domenica 27 marzo 2016

Repubblica Cult 27.3.16
Pierre Riches
Ricordi e incontri di un teologo speciale
“Devo la conversione a Wittgenstein. Mi spiegò che la ragione non è tutto”
L’amicizia con Iris Murdoch, Hanna Arendt e Lou Reed
conversazione con Antonio Gnoli

Pierre Riches è una figura singolarissima e affascinante del mondo della teologia. Da qualche anno si è trasferito in Sabina, non lontano da Roma. La casa, dove vive, si affaccia sulla valle del Tevere. Sobria e accogliente. Qualche mese fa è andata a trovarlo Laurie Anderson. Hanno cenato assieme e ricordato Lou Reed, di cui Padre Pierre è stato amico. Una foto sul muro del salotto ne descrive la relazione in qualche modo paterna: Lou Reed lo abbraccia sorridente e felice. Sul tavolo vedo una fresca copia di Note di catechismo per ignoranti colti, ripubblicato da Gallucci, con una prefazione di Giorgio Manganelli. «Il titolo», rammenta Riches, «me lo suggerì Elsa Morante». Oggi Padre Pierre è costretto a muoversi su una carrozzella. È una condizione che lo limita nei movimenti ma non lo affligge. Rifacendosi al titolo di un altro suo libro, è la leggerezza della croce a sostenerlo. Le sue origini sono quelle di un ebreo alessandrino, educato nei riti della tradizione. Sotto un cappello da baseball mi guarda con una punta di tenerezza. Gli chiedo quando decise di convertirsi al cattolicesimo: «Avevo 23 anni. Divenni cristiano perché il cristianesimo è molto appagante dal punto di vista intellettuale e totalmente liberatorio dal punto di vista esistenziale. Ho girato il mondo, insegnato in molte università, sono stato parroco a Roma, cappellano nell’aeroporto di Fiumicino. Ho conosciuto e frequentato molta gente. Non ho mai avuto sensi di colpa per la mia vita. E ho sempre pensato che la mia fede poggiasse su due cardini: l’amore come sprone ad agire e la comunione con Dio e il prossimo come scopo di vita».
Lei è nato dove esattamente?
«Ad Alessandria d’Egitto. Era un mondo particolare che lasciai a 17 anni».
Particolare perché?
«Città irreale, governata da oligarchie. Sorretta dai privilegi. La ricchezza più che esibita era vissuta. Su Alessandria confluivano miriadi di nazionalità: francesi, italiani, greci, ebrei e soprattutto inglesi. Un clamore di lingue risuonava nella mia testa di bambino».
Lawrence Durrell ha forse scritto il più bel libro su Alessandria.
«Lei trova? Raccontava di una città decadente, sfinita nei languori ultimi. Ma non era affatto vero. Città di traffici esistenziali e culturali, semmai. Ricordo il poeta Kavafis, ormai vecchio. Mi teneva sulle ginocchia accarezzandomi la testa. E Georges Moustaki, dal sorriso bellissimo. Sua sorella si innamorò di me. Durante il periodo in cui vissi a Cambridge, E. M. Forster voleva che gli raccontassi di Alessandria. Mi invitava a prendere il tè. Gli parlavo dei labirinti mentali di quella città così diversa, da essere unica».
Perché la lasciò?
«Mio padre era un mercante di cotone. Famiglia ricca. La buona borghesia alessandrina faceva studiare i suoi rampolli al Victoria College di Alessandria. Quando giunse il momento dell’università scelsi Cambridge, mi piaceva la filosofia».
In che anno andò?
«Nel 1946. Cambridge, diversamente da Londra, non aveva subito gli stessi oltraggi della guerra».
Vi insegnava Ludwig Wittgenstein.
«Ho seguito alcune sue lezioni. Potrei dire di essere stato uno degli ultimi allievi a conoscerlo».
Che ricordo ne ha?
«Se mai ho incontrato un genio, questo era lui. Mi trovava esotico, forse per le mie origini egiziane, e mi trattava con simpatia. Era un uomo a volte aspro, di pochissime parole. Scontroso, anche con gli studenti. Di solito preferiva fare lezione nella sua camera. Noi sedevamo sul pavimento di legno o su qualche sedia disponibile. Al mormorio iniziale seguiva un silenzio surreale ».
Surreale perché?
«Si creava una strana corrente, come se tutti i presenti improvvisamente attendessero che iniziasse a parlare. A volte taceva per minuti».
Negli ultimi tempi stava male.
