domenica 27 marzo 2016

Repubblica Cult 27.3.16
Compagno robot /1
Noam Chomsky. Che meraviglia se le macchine ci rubassero il lavoro

CHI È
NOAM CHOMSKY, OTTANTOTTO ANNI, PROFESSORE EMERITO AL MIT , È CONSIDERATO IL PIÙ GRANDE LINGUISTA DEL VENTESIMO SECOLO.
HA SEMPRE CONIUGATO LA SUA CARRIERA ACCADEMICA CON L’IMPEGNO POLITICO DIVENTANDO UNO DEI PIÙ RAPPRESENTATIVI INTELLETTUALI DELLA SINISTRA RADICALE AMERICANA. SI DEFINISCE ANARCHICO

C’È UN MANTRA CHE NOAM CHOMSKY, ottantasette anni, ripete con energia durante tutta la nostra intervista: « It’s our choice », dipende da noi. Dipendesse da lui, celebre linguista famoso in tutto il mondo, intellettuale mai tenero con il potere, allora una chance ai robot bisognerebbe darla. «Potrebbero essere loro a liberarci dal guinzaglio della routine», a farci correre sui campi incolti della creatività e del piacere.
Professor Chomsky, secondo lei che cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale?
«Si può intendere l’intelligenza artificiale in due modi. Il primo è quello a cui ho dedicato la mia vita: l’indagine sull’intelligenza umana, il tentativo di ricostruirla. Molto dev’essere ancora dimostrato, ma con la “rivoluzione copernicana” della linguistica abbiamo finalmente inteso il linguaggio come proprietà biologica, mostrando che l’enorme varietà linguistica può essere ricondotta a un sistema molto semplice che genera il pensiero. L’altro modo di intendere l’intelligenza artificiale è il lato ingegneristico della faccenda: i dispositivi utili, ad esempio le macchine che si guidano da sole. Vuol sapere come vedo quel tipo di futuro? Con entusiasmo».
Il premio Nobel per l’economia, Paul Krugman, però mette in guardia: dice che in realtà i robot ci ruberanno il lavoro, e che la diseguaglianza è dietro l’angolo. A lei il tema dell’uguaglianza sta a cuore. I robot valgono il rischio?
«Chi accusa i robot di toglierci lavoro dovrebbe avere dalla sua parte l’evidenza: la produttività dovrebbe aumentare, cosa che al momento non avviene. Ma se davvero le macchine dovessero rimpiazzarci, io direi: bene! Sarebbe un enorme beneficio per l’umanità. Certo, quando un robot subentra in un certo settore ci saranno problemi di adattamento, i lavoratori di quel settore devono essere reimpiegati. Ma un mondo robotizzato è una possibilità di liberazione ».
Liberazione da che cosa?
«Ma dalla routine, dal lavoro ripetitivo e alienante. Chi di noi desidera stare otto ore a una cassa di supermercato piuttosto che dedicarsi alle cose che ama? Se i robot facessero il lavoro che ci annoia al posto nostro, saremmo liberi di creare, di concentrarci sull’innovazione. Potremmo dedicarci al piacere».
Cosa le fa pensare che l’automazione verrà gestita portando più libertà ed equità? Oggi le tecnologie dell’informazione sono in mano a poche grandi aziende che offrono servizi “masticando” i nostri dati. E se nel futuro i benefici che secondo lei saranno prodotti dai robot alla fine andassero solamente a favore di pochi?
«Dipende da noi, la tecnologia è neutrale, è come un martello: puoi usarlo per torturare o per costruire. La scelta è politica, il futuro è un bivio: se immagini la tecnologia gestita da pochi grandi centri di potere, se pensi a un “neoliberismo in salsa tech”, allora devi persino temere nuovi totalitarismi — penso alla sorveglianza da “Grande fratello”, ad esempio. Ma se la immagini in mano alle persone, se pensi a una svolta tecnologica democratica, allora intenderai l’opposto: più conoscenza uguale più uguaglianza. Quale tra le due strade prenderemo? Non si tratta di cataclismi naturali ma di come faremo la Storia».
L’etichetta di radicale che alcuni le attaccano sulla schiena le pesa?
«Oggi viene definito radicale chiunque esca dal pensiero dominante, perciò lo prendo come un complimento. Bernie Sanders si ispira al New Deal, eppure c’è chi lo definisce estremista. Quanto a me, penso che i lavoratori debbano disporre del loro lavoro, e mi ispiro in ciò al socialismo libertario. Ma queste sono eredità del neoliberalismo classico: prendo molto sul serio pensatori come John Stuart Mill, sono grandi classici. Io stesso mi sento un “classico”, se però vi piace chiamatemi pure “radical”…».