Corriere 115.5.16
Quel dovere nella Carta
di Michele Ainis
E
tu, ci andrai a votare? In ogni referendum la domanda che martella gli
italiani è sempre questa: non più come votare, bensì piuttosto se
votare, se aggiungersi al popolo del quorum.Succederà pure domenica,
nella consultazione sulle trivelle in mare; e alla chiusura dei seggi
conosceremo immediatamente il risultato, perché ormai conta l’affluenza,
non già la preferenza.Diciamolo: è una deriva ingannevole, sleale.
Approfitta
della quota d’astensionismo fisiologico per sabotare il referendum,
sommando agli indifferenti i contrari, mentre i favorevoli non hanno
modo di moltiplicare il «sì», mica possono votare per due volte. Dunque
l’appello all’astensione è un espediente, se non proprio un trucco, come
affermò Norberto Bobbio nel 1990.
Un tempo, durante la gioventù
della Repubblica, la sfida si giocava in campo aperto. Nel primo
referendum della nostra storia – quello sul divorzio, nel 1974 — le
truppe di Fanfani e di Pannella si contarono alle urne, non davanti alla
tv; e infatti andò a votare l’87,7% degli elettori. Percentuali intorno
all’80% segnarono altre consultazioni degli anni Settanta e Ottanta: il
finanziamento ai partiti, l’aborto, l’ergastolo, la scala mobile. E in
molteplici occasioni i referendum vennero respinti con un voto — libero,
esplicito, diretto.
Dopo di che s’ingrossa la slavina. Tutti i
partiti, nessuno escluso, hanno invitato gli elettori a disertare le
cabine elettorali, in questa o in quell’altra occasione. Talvolta l’ha
fatto anche la Chiesa: celebre l’appello del cardinal Ruini, al
referendum del 2005 sulla fecondazione assistita. Non meno celebre
l’«andate al mare» di Craxi, al referendum del 1991 sulla preferenza
unica. Nel primo caso l’appello fu raccolto, nel secondo no. Ma al di là
dei suoi esiti alterni, questa strategia un risultato complessivo l’ha
prodotto, depotenziando il referendum. Tanto che la riforma
costituzionale corregge al ribasso il quorum (se il referendum è
sostenuto da 800 mila firme), anche per ostacolare la reiterazione del
giochino astensionista.
Ecco perché si rivelano fallaci le
critiche al presidente della Consulta, Paolo Grossi. Ha detto: il voto è
un dovere, esprime la pienezza della cittadinanza. E che altro avrebbe
dovuto dire? Che il referendum è uno spreco di tempo, che l’elettore
virtuoso coincide con il non elettore, che le sole urne democratiche
sono le urne cinerarie? I guardiani della Costituzione non possono
ignorare le sue norme più pregnanti: il voto è un «dovere civico»,
recita l’articolo 48. E nei doveri costituzionali risuona il timbro
etico della nostra Carta, vi si riflette la lezione di Mazzini. Difatti
il presidente Mattarella ha già fatto sapere che lui, sì, andrà a
votare.
Poi, certo, il voto è anche un diritto. E ciascuno resta
libero d’esercitare o meno i diritti che ha ricevuto in sorte. Tanto più
quando s’annunzia un referendum, la cui validità è legata al quorum. Ma
questo vale per i cittadini, non per quanti abbiano responsabilità
istituzionali. Loro sono come i professori durante una lezione: non
possono dire tutto ciò che gli passa per la testa, perché hanno un
ascendente sugli allievi, e non devono mai usarlo per condizionarne le
opinioni. Come scrisse Max Weber, la cattedra non è per i demagoghi, né
per i profeti. Anche perché i profeti dell’astensionismo, nel nostro
ordinamento, rischiano perfino la galera, secondo l’articolo 98 del
testo unico delle leggi elettorali per la Camera, cui rinvia la legge
che disciplina i referendum. Norme eccessive, di cui faremmo meglio a
sbarazzarci. Ma c’è anche un equivoco da cui dobbiamo liberarci: sul
piano dell’etica costituzionale, se non anche sul piano del diritto,
l’astensione ai referendum è lecita soltanto quando l’elettore giudichi
il quesito inconsistente, irrilevante. Altrimenti è un sotterfugio.