«Rifletto come potenziale acquirente, a partire dalla mia condizione
di forza in quel mercato così innaturale della vita. Possiamo affidarci
esclusivamente al principio di autodeterminazione? Dobbiamo regolare
l’attività riproduttiva come un’ordinaria attività produttiva? Il nodo è
intricato. Ma la mia mia risposta, qui e ora, è no»
il manifesto 5.3.16
Fassina: Perché dico no all’autodeterminazione senza limiti
di Stefano Fassina
Ringrazio
Bia Sarasini per l’invito, che mi rivolge da queste pagine, alla
discussione sulla complessa questione della “gestazione per altri”,
della “maternità surrogata”, dell'”utero in affitto”, nel variegato
lessico partigiano di ciascuna e ciascuno.
La ringrazio anche per
il tono delle sue riflessioni. Discutiamo di una questione generale,
astratta dall’affetto per Nichi Vendola, relativa tanto all’universo
etero quanto all’universo omosessuale. Anzi, i dati indicano, relativa
soprattutto al primo.
Ricordiamolo per non cadere nella trappola tesa dai nostri avversari davanti alla stepchild adoption.
Nel
merito, confesso di non ritrovare nell’oggetto del suo commento le mie
parole all’Avvenire. Mi attribuisce, forse per riflesso condizionato da
antico confronto con le posizioni prevalenti nel Pci, una
contrapposizione novecentesca «tra lavoro e mondo dei diritti
individuali». Nell’intervista sostengo esattamente l’opposto: «Per ogni
uomo e donna i diritti sono un continuum. I diritti civili vanno insieme
ai diritti economici, sociali e politici». Dov’è la contrapposizione o
la gerarchia? È l’unicità dei diritti che mi porta a sostenere che «non
si può essere favorevoli al neo-umanesimo sul terreno del lavoro, del
welfare, dell’ecologia e poi accettare il paradigma dell’individualismo
liberista sul terreno dei diritti civili». La contrapposizione
post-sessantottina la vedo qui.
Nell’intervista sostengo, senza
nascondermi per ossequio alla sede, la stepchild adoption. Poi, mi
concentro su chi “compra”. Parto da me, maschio, occidentale,
acculturato, benestante, di sinistra, potenziale compratore. Provo a
discutere su un piano etico.
Bia Sarasini riconduce il mio
discorso a un approccio proibizionista. Allora le chiedo: ogni
regolazione pubblica delle relazioni tra persone o tra la persona e la
natura di cui siamo parte è proibizionismo? È riduttivo per intensità
etica, ma prendiamo il rapporto persona-lavoro. È proibizionismo una
norma che nel mercato del lavoro vieta di impiegare il corpo di un uomo o
di una donna oltre un certo orario giornaliero? Nella logica della
autodeterminazione, lasciamo a ogni persona la disponibilità del proprio
corpo nella relazione produttiva con l’altro o l’altra? Anche per lei,
sono sicuro, la risposta è no.
Perché nelle relazioni tra due
persone nel mercato del lavoro vi è un’ ampia differenza di potere.
Perché i rapporti di forza sono strutturalmente asimmetrici tra chi
vende e chi compra forza lavoro. Certo, vi può essere chi lavora nella
logica del dono. Ma allora siamo fuori dalla realtà di mercato.
La
tecnologia ha spalancato le porte al potere economico nella dimensione
della riproduzione in un quadro economico e sociale segnato da enormi
disuguaglianze e diffuse povertà, dove i rapporti di forza tra le
persone sono drammaticamente squilibrati.
Consapevole della mia
parzialità, senza verità assolute da somministrare, guardo anche io, con
i miei occhi, alla realtà: alla donna, alla vita che nasce, al legame
di maternità in divenire nella gestazione.
Rifletto come
potenziale acquirente, a partire dalla mia condizione di forza in quel
mercato così innaturale della vita. Possiamo affidarci esclusivamente al
principio di autodeterminazione? Dobbiamo regolare l’attività
riproduttiva come un’ordinaria attività produttiva? Il nodo è intricato.
Ma la mia mia risposta, qui e ora, è no.
Noi, la sinistra,
possiamo avere senso storico e politico fuori da un umanesimo integrale?
Possiamo accettare che non vi siano limiti invalicabili
all’individualismo proprietario nel mercato della riproduzione?