«È vero, quando seppe di avere un cancro si recò in Norvegia, in un villaggio dove aveva trascorso un periodo felice. Forse era un modo per ritrovare un tempo perduto. Poi tornò a Cambridge. Morì in casa di un amico il 29 aprile del 1951. Ma sono episodi che appresi successivamente. Andai via da Cambridge alla fine del 1949. Ricordo una frase nelle Ricerche filosofiche: “La morte non è un evento della vita. La morte non si vive”. Un anno prima che lui morisse presi il battesimo e mi convertii. Penso che nella mia scelta cristiana contasse molto il fatto che Wittgenstein mi avesse in qualche modo insegnato che la ragione non è tutto».
Dunque la fede.
«Per molti fede e ragione si oppongono; per un cristiano si completano».
Si completano, ma postulano due verità diverse.
«Il punto è dove le due verità si incontrano. Voglio dire che la verità non è qualcosa che si conquista solo con la conoscenza, studiando e sperimentando; ma anche vivendo pienamente e amando pienamente».
È il rapporto con la vita.
«Un cristianesimo maturo, assunto nella quotidianità, esige che ci sia una coerenza tra la propria fede e la propria vita».
Cosa fece quando lasciò Cambridge?
«Ebbe inizio la mia maturazione spirituale. Fu nel 1950 che conobbi Iris Murdoch e diventammo amici. Anche lei aveva frequentato per un periodo le lezioni di Wittgenstein. Prese un insegnamento di filosofia a Oxford. Ricordo le bellissime discussioni tra noi».
Si dice che lei sia stato il suo consigliere spirituale.
«Non era affatto una donna da consigliare. Ma che a volte abbia cercato dei suggerimenti, questo sì. Mi chiese un giorno cosa pensassi dell’esistenzialismo.
Stava lavorando su Sartre. Risposi che il miglior esempio di esistenzialismo ce l’offriva la Bibbia con Giobbe ».
Giobbe dovette fare i conti con il silenzio di Dio.
«Un vecchio e saggio certosino mi disse una volta che il libro di Giobbe ci insegna che il silenzio di Dio, per chi si apre a Lui, è più consolante del parlare degli uomini. Grazie ad Iris conobbi a Londra Elias Canetti. Aveva un’intelligenza fluida, mobile come il Danubio da cui proveniva».
So che ha conosciuto anche Hannah Arendt.
«Ci incontrammo a Chicago, durante un pranzo. Erano gli anni Sessanta. Diventammo amici. Fu anche lei una delle genialità del Novecento. Mi piaceva la sua versatilità. Era da poco tornata da Gerusalemme e i suoi reportage sul processo Eichmann fecero scalpore, provocando più di un malumore, soprattutto nella comunità ebraica americana. Personalmente ero d’accordo con la sua idea di “banalità del male”. Tutti pensai avremmo potuto diventare degli Eichmann».
Non nasciamo con la garanzia di fare il bene.
«Perderemmo il senso della libertà».
Ma il male non è la sconfitta di Dio?
«È quello che pensava Dostoevskij. Ma il punto è un altro. Gran parte dei nostri mali sono direttamente o indirettamente causati da noi. Frutto della nostra libertà usata dissennatamente».
Distinguerebbe tra il male e la sofferenza?
«Il male provoca la sofferenza, ma non necessariamente è vero il contrario. La sofferenza del giusto è anche il passaggio alla luce attraverso la Croce, forse la sola via di salvezza, se si vuole conservare la libertà. Mi viene in mente un proverbio inglese: “È meglio avere amato e perduto, che non avere mai amato”».
Cosa c’entra con Dio?
«Forse Dio, essendo amore, ha preferito amare e perdere un po’ che non avere mai amato».
È più persuasiva la filosofia o la teologia?
«La filosofia mette in gioco l’uomo. La teologia il rapporto con Dio. Nella teologia classica entrano tre elementi: la ragione, la volontà, la Grazia. Quest’ultima non bussa alle porte della filosofia. Paolo è l’uomo da cui ho imparato di più teologicamente. Le sue lettere sono di una intelligenza e profondità spirituali senza eguali.
Lei è stato il segretario del Cardinal Tisserant.
«Mi sono occupato per lui e con lui dei problemi teologici. Fu un grande uomo. Modesto per quel che effetti-vamente era. Seguimmo le sorti del Concilio Vaticano II. Lo accompagnai anche al Conclave, dal quale uscì eletto Paolo VI. Ogni cardinale poteva farsi portare da una persona».
Seguì Tisserant?
