Corriere 15.4.16
Le previsioni sul debito e i conti che non tornano
di Federico Fubini
Politicizzare
le statistiche è diventato così comune di questi tempi che ormai nessun
dato sembra neutro. Correzioni del secondo decimale dopo la virgola
trovano sempre qualcuno pronto a usarle per esaltare o stroncare un
premier o un banchiere centrale. Poco importa che nessuna istituzione in
Italia e all’estero in questi anni sia riuscita a evitare errori in
serie: ogni previsione sull’economia suona sempre come una sentenza
definitiva, fino alla prossima smentita.
Sarebbe più prudente
tenere a bada la tentazione di credere solo ai dati che confermano le
nostre speranze, o i nostri sospetti preferiti: non durano mai molto.
Anche così, mettere a confronto l’Italia vista dal governo con quella
che appare da fuori può aiutare, perché fa riflettere a quanto sia
incerta dietro i numeri la realtà del Paese.
Il Documento di
economia e finanza (Def) presentato una settimana fa prevede fra il 2015
e il 2016 un calo del deficit dal 2,6% al 2,3% del reddito nazionale
(Pil). La banca dati del Fondo monetario internazionale, pubblicata
questa settimana, indica invece un aumento (frazionale) del deficit dal
2,63% al 2,68%.
Il Def mostra nel 2016 un calo del debito dal
132,7% al 132,4% del Pil, per la prima volta da nove anni. Il Fondo
monetario internazionale presenta nelle sue previsioni ancora una volta
una valutazione diversa: un nuovo aumento del debito, dal 132,6
dell’anno scorso al 133% del reddito nazionale. L’impianto della finanza
pubblica italiana nel 2016 — calo del deficit e del debito che il
governo sta presentando a Bruxelles — non esce confermato dalla
valutazione degli economisti di Washington.
Non c’è ragione per
decidere a priori che questi ultimi abbiano visto giusto né per
escludere che, come rivendica legittimamente il ministro Pier Carlo
Padoan, le stime del Tesoro siano affidabili. Ci sono però molte ragioni
per porsi alcune domande in più sugli equilibri di fondo sui quali
poggia il Paese. Forse sarebbe meglio se tutti accettassero che esistono
variabili dell’economia italiana che non capiamo fino in fondo; ancora
meno le controlliamo, dunque è meglio mantenere dei margini per poter
gestire l’incertezza.
Non mancano altri indizi del fatto che
l’Italia avanzi nella sua ripresa senza poter sapere del tutto come
andrà. Per dirne una: il governo fonda la sua strategia sul calo della
spesa pubblica e del prelievo fiscale; la banca dati del Fmi prevede
invece che le entrate fiscali saliranno quest’anno di 12 miliardi
rispetto all’anno scorso e la spesa pubblica crescerà di 13,8 miliardi.
In termini reali, cioè tolti gli effetti dell’inflazione, il Fondo
monetario vede un calo della spesa di appena lo 0,02% del Pil e un calo
della pressione fiscale dello 0,08%. Non esattamente effetti
significativi per l’economia, almeno per quest’anno. Ancora meno lo è se
si tiene conto che gran parte di questa riduzione della spesa, in
rapporto al reddito nazionale, è prodotta in realtà dalla caduta degli
interessi sul debito pubblico: un dono della Banca centrale europea, che
quest’ultima potrebbe ritirare se e quando l’inflazione risalirà.
Proprio
ieri ha pubblicato nuovi dati anche l’Ocse, l’organismo di Parigi che
riunisce e studia una trentina di democrazie avanzate nel mondo. Il suo
centro studi presenta valutazioni che, ancora una volta, non confermano
quelle del governo italiano. Quest’ultimo giustamente ha fatto del
taglio del cuneo fiscale sul lavoro — la differenza fra i compensi lordi
e quelli netti — uno dei suoi grandi obiettivi; gli sgravi triennali
del 2015 sui contributi ai nuovi assunti a tempo indeterminato vanno in
questa direzione.
L’Ocse però la vede diversamente: stima che nel
2015 il cuneo fiscale medio «per lavoratore single senza figli» sia
salito dal 48,2% al 49% del reddito, prima delle tasse.
Tutte le
aliquote sono rimaste invariate, spiega l’esperto fiscale dell’Ocse
David Bradbury; tuttavia quella che di per sé è una buona notizia,
l’aumento medio dei redditi dell’uno per certo, fa sì che la proporzione
di prelievi in tasse e contributi sia anch’essa salita.
Non
finisce qua, naturalmente. Le misure annunciate dal governo per i
prossimi anni sono tali da far convergere (in meglio) le stime dell’Ocse
e del Fmi con le proprie.
Per adesso però l’intera massa di
numeri sull’economia italiana ci ricordano soprattutto che aveva ragione
Socrate: grazie ad essi sappiamo di non sapere.
Guidiamo, inevitabilmente, nella nebbia. Meglio farlo con cautela.