il manifesto 5.3.16
Stampa e Repubblica, concentrazione fuori legge
Riunioni
di redazione. Il tetto previsto è del 20%, l’operazione Fiat-De
Benedetti arriva al 23%. Nemmeno Berlusconi, che sognava il Corriere
della Sera, c’era riuscito. L’Agcom deve intervenire
di Vincenzo Vita
Se
è ancora attuale lo stato di diritto e se – come temono politologi
illustri – non è ancora tornato in auge il libro della giungla, allora
la concentrazione in un’unica compagine con La Stampa, Il Secolo XIX e
il gruppo Espresso-Repubblica non si può fare.
Supera, infatti, il
limite del 20% (con circa il 23%) della tiratura complessiva previsto
dall’articolo 3 della legge 67 del 1987, che a sua volta riprendeva i
tetti della riforma-madre dell’editoria: la legge 416 del 1981, di fatto
l’unico testo antitrust in vigore, dato che la vicenda radiotelevisiva è
finita nel tragicomico meccanismo di rilevazione del Sic
(l’incalcolabile sistema integrato delle comunicazioni).
Quella
piccola regola è resistita persino all’era berlusconiana, essendosi
interessato l’ex cavaliere solo al tema degli incroci tra stampa e
televisione. Quando sognava il Corriere della Sera e chissà se ora la
tentazione non gli stia tornando, visto che il blasonato giornale
milanese sembra adesso un orfanello.
Ecco, allora, la prima
urgenza. Le autorità competenti, a partire dall’Agcom che ha diretta
titolarità nella tutela del pluralismo, devono intervenire ad horas.
Altrimenti ci arrabbiamo, come il noto film. Se no, che ci stanno a
fare? Diversi dei commenti sul groviglio societario di questi giorni
hanno messo in secondo piano il banale rispetto della già debole
previsione dei nostri codici.
E’ interessante, certo, buttare la
palla nell’altissima tribuna dei mutamenti socio-antropologici.
Tuttavia, se con la macchina superi la velocità consentita, il vigile ti
fa la multa e non serve parlargli del tempo digitale. Atti necessari,
non discrezionali. Vedremo a che punto di cottura sta la vicenda
italiana.
Veniamo alla sostanza. La società Itedi è incorporata da
quella di De Benedetti. La Exor dell’erede Agnelli John Elkann avrà, a
partire dal 2017, una quota minore nella nuova holding come pure Carlo
Perrone, mentre la Fca di Marchionne annuncia l’uscita da Rcs
Mediagroup.
L’abbandono dell’editoria da parte della Fiat viene
stigmatizzato con parole assai nette dal comitato di redazione del
Corriere della Sera: «Finita la stagione dei dividendi, ora che lo
sfascio finanziario è compiuto, e che il Corriere è lanciato in un
progetto editoriale coraggioso….la famiglia Agnelli saluta e se ne va a
rafforzare il principale concorrente». Come ampiamente riportato da il
manifesto. E sì, perché nelle rudi determinazioni di Marchionne non c’è
spazio per i giornali, figli di un’altra epoca.
La carta stampata è
stata decisiva nella formazione del clima d’opinione favorevole alla
stagione della grande manifattura fordista, costituendone anzi un punto
di qualità. Tant’è che i “Comprati e venduti” raccontati dal primo
Giampaolo Pansa erano dentro gli ingranaggi del potere, costituendone
l’avamposto e l’altoparlante colto.
Il libro uscì nel 1977, e
infatti l’intero decennio successivo fu segnato dalla concentrazione,
nei giornali e –prepotentemente- nella televisione commerciale. Era la
fase ancora ascendente del settore, prima che l’ingresso della rete e le
culture di Internet cominciassero a cambiare l’ordine degli addendi.
Allora ci si concentrava per aumentare il potere tra i poteri, mentre
nella stagione attuale ci si concentra per non perderne troppo. Di un
potere via via reso pallido dagli eventi mediatici e senza molte
prospettive per il futuro.
Hanno ragione le organizzazioni
sindacali e la federazione della stampa a chiedere immediati confronti
sulle previsioni occupazionali. Prima che le crepe diventino una frana
incontenibile. Insomma, trust difensivi, improbabili trincee contro i
“barbari” dell’on line. Peccato che non si tratti di accidenti
transeunti, essendo blog e testate digitali l’avamposto del capitalismo
cognitivo: il nuovo impero dell’accumulazione.
Purtroppo ciò
avviene non sotto l’egida dello spirito del progresso, bensì nella più
cupa parabola dell’oligopolio in salsa liberista. Ma questa è la realtà e
si darebbe l’ultimo colpo alla pur nobilissima carta stampata se si
eludessero –esorcizzandoli- i nodi brutali che stanno venendo al
pettine.
Gli avvenimenti in corso non sono la mera espressione di
una crisi limitata, bensì l’anticipazione di una tendenza fortissima se
non inesorabile.
Sarebbe cosa buona e giusta occuparsene
seriamente, magari attraverso un appuntamento di concreta riflessione,
“Stati generali dell’editoria“, come fu fatto in Francia qualche anno or
sono. O almeno come sta avvenendo nel dibattito avviato da alcune delle
principali testate in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. Insomma, se è
vero come diceva Keynes che nel lungo periodo saremo tutti morti, si
concepisca un attento governo della fase di transizione, affinché il
definitivo sbarco sulle rive del continente digitale non divenga una
pura conta dei morti e dei feriti.
E’ il caso di parlare di
intervento pubblico? Certo che sì, ma nel senso dello “stato innovatore”
di Mariana Mazzucato, non nella versione antica dell’assistenzialismo. O
si pensa davvero al quotidiano unico della nazione? Del resto, persino
simbolicamente, il Corsera è il sintomo della salute della borghesia
italiana.
Se l’azionariato così indebolito non troverà forza e
soluzioni, l’effetto domino diverrà veloce e incalzante. E con le
telecomunicazioni che non parlano quasi più in italiano, la Rai nel
limbo e l’industria culturale debole o pure concentrata con
“Mondazzoli”, il crepuscolo si avvicina.
Per commentare con il
sonoro il terribile film in corso è appropriata, dunque, la messa da
requiem, non la cavalcata delle valchirie. Peccato mortale.
Lo
stesso nonno Agnelli ne avrebbe sofferto. Per non dire di Carlo
Caracciolo. O di Mario Lenzi, che si inventò il mosaico locale. O di
Giovannini. O di Murialdi. Proprio per questo, almeno si seguano le
regole e si difendano i diritti.
Non ci si illuda: nella giungla ci sono i giganti veri.