Repubblica Cult 27.3.16
I tabù del mondo
Quel che resta della parola “educazione”
Nessun
tempo come il nostro ha così esaltato la centralità del bambino nella
vita della famiglia I piccoli non si piegano più alle leggi degli adulti
e finiscono per ignorare il senso del limite Davanti ai figli e alle
loro richieste, i genitori rinunciano a ogni possibile pedagogia
Gli
esiti di questo processo si possono riassumere con una difficoltà
crescente dei nostri ragazzi di accedere alla dimensione generativa del
desiderio
di Massimo Recalcati
È
sempre esistita una corrente della pedagogia che, a diverso titolo, ha
preteso di liberarsi dell’educazione considerata come un vero e proprio
tabù: le vite dei figli traggono più danno che benefici dall’educazione,
la quale non sarebbe altro che una museruola messa da genitori
paranoici sulla legittima voglia di libertà dei loro figli. Tra tutti i
riferimenti possibili possiamo pensare al recente lavoro di Peter Gray
dal titolo, che è già, come si può intendere facilmente, tutto un
programma: Lasciateli giocare (Einaudi). La tesi di questo libro è
quella che bisogna restituire ai nostri figli la loro autonomia che una
concezione aridamente disciplinare della scuola gli ha sottratto. Quella
che l’autore definisce “istruzione forzata” appare come una macchina
repressiva tale da spegnere la creatività nel nome di una esigenza di
controllo e di disciplinamento coatto che proviene dal mondo degli
adulti.
Questa rappresentazione della problematica dell’educazione
risente di una ideologia libertaria che misconosce la funzione della
differenza simbolica tra le generazioni e il ruolo essenziale degli
adulti giocato nel processo di formazione. Si tratta di una vera e
propria “mutazione antropologica” che è stata descritta con efficacia da
Marcel Gauchet in un bel libro titolato Il figlio del desiderio (Vita e
pensiero). Riassumo sinteticamente il suo ragionamento: se c’è stato un
tempo dove l’educazione aveva il compito di liberare il soggetto dalla
sua infanzia, oggi si tende invece a concepire l’infanzia come un tempo
al quale si vorrebbe essere eternamente fedeli, come una sorta di
“ideale del sé” puro e incontaminato da tutti quei condizionamenti
culturali e sociali che rischiano di corrompere la sua affermazione. Non
si tratta più di educare il bambino alla vita adulta ma di liberare il
bambino dalla vita degli adulti perché la vita adulta non è una vita, ma
solo la sua falsificazione morale. Nessun tempo come il nostro ha mai
esaltato così la centralità del bambino nella vita della famiglia. Tutto
pare capovolgersi: non sono più i bambini che si piegano alle leggi
della famiglia, ma sono le famiglie che devono piegarsi alle leggi
(capricciose) dei bambini. Nanni Moretti ne fornì un esempio esilarante
in Caro diario: in una piccola isola delle Eolie i bambini diventano i
padroni anarchici della famiglia obbligando tutti gli adulti al telefono
a prodigarsi in improbabili imitazioni di animali per poter ottenere il
permesso di parlare coi loro genitori. Il compito dell’educazione viene
aggirato nel nome della felicità del bambino che solitamente
corrisponde a fargli fare tutto quello che vuole: il soddisfacimento
immediato non è solo un comandamento del discorso sociale, ma attraversa
anche le famiglie sempre più in difficoltà a fare esistere il senso del
limite e del differimento della soddisfazione. Non è forse questa la
nuova Legge che governa le nostre vite? Lo spirito del mercato non esige
forse la realizzazione del massimo profitto in tempi sempre più brevi?
Gli
esiti di questo processo si possono riassumere con una difficoltà
crescente dei nostri figli di accedere alla dimensione generativa del
desiderio poiché la condizione di questo accesso è data dall’incontro
con il trauma virtuoso del limite. Solo se la vita riconosce che non
tutto è possibile può fare esistere il desiderio come una possibilità
autenticamente generativa. Altrimenti il desiderio si eclissa soffocato
dalla marea montante della soddisfazione immediata dei bisogni. È un
problema cruciale del nostro tempo. L’elevazione del bambino a nuovo
idolo di fronte al quale, al fine di ottenere la sua benevolenza, i
genitori si genuflettono, è un effetto di questa erosione più diffusa
del discorso educativo. Nella pedagogia falsamente libertaria che oscura
il trauma benefico del limite come condizione per il potenziamento del
desiderio, l’educazione stessa è diventata un tabù arcaico dal quale
liberarsi, una parola insopportabile che nasconde e giustifica
subdolamente il sadismo gratuito degli adulti verso l’innocenza dei
figli. In realtà, questa dismissione del concetto di educazione è un
modo con il quale gli adulti – che, come ricorda Lacan, sono i veri
bambini – tendono a disfarsi del peso della loro responsabilità di
contribuire a formare la vita del figlio. Ne è una prova il sospetto coi
quali molti genitori osservano gli insegnanti che si permettono di
giudicare negativamente i loro figli o di sottoporli a provvedimenti
disciplinari. Dando per scontato il fatto che non esistono genitori
ideali, o, che, come sentenziava Freud, il mestiere del genitore è
impossibile, cioè è impossibile per un genitore non sbagliare, questo
non significa affatto disertare la responsabilità di assumere delle
decisioni, di non farsi dettare la Legge dai propri figli. Non si tratta
per i genitori di proporsi come modelli educativi infallibili – niente
di peggio per un figlio che avere un padre o una madre che si offrono
come misura ideale della vita – ma di fare sentire che esiste sempre un
mondo al di là di quello incarnato dell’esistenza del figlio, che
l’esistenza di un figlio non può esaurire l’esistenza del mondo. In un
recente colloquio clinico con una famiglia in difficoltà di fronte ad un
bambino che ha progressivamente cannibalizzato le loro vite mostrando
di non aver alcun rispetto per il senso del limite, il padre, per
definirlo, ha usato questa espressione eloquente: «Lui pensa di essere
il centro del mondo». Aggiungendo però subito dopo, senza riuscire a
trattenere una certa soddisfazione: «Lui non sa quanto per noi questo
sia assolutamente vero».