegale, abuso di autorità su arrestato. La corte li ha assolti per non aver commesso il fatto su tre capi di imputazione, tra cui l’omicidio preterintenzionale. Mentre ha riqualificato l’arresto illegale in sequestro di persona e li ha comunque assolti, distinguendo la posizione dei poliziotti («perché il fatto non sussiste») che arrivarono nella caserma dei carabinieri di Varese la notte del 14 giugno 2008 da quella dei due carabinieri («per non aver commesso il fatto») che prelevarono in piazza 24 maggio a Varese Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero mentre stavano compiendo dei vandalismi.
I veri accusatori sono stati gli avvocati di parte civile Fabio Ambrosetti, Alberto Zanzi e Fabio Matera. Il pm Daniela Borgonovo, come i predecessori Agostino Abate e Felice Isnardi, ha chiesto l’assoluzione per tutti gli imputati, concludendo che non vi fosse alcuna prova di pestaggio nei confronti di Uva. I giudici di Varese, tuttavia, hanno stabilito una sorta di record giudiziario: la pubblica accusa per tre volte ha chiesto l’assoluzione. E solo al terzo tentativo, il tribunale ha assecondato le richieste dei pm.
«Maledetti», ha urlato uscendo dall’aula una delle nipoti di Giuseppe. «Continueremo nella nostra battaglia e non ci fermeremo, se necessario andremo alla corte dei diritti dell’uomo a Bruxelles» ha affermato la sorella Lucia. «È andata come doveva andare — ha invece osservato uno degli imputati, il carabiniere Stefano Dal Bosco — noi quella sera facemmo solo il nostro dovere, non potevamo sapere che Giuseppe Uva avesse un problema al cuore e d’altronde non lo sapeva nemmeno lui».
La domanda che rimane, però, è come sia morto Giuseppe. I due processi finora celebrati hanno svelato che il decesso dell’operaio di 43 anni (portato nella caserma dei carabinieri di Varese per meno di due ore e successivamente in ospedale per il Tso) è stato causato da una malformazione cardiaca che nemmeno lui sapeva di avere: il prolasso della valvola mitrale. In prima battuta la procura aveva concluso che furono i medici dell’ospedale di Varese, con una serie di iniezioni, a uccidere Uva. I giudici però assolsero tutti, anche se una dottoressa ascoltata nell’ultimo processo è apparsa al pm Borgonovo un po’ reticente alle domande della Corte d’Assise.
Le successive accuse alle forze dell’ordine non hanno retto alle perizie e alla mancanza di testimoni credibili. Come Alberto Biggiogero, l’amico di Uva che in aula ha affermato tutto e il contrario di tutto, suscitando anche momenti di ilarità. Il senatore pd Luigi Manconi ha commentato: «Un processo condizionato da un’indagine condotta in maniera pedestre dal pubblico ministero Agostino Abate si è concluso com’era fatale che si concludesse».