il manifesto 4.3.16
Un eretico della globalizzazione
Addio
a Marcello De Cecco: è morto a 77 anni lo studioso degli squilibri dei
vari capitalismi. Il suo «Money and Empire» analizzò i rapporti tra
moneta e potere, senza astrattismi
di Emiliano Brancaccio
L’economista
Marcello De Cecco è morto ieri, a Roma. Nato a Lanciano nel 1939, ha
insegnato in vari atenei italiani ed esteri, tra cui Norwich, Siena, la
Scuola Normale di Pisa e la Luiss di Roma. Raffinato interprete della
storia della moneta e della finanza, De Cecco conquistò uno spazio nella
ricerca accademica internazionale per i suoi contributi alla
comprensione del funzionamento del «gold standard», il sistema aureo
vigente fino alla prima guerra mondiale. Il suo Money and Empire,
pubblicato nel 1974 da Basil Blackwell, è considerato un esempio di
analisi storico-critica dei rapporti tra moneta e potere economico,
fondata su un’interpretazione rigorosa delle fonti documentali ed
espressamente scettica verso ogni tentativo di esaminare le relazioni
economiche internazionali in base a teoremi astratti e
decontestualizzati.
In quest’ottica De Cecco ha avanzato spesso
obiezioni verso la tradizione di pensiero economico dominante,
sostenitrice dei cosiddetti «meccanismi di aggiustamento automatico»,
secondo i quali le forze spontanee del mercato dovrebbero essere in
grado di garantire l’equilibrio degli scambi commerciali e finanziari
tra i diversi paesi. Per gli esponenti di questa visione, il
funzionamento del gold standard era garantito dal meccanismo spontaneo
secondo cui, per esempio, l’eccesso di importazioni di un paese avrebbe
dato luogo a un deflusso d’oro tale da generare un calo di domanda
interna e quindi dei prezzi nazionali, con conseguente aumento della
competitività e riequilibrio tra import ed export.
Tale
meccanismo, per De Cecco, in realtà non ha mai avuto rilevanza concreta.
A suo avviso, piuttosto, le relazioni economiche tra paesi sono
strutturate su basi perennemente squilibrate, imperialistiche,
condizionate dalle scelte politiche e finanziarie dei governi e
dipendenti in ultima istanza dai rapporti di forza tra capitalismi
nazionali. In questo senso De Cecco ha suggerito che il gold standard
prebellico poté sopravvivere solo fino a quando l’Impero britannico fu
in grado di imporre uno specifico regime di governo coloniale dei flussi
finanziari internazionali, in base al quale l’India avrebbe dovuto
assorbire i titoli del debito emessi dalla Gran Bretagna per coprire il
proprio disavanzo estero.
Una concezione basata su meccanismi di
aggiustamento automatico è stata, in fin dei conti, anche alla base
della fiducia con cui molti economisti accolsero la nascita della moneta
unica europea. Questa visione semplicistica, potremmo dire «idraulica»,
del funzionamento dell’Unione monetaria europea, è sempre stata
criticata da De Cecco, il quale anche al caso dell’euro ha applicato i
suoi complessi schemi di lettura storica dei rapporti economici
internazionali. In particolare, egli ha più volte segnalato che la
tendenza della Germania ad accumulare surplus commerciali verso l’estero
genera il paradosso di un paese egemone che, anziché svolgere il ruolo
tradizionale di creatore e diffusore della moneta all’interno del
sistema che esso domina, tende piuttosto a risucchiarla presso di sé:
una contraddizione che non ha precedenti nella storia dei regimi
monetari, e che pregiudica la sostenibilità futura del processo di
unificazione europea.
I dubbi manifesti sull’efficacia dei
meccanismi di aggiustamento automatico interni all’Unione monetaria non
hanno tuttavia mai indotto De Cecco a contestare il progetto europeo.
Membro del consiglio degli esperti economici dei governi Prodi e D’Alema
negli anni Novanta, tra i fondatori del Partito Democratico nel 2007,
De Cecco ha condiviso fino in fondo il percorso politico che ha legato i
destini della sinistra di governo italiana alle speranze di successo
dell’integrazione europea. Anche quando nel 2010 fu tra i firmatari di
una lettera di trecento economisti che evocava la possibilità di una
rottura dell’eurozona, in privato De Cecco contestò ai suoi promotori,
tra cui il sottoscritto, una frase finale del documento che
esplicitamente contemplava una opzione politica di uscita di uno o più
paesi dalla moneta unica.
La sua estrema sfiducia verso un’opzione
del genere era fondata sul timore che un abbandono dell’euro sfociasse
semplicemente in un mero deprezzamento del cambio, magari lasciato alle
forze erratiche del mercato: una soluzione che a suo avviso avrebbe solo
favorito quegli spezzoni di piccolo capitalismo, arretrato e talvolta
parassitario, sui quali non riteneva possibile fondare alcuna reale
speranza di sviluppo economico ed emancipazione civile del paese.
Tale
conclusione, tuttavia, non colloca l’economista di origine abruzzese
tra i rassegnati alle lacrime e al sangue dell’attuale processo di
integrazione europea. Sia pure con discrezione e senza clamori, Marcello
De Cecco ha sempre portato avanti, in accademia e in campo divulgativo,
una tesi assolutamente eretica e controcorrente: vale a dire l’idea di
avviare una riflessione critica sugli effetti della indiscriminata
apertura ai movimenti internazionali di capitali e di merci, e di
immaginare delle ipotesi di ripristino di forme coordinate di controllo
degli scambi tra paesi.
Nella introduzione al suo ultimo libro,
nel 2013, egli giunse a scrivere che l’aver screditato e messo da parte
per più di un cinquantennio soluzioni come il protezionismo e la
regolamentazione degli scambi «come se si trattasse di pulsioni
peccaminose e indegne di una nuova e superiore organizzazione
internazionale, è stato colpevole e persino stupido, perché in forma
blanda esse dovevano rimanere in voga» mentre oggi ci si ritrova a
ripristinarle «velocemente e in dosi assai maggiori, senza usufruire dei
vantaggi che sarebbero derivati da dosi moderate, e correndo in pieno
il pericolo di precipitare il mondo intero in un nuovo disordine
internazionale» (Ma che cos’è questa crisi, Donzelli). La sgradevole
sensazione di trovarsi in un periodo di profondo riflusso verso il
nazionalismo e il razzismo come eterogenesi dei fini del globalismo e
dell’europeismo acritico degli anni passati.
Uno spunto su cui sarebbe utile riflettere, specie a sinistra.