«Era abbastanza normale. Viaggiavo spessissimo con lui. Quando si aprì il conclave facemmo insieme il viaggio in auto. Di solito sedevamo dietro. Quel giorno Tisserant mi chiese di accomodarmi vicino all’autista. Ubbidii, senza capire perché. Al ritorno, quando andammo a riprenderlo con la macchina, mi predisposi per salire davanti. E lui disse: no, Padre Pierre, venga dietro, vicino a me, non sarò il cinquantunesimo Papa! » Lei ha una vita incredibile.
«Diciamo che ho avuto una vita».
Dove ha insegnato?
«Un po’ ovunque: a Yale, ad Harvard. Poi in Africa, sono stato un paio d’anni in Uganda. Credo di aver conosciuto abbastanza bene quel continente. Poi in Pakistan e in Giappone. Il cardinal Colombo mi aveva ribattezzato “l’ebreo errante”».
Cosa pensa delle religioni orientali?
«Buddismo e taoismo sono esperienze molto importanti. Se affidate a dei ciarlatani diventano solo mode fastidiose. Trovo che il Tao, cioè la Via, ha diversi punti in comune con il cristianesimo. Ne parlavo a volte con Giorgio Manganelli. Il “Tao-të-ching” era una delle discussioni ricorrenti».
Mi risulta che è stato anche parroco.
«Sì, in una piccola parrocchia di campagna a Boccea. Chiesi espressamente a Tisserant di mandarmi in quel posto. Lo stesso Tisserant, mi spinse, qualche anno dopo, ad accettare un insegnamento alla Loyola University di Roma, propostomi da Raimon Panikkar».
Pier Vittorio Tondelli l’ha inserita nel suo romanzo “Rimini” come Padre Anselme. «È un prete», scrive Tondelli. «Mi ha beccato quando uscì il mio primo romanzo otto anni fa. È sempre in giro per il mondo all’inseguimento delle sue anime. Mi diverto con lui. Gli voglio molto bene». Si riconosce?
«Uno scrittore ha la libertà di inventare, altrimenti che scrittore sarebbe? Conobbi Tondelli a Venezia a una mostra di Luigi Ontani. Un uomo di talento, tormentato ma autentico».
Ha avuto un ruolo nella tardiva conversione di Tondelli?
«Non credo di essere stato così influente. Le decisioni di quel tipo arrivano da una profondità che neppure immaginiamo. Posso dire che la sua morte fu per me un dolore fortissimo. Fui io a celebrarne il funerale, in un giorno in cui pioveva a dirotto».
Esistono delle lettere che vi siete scambiate?
«C’è un carteggio con lui, come pure con Iris Murdoch. Ma sono blindati».
Le manca l’America?
«È un po’ che non vado. Ma i figli dei miei ex allievi vengono a trovarmi».
Mi colpiva la copertina di un suo libro – “La leggerezza della croce” – dove si vede una croce disegnata da William Burroughs.
«Ah, sì! L’ho conosciuto bene. Mi chiamava “il prete”. Quando disegnò per me quella croce era il periodo in cui sparava alle tele dei quadri».
Sparò anche alla moglie.
«Fu per errore. Dio abbia pietà».
Fra le tracce del suo periodo americano vedo anche un foto che la ritrae con Lou Reed e un ritratto fotografico che le fece Robert Mapplethorpe. Due icone della cultura contemporanea.
«Lou Reed lo conobbi a New York, non ricordo più in quale galleria. Era affascinato dal fatto che un ebreo si fosse fatto prete. Lo divenni per la precisione a 32 anni. Ogni tanto mi mandava i biglietti per i suoi concerti. Quanto a Mapplethorpe, la foto che lei ha visto, la scattò quando già stava male».
È una miniera di ricordi.
«Non li ho allontanati. Forse un po’ di cose le ho dimenticate. Vista la mia età è un processo fisiologico. Ma non ho nostalgia dei ricordi. Non è possibile rivivere i momenti del passato. Lasciano delle tracce utili per la vita che continua. Credo nella vita eterna. Sono molto curioso di andare a vedere cosa c’è al di là».
La sua fede ha mai tentennato?
«Mai. La fede è un dono che ho ricevuto in abbondanza ».
Parlavamo prima del male.
«Si può combattere ed equilibrare con il bene».
Anche oggi, con tutto quello che ci sta accadendo?
«Soprattutto oggi. Il Cristo ci porta due grandi speranze: una per questa terra e una dopo la morte. Ci insegna come dobbiamo vivere e agire. Mi torna in mente “il discorso della Montagna”, lo si trova sia in Matteo che in Luca. Ci spiega che è solo amando che possiamo vivere bene e ci dice che amare vuol dire dare e perciò anche rinunciare. Solo così possiamo rompere la catena degli egoismi e delle paure».