il manifesto 5.3.16
L’erba voglio di un dissidente e le sue profetiche diagnosi
«L'attualità inattuale di Elvio Fachinelli», il saggio curato da Lea Melandri per le edizioni ipoc press
di Alessandra Pigliaru
È
un volume importante quello curato da Lea Melandri e dedicato a
L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli (ipoc press, pp. 142, euro
16). Non solo per il tenore rigoroso e appassionato dei saggi di Manuela
Fraire, Ambrogio Cozzi, Fabio Fiorelli, Romano Màdera, Nicole Janigro,
Antonio Prete, Antonello Sciacchitano e della stessa Melandri;
l’efficacia e la solidità del testo, apparecchiato per lo studio e
l’approfondimento e con una bibliografia più che eccellente e completa,
risiedono nel dare conto di un percorso più lungo, complesso che porta a
una chiarificazione di alcuni passaggi capitali del pensiero e
dell’opera di un intellettuale dissidente, eccentrico e articolato come
Fachinelli. L’avvio è certamente dettato dal desiderio di Lea Melandri
che negli anni non solo ha condiviso con Fachinelli gioie e dolori di
molte iniziative politiche – tra le quali la più nota è l’esperienza
della rivista L’erba voglio (animata dal 1971 al 1977) – ma ne ha sempre
sottolineato il portato teorico e politico imprescindibile,
partecipando a incontri pubblici e, tra le ultime imprese, al numero
monografico che aut aut ha preparato su Elvio Fachinelli. Un freudiano
di giudizio (352/2011), piuttosto articolato e utile per leggere anche
alcuni materiali già introvabili cinque anni fa. Fuori commercio perché
depositati in sedi difficili da consultare, si trattava in quel caso di
comporre una piccola mappa che fornisse un vademecum sui primi e
necessari scritti dell’autore trentino.
Nel crocevia tra
psicoanalisi e pratica politica, Melandri dettaglia ora e con maggiore
agio l’elemento di novità – sia nel linguaggio sia nel metodo: questioni
entrambe che in Fachinelli ben si attagliano al partire da sé, in
questo con un punto di congiunzione con quanto negli anni Settanta le
donne già praticavano. Nella cifra di autenticità posseduta da
Fachinelli, Melandri individua infatti alcune zone tematiche da
perlustrare con dedizione e rinnovata cura per un percorso niente
affatto scontato e che, se facilmente può essere ascrivibile allo
sconquasso giovanile e imprudente respirato tra gli anni ’60 e ’70, in
Fachinelli assume delle punte di originali dirompenze, risacche tutte da
sondare, «un procedere per oltrepassamenti, riprese e salti, svolte,
illuminazioni improvvise». Ed è su queste ultime, miste a quella
«attualità inattuale» riportata nel titolo del volume, che si
concentrano i saggi quasi tutti affidati a psicologi e psicoanalisti che
dunque ne osservano la conseguenza o nel lavoro specificamente
terapeutico o nella teoresi ma pur sempre a esso legata. In ogni caso si
tratta di un approccio che fuoriesce dal mero omaggio tra addetti ai
lavori e si dipana in un’interrogazione profonda rispetto la
trasformazione – che ha subito nei decenni attraversati da Fachinelli
cadute e riprese – della pratica analitica. Fin dal suo Il bambino dalle
uova d’oro (1974) affronta la «nexologia umana», nominando la potenza
del nexus – ovvero l’intreccio, il legame – in cui a essere implicato
come interlocutore è il corpo.
Ciò che riesce da subito a
individuare Fachinelli è dunque un grado di complessità delle relazioni
intersoggettive, delle stesse esistenze particolari che si fanno carico
di un lavoro su di sé, difficile da rappresentare se non nella figura di
qualcosa che sta in rapporto e che al contempo ne determina il
groviglio inscindibile. In questa direzione desiderio e felicità
diventano, come suggerisce la stessa Melandri nella preziosa prefazione
al volume, temi utili alla comprensione e cifra del suo tragitto di
ricerca e di impegno politico. Nel superamento di ogni dualismo e
dicotomia, così come nel riconoscimento di un solco di costante
discussione tra le vaste e imprendibili temporalità che ci abitano, la
riflessione di Fachinelli deve essere considerata come il frutto maturo
di una «ricerca unitaria» che ha tessuto le linee dell’insubordinazione,
sia all’altezza delle letture critiche rivolte a Freud sia
dell’orizzonte pratico e politico entro cui poteva essere decifrato il
presente. Nella medesima direzione è da considerarsi la riflessione sul
tempo, sia quello dilatato dell’analisi – su cui si sofferma il
contributo di Fabio Fiorelli a partire dal lavoro di Fachinelli inserito
in Claustrofilia (1983) – sia quello puntiforme della quotidianità.
Le
declinazioni del tempo, rintracciabili fin da La freccia ferma. Tre
tentativi di annullare il tempo (1979) ma rinvenibili anche
successivamente in brevi e fulminanti contributi; alcuni di essi sono
comparsi nei Quaderni piacentini come per esempio «Quando Benjamin non
ebbe più nulla da dire» (1981) che è al centro dell’intervento di
Manuela Fraire, nella distinzione tra «attuale» e «profetico». Sempre
sullo scritto del 1981 si sofferma anche Antonio Prete che,
nell’incedere tra esperienza privata e politica del proprio passaggio
attraverso il ’68, percorre la lezione di Fachinelli intorno alla sua
passione critica per i testi e i nuovi nessi che ne possono nascere.
Interessante a tal proposito ciò che Benjamin gli suggerisce, e che
Prete sottolinea, nella somiglianza tra una delle protagoniste delle
Affinità elettive e alcune posture del movimento: «per una particolare
congiuntura storica il ’68 fu una figura adolescente, indecisa, staccata
o renitente rispetto alla realtà produttiva dei Paesi d’Occidente. Come
l’Ottilia goethiana, questa generazione colpì per una sorta di bellezza
essenziale, fine a se stessa, non di altro preoccupata che di se
stessa. Come Ottilia, come Benjamin, il ’68 cadde vittima di forze
distruttive che aveva in sé, che non riuscì a dominare, che piegarono le
sue esili spalle di adolescente». In questa somiglianza che non deve
apparire bislacca vi è invece l’intuizione originale di un dispiegarsi
di scacco e speranza, seguendo fedelmente ciò che è il confine fragile e
vulnerabile di un momento paradigmatico e irripetibile.
Contro
l’ortodossia sia analitica che politica, è da leggersi anche la
definizione che Fachinelli offre di estasi, o meglio il tratto che porta
«dal movimento all’estasi» – così nel titolo di una intervista che
rilasciata a Elisabetta Rasy nel 1989 – anno in cui viene dato alle
stampe il suo noto La mente estatica. Con un certo acume, Lea Melandri
individua in questo dilatarsi dello sguardo, nella «esperienza a cui
partecipa tutto il corpo» non è poi così distante da ciò che aveva da
dire Marx rispetto la molteplicità di manifestazioni delle vite umane:
«ho imparato a vivere il discontinuo, a non pretendere passaggi di
sicurezza là dove non ce ne sono, o perlomeno là dove non ne conosco.
Forse meglio dire: sopportare l’angoscia. Meglio ancora: sopportare la
solitudine».