Il Sole Domenica 27.3.16
Il Talmud rinasce dai roghi
È
molto più di una raccolta di norme e interpretazioni della legge
ebraica. Un libro dialogico e aperto nel quale neppure Dio può avere
l’ultima parola
di Giulio Busi
È il
libro più vilipeso, cancellato e bruciato della storia occidentale.
Portato al rogo a carrettate, imbrattato d’inchiostro per renderne
illeggibili le carte, letteralmente strappato di mano ai suoi lettori.
Che il Talmud approdi ora a una traduzione integrale in italiano, con i
fondi e l’interessamento dello stato, è una giusta, seppur tardiva
riparazione a tanti torti. C’è qualcosa, nell’opera smisurata, imbastita
da generazioni di maestri ebrei, che l’ha resa capace di tener testa
all’incomprensione e al malanimo. Credo che l’energia che circonda
queste migliaia e migliaia di parole, e che le conserva ancor oggi ben
vitali, sia il loro carattere corale.
Il Talmud è innanzitutto una
raccolta di norme giuridiche, d’interpretazioni e di opinioni sulla
legge ebraica. Ma è ancor di più una grande narrazione a infinite voci.
Nasce in un’età, quella dei primi secoli dell’era volgare, in cui il
popolo d’Israele ha perso la propria autonomia politica. Il Tempio è
distrutto, Gerusalemme in mano agli stranieri, l’esilio è destino
obbligato e quotidiano. Dalle rovine del passato, e dalla dispersione,
non sgorgano opere di singoli, voci intimistiche di sconforto. Non è più
il tempo dei profeti biblici, che, coraggiosi e solitari, s’ergevano ad
ammonire sovrani o a inveire contro gli errori e le sconsideratezze dei
loro correligionari. A una sciagura collettiva, la società ebraica
risponde con un progetto intellettuale altrettanto collettivo. Sono i
rabbini, ovvero i maestri della tradizione, a farsi carico dell’impresa.
Non sono sacerdoti (il Santuario non funziona più, e il sacrificio è
stato sospeso). Non sono dignitari altolocati, spesso appartengono a una
classe modesta: fabbri, calzolai, piccoli commercianti. Ma sono
assieme, sanno fare gruppo. Si trovano per studiare, per pregare, per
discutere, per vedere chi conosca meglio la Bibbia, chi ne capisca di
più, chi l’ami d’un amore più devoto. Dimenticatevi la cultura dei
grandi poeti, o degli scrittori altezzosi. Sfogliando le pagine del
Talmud entrerete spesso in case dimesse, verrete a sapere di fatti
quotidiani, leggerete qualche volta di comari e di pescatori, di
sgualdrine e di ladri. Non è forse vero che la legge s’applica a tutti, e
che i precetti del Signore valgono per l’intero Israele, senza
eccezioni? Per i ricchi e per i poveri, per i pii e per chi è tentato di
trasgredirli, i comandamenti, spesso e volentieri. I maestri studiano e
studiano, voltano e rivoltano ogni versetto della Scrittura. Se fosse
un giardino fiorito, diresti che questi giardinieri troppo zelanti
l’hanno messo sotto sopra. Ma la Bibbia, per i rabbini, è come un campo
da rendere fertile col lavoro. Più viene dissodato, più le
interpretazioni si accumulano l’una sull’altra, migliore sarà il
raccolto. E non pensiate che vadano sempre d’amore e d’accordo. Il
Talmud è pieno di discussioni, di dispute, e di qualche sonoro diverbio.
Perché non si può amare se non ci si appassiona, e la passione scalda.
In una celebre pagina del trattato Bava Mezia , Rabbi Eliezer è talmente
convinto di aver ragione, che chiama a proprio testimone una voce
celeste. Ed ecco, puntualmente, che la voce dall’alto si mette dalla sua
parte. Credete che i colleghi se ne stiano zitti? Nemmeno per sogno. Un
altro rabbi, senza scomporsi, ha da ridire persino sul cielo. Da quando
la Torah è stata data agli uomini, sostiene, è affar loro capirla e
metterla in pratica. Persino Dio deve rimanersene buono: sulla terra, è
la maggioranza dei saggi che decide, liberamente, e guai a
intromettersi.
