Repubblica Salute 15.3.16
Psichiatria. Manicomi 2.0 sbarre in pillole
Medici
e farmaci in eccesso. Pochi psicologi e centri di accoglienza. Mentre
aumentano i luoghi di contenzione. Così i pazienti stanno peggio
Le allucinazioni represse con le medicine tornano. Meglio starle a sentire
Ma i modelli ci sono. Siamo andati ad ascoltare le voci con gli schizofrenici
di Francesca Sironi
PIOVE,
FUORI. DENTRO, Giorgio indossa occhiali scuri. «Mi impone di pregare –
racconta – insiste, è ostile. L’altra sera le ho chiesto: perché? Non ha
risposto ». «Ha battuto in ritirata». Pausa: «Può darsi». È il turno di
Mara: «Spesso le voci negative sono predominanti. So cosa vogliono:
convincermi al ricovero. Portarmi in ospedale. Ma giovedì ho reagito. Ho
detto no. E loro sono cambiate. Sono passate al “Ciao, come stai? Tutto
bene?”». Albano Laziale, martedì pomeriggio. Come ogni settimana al
centro di salute mentale si riuniscono gli “uditori di voci”. Sono in
dieci. Alcuni fremono per mostrare il diario su cui hanno annotato gli
ultimi episodi, altri tacciono. Catia Chiappa e Claudio Marchini, i due
coordinatori, li invitano man mano a riflettere su quanto stanno
portando all’incontro: quali traguardi, quali strategie di difesa e
contrattacco, quali mappe verso le radici delle erinni (le
personificazioni femminili della vendetta, ndr) emergono nel confronto
collettivo.
Le allucinazioni uditive spaventano. Sono sintomi
facili da associare a diagnosi complesse di schizofrenia. Sono segnali
“gravi” per i medici, tabù per i parenti. Sono demoni zittiti
normalmente con psicofarmaci pesanti e tendenzialmente efficaci. Ma ogni
settimana ad Albano, come in diverse altre parti d’Italia, sulle orme
di un movimento internazionale che ha nell’inglese Ron Coleman il suo
più famoso ambasciatore, piuttosto che reprimerle, («tanto poi tornano»,
borbotta Giorgio), gli “uditori” le voci le affrontano. Ci dialogano.
Le sfidano. «Aiutiamo semplicemente chi soffre a conquistare più
potere», spiega la coordinatrice. Sulle allucinazioni, certo, ma anche
su se stessi e sul proprio futuro.
Dare più potere ai malati è la
matrice di tutte le reti di “auto-mutuo- aiuto”, telai che dal 1999 si
sono evoluti per diventare gruppi di pazienti e familiari che
partecipano attivamente ai percorsi di cura. Si fanno chiamare “Ufe” –
utenti familiari esperti – e sono piccoli fari nei territori di confine
della salute mentale. Una luce che è necessaria qui, nel Lazio come in
tutto il paese. Perché se è vero che questa è una delle poche regioni in
cui i trattamenti sanitari obbligatori – le cure psichiatriche forzate,
imposte d’emergenza – sono aumentati (del 4,5 per cento nel 2014
rispetto al 2010) e dove un paziente su 10 è stato legato alle sbarre
del letto, in reparto, è anche vero che nell’80 per cento dei 319
reparti psichiatrici d’ospedale d’Italia la porta è chiusa, a
rappresentare una tendenza precisa: quella a tenere i malati in un nuovo
manicomio fatto di sbarre ma anche di pillole. «La contenzione, oltre
che ambientale e fisica, è spesso anche chimica: con l’abuso di farmaci
per calmare i pazienti», denuncia Piero Cipriano, autore de Il manicomio
chimico per Eléuthera. E per questo è nata a Trieste (dove le sbarre
sono state eliminate del tutto, da tempo, e con risultati eccezionali)
la campagna “Slegalo subito”. Presentata pochi mesi fa, si prepara a
diventare una commissione parlamentare d’inchiesta.
Le cinghie
sono la spia di un sistema che sta arretrando, in molte province,
rispetto alle aperture della legge 180. Trentasei anni fa, infatti, con
la cosiddetta legge Basaglia, il legislatore disponeva la chiusura dei
manicomi riconoscendo la crudeltà e l’inefficacia della contenzione e
chiedeva per i pazienti psichiatrici l’istituzione di reti territoriali
di supporto capaci di accompagnarli nella vita e nella gestione della
malattia. I molti e importanti farmaci arrivati in questi decenni sono
oggi un indispensabile supporto per questa missione. Ma buona parte
della legge è rimasta lettera morta. E lo scorso aprile il Comitato
nazionale di Bioetica è stato costretto a notare che «i reparti che
usano la contenzione hanno alle spalle servizi territoriali “deboli”,
intendendo con ciò aperti per un numero limitato di ore, che non offrono
sufficiente varietà di personale, con scarsi collegamenti agli altri
centri e alla rete sociosanitaria».
Pochi psicologi o tecnici
della riabilitazione, insomma, poche figure “leggere” con cui entrare in
contatto. Meno sostegni, orientati più al “fuori” in città che non al
“dentro” in clinica o in comunità. E tanti psichiatri «che firmano di
norma prescrizioni con troppa sciatteria», commenta Cipriano. Così anche
il disagio si trasforma, nell’abbandono, in malattia. I dati
epidemiologici indicano chiaramente che la iniziale gestione delle
sofferenze psichiche può portare al recupero. La trascuratezza, invece,
ha conseguenze gravi: alla lunga «è ciò che produce davvero
l’invalidità, come non riuscirebbe a fare, da sola, la malattia»,
riflette Marco D’Alema, direttore del dipartimento di Salute Mentale di
Roma H.
Pietro li prendeva, prima, i farmaci, per zittire quelle
voci che lo tenevano intrappolato in casa, aggredito dalle erinni. Poi
ha incontrato gli uditori, e ha smesso. Tiene ancora gli occhi socchiusi
quando parla. «Non mi piace perché mi dicono cose a casaccio, che io
devo interpretare. Non mi piace perché dicono quello che gli altri
pensano di me: che Pietro frequenta il centro, che Pietro ha problemi di
nervi, che Pietro è pazzo. Ce gode, la voce, a famme sentì malato». «Ma
perché è una malattia la nostra?», chiede allora Mara agli altri. «No:
lo è forse per chi è bloccato sulle diagnosi. Ma voi siete solo persone
che sentono le voci. E che imparano a gestirle», risponde la terapeuta
Catia Chiappa. «Io non ci ho capito niente del mio passato », conclude
alzandosi Eleonora, la più giovane del gruppo: «Ma una cosa la so:
merito un’altra chance».