Corriere 12.4.16
Le spine (e la rosa)
di Michele Ainis
Chi
l’avrebbe detto? Un Parlamento espresso con una legge elettorale (il
Porcellum ) annullata poi dalla Consulta; sbucato dalle urne senza una
maggioranza chiara, anzi con tre grandi minoranze (Pd, FI, 5 Stelle)
armate l’una contro l’altra; lì per lì incapace perfino d’eleggere il
capo dello Stato, tanto da confermare l’uscente (Napolitano), episodio
senza precedenti, prima di eleggere Mattarella; ecco, quelle Camere
impotenti timbrano la riforma più potente, consegnando agli italiani una
Costituzione tutta nuova.
Sicché adesso tocca a noi, ci tocca la
parola. Ma è una parola secca: sì o no, prendere o lasciare. Per non
sprecare quel monosillabo dovremmo ragionarci sopra, dovremmo soppesare
la riforma, senza furori ideologici, senza tifo di partito. Al
referendum vince o perde l’Italia, non Matteo Renzi. La Costituzione gli
sopravvivrà, a lui come a noi tutti. Dunque la scelta investe il nostro
destino collettivo, non le fortune di un leader. E dietro l’angolo non
c’è affatto il rischio d’un ducetto; semmai rischiamo un’altra
Caporetto. Perché le istituzioni repubblicane, dopo settant’anni
d’onorata carriera, hanno vari acciacchi sul groppone; la cura
ri-costituente può guarirle, ma può altresì accopparle.
Sarebbe
stato giusto concederci l’opportunità di rifiutare o d’approvare questa
riforma per singoli capitoli, nei suoi diversi aspetti. Non è così, il
nostro è un voto in blocco: se vuoi la rosa, devi prenderti le spine.
Ciò tuttavia non cancella l’esigenza d’esaminare il testo «nel
dettaglio», come auspica un folto gruppo di costituzionalisti su
Federalismi.it .
Scorporando le questioni, magari in ultimo
potremmo stilare una pagella, mettendo su ogni voce un segno meno o più.
Se le promozioni superano le bocciature, voteremo sì; altrimenti
bocceremo tutta la riforma. Se invece la somma è pari a zero, significa
che non è cambiato nulla. In Italia succede di sovente.
Ma intanto
ecco l’elenco degli esami. Primo: il potere. La riforma lo concentra,
lo riunifica. Una sola Camera politica (l’altra è una suocera: elargisce
consigli non richiesti). Un governo più stabile e più forte, senza la
fossa dei leoni del Senato, che ha divorato Prodi e masticato tutti i
suoi epigoni, nessuno escluso. E uno Stato solitario al centro della
scena. Via le Province, pace all’anima loro. Via le Regioni, cui la
riforma toglie di bocca il pasto servito nel 2001, sequestrandone
funzioni e competenze: dal federalismo al solipsismo. Perciò il
decisionista Carl Schmitt voterebbe questo testo, l’autonomista Carlo
Cattaneo lo disapproverebbe. Voi da che parte state?
Secondo:
l’efficienza. Una maggior concentrazione del potere dovrebbe
assicurarla, però non è detto, dipende dalle complicazioni della
semplificazione. L’ iter legis , per esempio: qui danno le carte
soltanto i deputati, tuttavia il Senato può emendare, la Camera a sua
volta può respingere a maggioranza semplice, ma talora a maggioranza
assoluta. Mentre rimangono pur sempre 22 categorie di leggi bicamerali.
Insomma, dalla teoria alla prassi il principio efficientista rischia di
rivelarsi inefficiente. E voi, siete teorici o pragmatici?
Terzo:
le garanzie. Nessuno dei 47 articoli nuovi di zecca sega le attribuzioni
dei garanti: la magistratura, la Consulta, il capo dello Stato. Ma sta
di fatto che quest’ultimo dimagrisce quando mette pancia il presidente
del Consiglio, giacché in una Costituzione tout se tient . Con un’unica
Camera dominata da un unico partito (per effetto dell’ Italicum ), addio
ai governi del presidente, quali furono gli esecutivi Dini, Monti,
Letta. Ma addio anche al potere di sciogliere anzitempo il Parlamento:
di fatto, sarà il leader politico a decretare vita e morte della
legislatura. E addio alla garanzia del bicameralismo paritario, che a
suo tempo bloccò varie leggi ad personam cucinate da Berlusconi. In
compenso la riforma pone un argine ai decreti del governo, promette lo
statuto delle opposizioni, aggiunge il ricorso preventivo alla Consulta
sulle leggi elettorali. Ma il compenso compensa lo scompenso?
Quarto:
la partecipazione. Quali strumenti di decisione e di controllo restano
in tasca ai cittadini? E quanto sarà facile tirarli fuori dalla tasca?
Intanto aumenta la fatica di raccogliere le firme: da 50 a 150 mila per
l’iniziativa legislativa popolare; da 500 a 800 mila per il referendum
abrogativo, in cambio dell’abbassamento del quorum. Però i regolamenti
parlamentari dovranno garantire tempi certi per i progetti popolari,
però s’annunziano altre due tipologie di referendum (propositivo e
d’indirizzo). Peccato che la volta scorsa ci sia toccato pazientare 22
anni (la legge sui referendum è del 1970). Dunque è questione
d’ottimismo, di fiducia. E voi, siete ottimisti o pessimisti?