Una simile democrazia basata sullo studio, e
siffatto orgoglio intellettuale, mansueto sì ma indomito, non potevano
passare inosservati. Il Talmud, che è il documento più importante della
cultura rabbinica, esprime una consapevole scelta di autonomia. Fonda
l’indipendenza giuridica di Israele, poiché unisce la legge biblica alla
vita quotidiana dell’esilio. E stabilisce allo stesso tempo il
prestigio e la legittimazione dei maestri, che danno voce all’identità
del gruppo ebraico. Per lunghi secoli, la Chiesa ha mal sopportato
l’opera, perché l’ha considerata il baluardo della “cocciutaggine”
ebraica. In altre parole, se gli ebrei non vogliono convertirsi, se
rimangono fedeli alle loro tradizioni, la colpa sarà di questo loro
manuale di resistenza. Distrutto il libro, tolto di mezzo l’ostacolo. Ed
ecco che fioccano i divieti e le persecuzioni. Dalle bolle del Medioevo
e dell’età della Controriforma, è tutto un accanirsi contro il Talmud,
considerato blasfemo (conterrebbe passi contro Gesù) o falso o sciocco.
Nella
sua bolla Etsi doctoris gentium, pubblicata nel 1415, l’antipapa
Benedetto XIII dà voce in maniera inequivocabile alla corrispondenza tra
Talmud e autodeterminazione ebraica: «Poiché è manifesto... che la
causa prima della cecità giudaica... è una certa dottrina perversa...
che fu formulata dopo Gesù e che gli ebrei chiamano Talmud... abbiamo
stabilito che nessuno possa presumere di ascoltare, leggere o insegnare
tale dottrina».
Confische, censure, roghi, a intervalli regolari
il libro ha rischiato l’estinzione. E ogni volta, gli sforzi degli
inquisitori sono stati vani. È vero che i manoscritti antichi sono
rarissimi, a causa delle persecuzioni, ma è altrettanto certo che il
Talmud è come un fiume contro cui si sono costruiti argini e si sono
ammassate dighe, senza metterlo mai in secca. Un autore solo lo si
poteva cacciare in prigione, e bruciare. Ma cento, mille? Nel 1553, per
volere di Giulio III, si fece un gran falò di copie del Talmud a Campo
de’ Fiori, a Roma. Ad andare in cenere furono carte e pergamene, l’opera
continuò a circolare. La diaspora era vasta, molto più capiente di una
piazza o di una città. D’altronde, anche tra gli intellettuali cristiani
del Cinquecento cominciava ad affacciarsi il dubbio che tali metodi non
risolvessero poi granché. «Prima di bruciare un libro», aveva scritto
l’umanista tedesco Johannes Reuchlin a difesa del Talmud, «sarebbe
meglio leggerlo». Verità indiscutibile, e che metteva a nudo il
problema. Invece di distruggerlo per partito preso, perché non provare a
capirlo, questo mondo rabbinico? Nonostante i buoni propositi di
alcuni, nessuno aveva tentato finora di portare in italiano tutto il
Talmud babilonese, quello approntato nelle antiche terre di Mesopotamia.
Il manipolo di esperti guidato da Rav Riccardo Di Segni s’è messo
all’opera di buona lena, coadiuvato dal Cnr. Ci vorranno anni, e ci sarà
lavoro per molte mani e per molte teste, che è poi il modo migliore di
dire, e di fare, Talmud.
Talmud babilonese. Trattato Rosh haShanah (Capodanno), curatore Riccardo Shemuel Di Segni, Giuntina, Firenze, pagg. 416, € 40
(in libreria dal 5 aprile)