Repubblica 9.3.16
Turchia
La censura non mi avrà
di Sevgi Akarçesme
A
quanto pare, il controllo che di fatto già esercita sulla maggioranza
dei quotidiani e delle televisioni in Turchia non è sufficiente per il
presidente Recep Tayyip Erdogan. Venerdì, con lo zelo del suo dispotico
leader, il governo ha requisito lo
Zaman, il quotidiano turco con
più lettori, e l’edizione in lingua inglese di cui sono direttrice, il
Today’s Zaman. Insieme, queste testate rappresentavano due delle poche
voci indipendenti rimaste in Turchia, e Today’s Zaman, in particolare,
era un’affidabile fonte di notizie in lingua inglese per diplomatici,
accademici ed espatriati.
Venerdì, un tribunale controllato dal
governo ha nominato un gruppo di amministratori fiduciari che ha preso
il controllo dei due giornali, in quella che di fatto è un’aggressione
motivata da ragioni politiche. A mezzanotte, i manifestanti venivano
attaccati con gas lacrimogeni e cannoni ad acqua mentre i reparti
antisommossa della polizia facevano irruzione nella sede centrale dei
nostri giornali, a Istanbul. Il giorno seguente, hanno tagliato la
nostra connessione internet per impedire ai giornalisti di lavorare a
un’edizione speciale sulla requisizione, dopo di che hanno staccato la
spina ai server del giornale, distruggendo il nostro archivio digitale.
Alcune
ore dopo l’irruzione, ho detto a un agente di polizia che fumava una
sigaretta davanti all’ingresso principale che quella era un’area non
fumatori. «Non più», è stata la sua risposta. Una frase che sottolinea
un cambiamento più generale che sta avvenendo nel nostro Paese, una
traiettoria pericolosa che porta alla fine dello Stato di diritto. Già è
grave il fatto che in Turchia 20 giornalisti siano in prigione, ma
venerdì sarà ricordato come il giorno in cui la libertà di stampa ha
subito un attacco ancora più pesante, in palese violazione della
Costituzione.
A novembre, due autorevoli giornalisti turchi, Can
Dündar ed Erdem Gül, direttore e caporedattore del quotidiano
Cumhuriyet, sono stati arrestati con l’accusa di aver favorito
un’organizzazione terroristica armata. Sono stati rilasciati il mese
scorso, dopo che la Corte costituzionale ha decretato che i loro diritti
erano stati violati, ma dovranno ancora affrontare un processo, e se
saranno condannati rischiano l’ergastolo. Erdogan ha detto di non tenere
«in nessuna considerazione » la decisione del tribunale di rilasciarli.
Queste
pressioni non sono una novità. Nel dicembre del 2014, le autorità
statali arrestarono il direttore di Zaman dell’epoca, Ekrem Dumanli, nel
quadro di una repressione sistematica contro le voci critiche. Bülent
Kenes, che mi ha preceduto nella carica di direttore di Today’s Zaman, è
stato imprigionato lo scorso ottobre per alcuni commenti critici su
Twitter. Io stessa, l’anno scorso, ho ricevuto una condanna con la
condizionale per la risposta di un’altra persona a uno dei miei tweet.
Perché
il presidente ce l’ha con noi? L’ordinanza del tribunale dice che i due
quotidiani sono accusati di diffondere «propaganda terroristica »:
ormai è l’accusa di comodo utilizzata ogni volta che bisogna soffocare
qualche voce critica. In passato, Zaman e Today’s Zaman avevano
sostenuto le politiche filoccidentali e democratiche della formazione di
Erdogan, il Partito per la giustizia e lo sviluppo, e i suoi sforzi per
introdurre riforme che spianassero la strada all’ingresso della Turchia
nell’Ue. Ma a partire dall’inizio di questo decennio, Erdogan e il suo
partito sono diventati sempre più autoritari. Un esempio è la brutale
reazione della polizia alle proteste del 2013 nel parco Gezi, a
Istanbul. Quella protesta attirò l’attenzione dei media di tutto il
mondo e la sua repressione suscitò critiche da parte dei più fedeli
alleati della Turchia in Occidente. Nel marzo del 2014, Erdogan, che
all’epoca era primo ministro, sembrò annunciare la natura del nuovo
potere – mettere a tacere ogni forma di dissenso – quando invocò la
chiusura di social media come Facebook e YouTube. Arrivò a definire
Twitter «la peggiore minaccia per la società».
L’oppressione era
cominciata nel 2013, dopo che due inchieste della magistratura, con
prove schiaccianti di corruzione, avevano costretto numerosi ministri
alle dimissioni. Erdogan accusò chi lo criticava di far parte di una
«struttura parallela» organizzata dal predicatore turco Fethullah Gülen e
dal suo movimento Hizmet. Seguì una caccia alle streghe contro
funzionari, imprese, giornalisti, insegnanti, filantropi e cittadini
comuni ritenuti simpatizzati di Gülen, che dal 1999 vive in esilio
autoimposto in Pennsylvania. Zaman pubblicava i suoi sermoni, ma Gülen
non ha nessun legame ufficiale con i giornali. Eppure l’ordinanza del
tribunale che ha consentito la confisca di Zaman e Today’s Zaman
sostiene, senza prove, che i due quotidiani sono controllati da Gülen.
Molti dei miei colleghi si ispirano ai suoi insegnamenti moderati e
pacifici, come milioni di persone in tutto il mondo, ma è un insulto
alla loro intelligenza e integrità insinuare che siano controllati da
lui.
Questo è forse l’ultimo articolo che scrivo come direttrice
di Today’s Zaman, perché non accetto la censura della nuova
amministrazione, che ha trasformato Zaman in un megafono del regime, con
un articolo filogovernativo in prima pagina. Il mondo deve dire al
regime di Erdogan che la misura è colma.
La comunità
internazionale può ancora esercitare influenza sul nostro Paese.
Limitarsi a esprimere inquietudine, ma chiudendo gli occhi sulle
violazioni dei diritti per salvaguardare gli affari e gli accordi, può
risultare conveniente nell’immediato, ma se l’Occidente non prenderà una
posizione ferma contro la deriva autoritaria di Erdogan rischierà di
perdere un alleato stabile e un raro esempio di democrazia in una
nazione a maggioranza musulmana.
L’autrice è direttrice dell’edizione inglese del quotidiano turco Zaman ( Traduzione di Fabio Galimberti)