sabato 19 marzo 2016

Corriere 19 Marzo, 2016
Capire il bisogno di avere un figlio
di Massimo Ammaniti

È un interrogativo impossibile quello che pone Claudio Magris in un suo recente articolo: può ogni desiderio trasformarsi in un diritto. La società umana, come ha mostrato Sigmund Freud nel suo libro Il disagio della civiltà , per sopravvivere deve necessariamente reprimere i desideri e i piaceri individuali e piegarli al principio di realtà, anche se nel corso del tempo il rapporto fra desideri individuali e repressione necessaria si è profondamente modificato. Nella società viennese dei tempi di Freud le ragazze, ad esempio, venivano scoraggiate a proseguire negli studi e addirittura venivano avviate a scuole particolari, in cui le attività domestiche avevano un peso preponderante. Da allora il mondo è profondamente cambiato, i giovani, oggi, hanno difficoltà ad accettare il linguaggio del dovere e ricercano piuttosto nella loro vita la felicità personale, parola che non apparteneva al lessico delle passate generazioni.
Quando Freud parla di desideri si riferisce fondamentalmente a quelli che scaturiscono dal mondo inconscio, mentre Magris si riferisce piuttosto al desiderio cosciente di avere dei figli che vale sia per le coppie eterosessuali che per quelle omosessuali. Quando in passato non si potevano avere dei figli si accettava in modo rassegnato che «il Signore non li avesse mandati».
Ma anche in questo campo la naturalità della procreazione è profondamente cambiata con l’avvento delle recenti tecniche di fecondazione assistita, che hanno infranto vecchie convinzioni e tabù. La sterilità non rappresenta più un ostacolo alla procreazione, come anche la conclusione del ciclo fertile fino ad arrivare all’utilizzo sicuramente problematico delle gravidanze surrogate. Quando si invoca la procreazione naturale si dimentica che la condizione umana si è profondamente modificata con le nuove tecnologie mediche che hanno cambiato il modo in cui avviene la procreazione, come anche la gravidanza e il parto. Questo non vuole significare rassegnarsi al dominio delle tecnologie, che possono diventare pervasive e addirittura negative, come succede ad esempio con l’abuso delle ecografie in gravidanza oppure con l’eccessivo ricorso ai parti cesarei per evitare il travaglio del parto.
Ma il desiderio di un figlio ha un significato molto diverso, non rappresenta solo il compiacimento narcisistico di allevare un bambino o una bambina, che proseguirà la propria vita realizzando i propri sogni irrealizzati, è profondamente radicato nella propria storia personale, addirittura nell’evoluzione della specie umana. Basta vedere una coppia che si affanna per avere un figlio con le tecniche della fecondazione assistita, cercare un centro specializzato, fino a poco tempo fa all’estero, iniziare e ripetere pratiche mediche pesanti, affrontare le ripetute delusioni quando la fecondazione fallisce oppure l’apprensione quando inizia la gravidanza, se potrà andare avanti e con quale risultato. Non si tratta di un desiderio momentaneo, non è come andare al supermercato, è piuttosto un percorso doloroso e travagliato giustificato dal profondo desiderio di avere un figlio che verrà a completare la propria identità personale. E non si riferisce solo a un desiderio personale o di coppia, è addirittura radicato nel cervello umano perché, come ha mostrato la ricerca neurobiologica, esiste un circuito cerebrale che sostiene le capacità di prendersi cura e di sintonizzarsi emotivamente col proprio figlio, come viene documentato, ad esempio, nel libro americano The mommy brain (Il cervello materno) di Katherine Ellison. Questo circuito cerebrale, che si attiva non solo nelle madri ma anche nei padri, ha permesso alla specie umana di sopravvivere nel corso di centinaia e centinaia di secoli, proteggendo i propri piccoli di fronte ai pericoli e ai predatori che ne potevano minacciare la sopravvivenza. Anche sul piano metabolico un neuro-ormone, l’ossitocina, interviene nel favorire i comportamenti di caregiving , ossia i comportamenti genitoriali di cura.
Per ritornare alla personalità umana esistono diverse motivazioni che orientano la vita emozionale e psichica fin dalla nascita. In primo luogo, come ha mostrato la ricerca recente, la motivazione del bambino a legarsi ai genitori e agli adulti che si occupano di loro, in modo da regolare la propria sicurezza soprattutto nei momenti di difficoltà. I comportamenti delle figure di attaccamento vengono fatti propri da ogni bambino, ossia assimilati attraverso identificazioni multiple, che influenzeranno i modelli genitoriali quando diventerà adulto. Sottolineo questo per dire che le capacità genitoriali sono legate alle esperienze che si sono avute con i propri genitori o con le persone che si sono occupate di noi, indipendentemente dal genere e dal sesso, perché è stata rilevante la disponibilità affettiva e la sensibilità che hanno mostrato.
Entrando ora in merito al tema più controverso della filiazione nelle coppie omosessuali, ugualmente nei gay si attiva il sistema motivazionale di caregiving genitoriale, che si è sedimentato nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza nel rapporto coi genitori. Pertanto il desiderio di un figlio rappresenta un bisogno insopprimibile, che addirittura ha spinto in passato i gay a costruire relazioni di coppia tradizionale per soddisfare questo desiderio. In altri termini la maturazione della personalità implica la realizzazione di sé come genitore, indipendentemente dalla propria identità di genere. Questo è stato confermato dalla ricercatrice israeliana Ruth Feldman che ha messo in luce, oltre alle capacità di caregiving dei genitori gay, anche l’attivazione nel loro cervello della corteccia orbito-frontale che interviene nei comportamenti di cura dei figli.
Se il desiderio delle coppie omosessuali è così radicato nella storia umana si traduce inevitabilmente nel diritto a diventare genitore e che si intreccia col diritto del bambino ad essere allevato e curato da genitori sensibili e protettivi. D’altra parte è impossibile scindere il diritto del bambino da quello dei genitori, come concluse lo psicoanalista inglese John Bowlby nel 1950, in una monografia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulle cure parentali, «se vuoi aiutare i bambini devi in primo luogo aiutare i genitori» .