Repubblica Salute 29.3.16
Pet therapy.
Conigli, somarelli, gatti: basta accarezzarli per far abbassare la pressione Gli animali diventano attori nelle cure. Ed è boom
Con il malato facci parlare il cavallo
ELVIRA NASELLI
LA
SINTESI perfetta l’hanno fatta i francesi, coniando il termine
“mediazione animale”. Perché è questo che fanno cani, gatti, cavalli o
asini. Mediano con i bambini autistici, con quelli ricoverati in
ospedale per lunghi cicli di chemioterapia, con gli anziani che non
riescono più a camminare o a muovere gli arti, con i non vedenti, con i
bambini che perdono il senso dell’orientamento e non sanno tornare a
casa, con i disabili fisici e psichici. I cani aprono le porte e
recuperano oggetti, aiutano a vestirsi e svestirsi, sostengono un
bambino con difficoltà di lettura standogli seduti accanto, con lo
sguardo fisso sulle pagine di un libro. Tutte attività che il nostro
ordinamento differenzia con sigle diverse, ma che hanno però un
denominatore comune: la presenza di un animale, che diventa anche lui un
po’ medico e aiuta gli esseri umani a venir fuori dalle loro prigioni,
fisiche e psicologiche.
Quella che – con un termine che tutti gli
operatori definiscono desueto – si chiamava pet therapy, e rendeva però
bene l’idea. «Con gli animali si fanno interventi terapeutici – premette
Sabrina Artale, medico, istruttore cinofilo e presidente Aieccs onlus –
ma anche attività sociali e ricreative ad anziani, detenuti, bambini.
Lavoriamo nelle scuole contro il bullismo e ovviamente nell’ambito delle
cure vere e proprie».
Ci sono i bambini che hanno difficoltà a
parlare e che – imparando a dire “seduto” al cane, che esegue –
cominciano a pronunciare le parole, gratificati dal comportamento
dell’animale. E ancora, quelli che a scuola vengono definiti Bes,
bambini con bisogni educativi speciali. Poi ci sono gli anziani, che
ricominciano a camminare perché hanno un cane al guinzaglio. O – magari
dopo un intervento – sono più stimolati ad allungare il braccio per
lanciare una pallina o perché dall’altra parte c’è un gatto da
accarezzare. E i detenuti che – grazie all’interazione con un animale –
riescono ad affrontare dipendenze da alcol e droghe.
«L’animale va
scelto con cura – continua Artale – in base all’obiettivo che si vuole
raggiungere. Per un disabile, che è sempre stato oggetto di cura,
diventare invece parte attiva, prendendosi cura di un animale, è
importantissimo per la sua autostima. Così come la presenza di un
animale riduce i disturbi d’ansia dei bambini ricoverati, disturbi che
manifestano rifiutando il cibo o facendo pipì a letto. Poi ci sono gli
alert dog, i cani che sono in grado di riconoscere per esempio l’arrivo
di una crisi epilettica o di ipoglicemia».
Per non parlare degli
effetti positivi sulla salute in generale: accarezzare un cane o un
gatto riduce la pressione sanguigna, l’ansia e il battito cardiaco,
stimola la produzione degli ormoni del benessere. Il vero problema di
tutte queste realtà è che è difficile spesso riuscire a individuare
professionisti con una preparazione e competenza specifica. Anche perché
dietro ad ogni intervento lavora una équipe, che tiene conto degli
obiettivi terapeutici, ma anche del benessere dell’animale. Le recenti
linee guide del ministero (vedi articolo), uniche in ambito
internazionale, sono un primo passo per rendere tutto più facile,
stabilendo anche dei criteri qualitativi da rispettare per ogni
intervento che prevede un animale.