martedì 8 marzo 2016

Repubblica 8.3.16
L’accoglienza dei profughi alla prova del welfare
Sarà inevitabile ridurre l’universalità di accesso a beni oggi pubblici trasferendone l’offerta in parte al mercato privato
di Alberto Bisin

I FLUSSI migratori che stiamo osservando ormai da più di un decennio non hanno precedenti in Europa.
Dall’estate del 2014 i flussi di migranti in cerca di lavoro sono ingigantiti da flussi di rifugiati e richiedenti asilo, più di un milione in un anno, soprattutto da Siria e Afghanistan. La capacità dei centri di accoglienza in Italia e in Grecia è assolutamente insufficiente, il che genera situazioni umanitarie gravi e dolorose. A fronte di questa situazione l’Europa ha reagito in modo abbastanza confuso, con una politica e una burocrazia poco agile e troppo poco coordinata tra paesi membri. L’emergenza profughi va assolutamente risolta al più presto. I mezzi per farlo sono facilmente individuabili, se ne parla da tempo: un sistema di registrazione unificato a livello europeo, aiuti finanziari ma soprattutto organizzativi ai paesi d’entrata e ai rifugiati direttamente nei paesi di provenienza o in quelli di transito, come la Turchia. Ma anche quando questa emergenza sarà sotto controllo, l’Europa resterà al centro di una grande ed epocale migrazione. Analizzarne razionalmente gli effetti comporta evitare il ricorso sia a facili allarmismi che alla comune attitudine paternalistica che vede l’accoglienza come questione esclusivamente morale.
Se, come si è detto, flussi migratori di questa entità sono relativamente nuovi in Europa, gli Stati Uniti hanno affrontato nella loro storia recente situazioni, in alcune dimensioni, comparabili. Anche all’interno dell’Europa, le esperienze di Francia, Regno Unito, ed in parte della Germania, possono insegnare qualcosa a paesi di più recente immigrazione, come l’Italia. Alla luce di queste esperienze è possibile trarre alcune conclusioni, sia pur sommarie. Innanzitutto, è bene rendersi conto che nelle condizioni economiche, demografiche e sociali in cui si trova oggi il mondo, e anche senza considerare guerre e altre condizioni disperate, le motivazioni a cercare opportunità economiche in Europa sono molto forti. Di conseguenza ingenti flussi migratori sono essenzialmente inevitabili. Nel caso migliore si possono governare ed è su questo che bisogna concentrarsi.
A questo proposito è necessario distinguerne gli effetti economici dagli effetti, per così dire, “culturali”. Gli effetti economici si misurano tradizionalmente su occupazione e salari, si riferiscono al timore che gli immigrati “portino via il posto di lavoro” ai residenti. Gli effetti culturali invece riguardano le tensioni tra diverse etnie e diverse religioni, tra sistemi di vita diversi e a volte in contrasto. Il terrorismo che oggi l’Europa teme è naturalmente una manifestazione estrema di queste tensioni.
Dall’esperienza economica degli Stati Uniti abbiamo imparato che gli effetti economici tradizionali sono relativamente minimi. Gli immigrati tendono a occupare nicchie del mercato del lavoro in cui si trovano pochi residenti. Occupazione e salari ne risentono in modo molto limitato. La recente immigrazione ispanica negli Stati Uniti ha però reso evidente quanto ingenti flussi di immigrazione rendano invece costosi eventuali meccanismi di assicurazione sociale già esistenti e pensati per i residenti. Questi effetti sono in linea di principio transitori, perdendo rilevanza man mano che gli immigrati raggiungono migliori condizioni economiche. Ma la transizione può essere lunga ed è possibile che essi portino a minare in modo irrecuperabile la stabilità e la sostenibilità del welfare state.
Gli effetti culturali dei grandi fenomeni migratori sono anch’essi di grande portata. Dipendono dalla capacità e dalla volontà di assimilazione degli immigrati e dalla disponibilità dei residenti ad accettare e integrare nuove forme e manifestazioni culturali. Un risultato forse sorprendente che si ottiene dallo studio di questi fenomeni è che spesso sia la volontà di assimilazione degli immigrati il vincolo principale, il collo di bottiglia che rende i processi di assimilazione estremamente lenti e faticosi. L’apertura in senso multiculturale del paese che li riceve tende ad essere vista dagli immigrati come una minaccia alla propria sopravvivenza e alla propria integrità culturale. Questo spiega come l’assimilazione risulti in molte circostanze più lenta qualora gli immigrati vivano in condizioni di minore segregazione geografica. Opposto è invece l’effetto della segregazione economica, che tende a generare invece risentimento e profonde tensioni culturali. Alcuni recenti fenomeni di manifestazioni anche violente in Francia e nel Regno Unito sono probabilmente dovuti anche a questi fattori.
Governare larghi fenomeni migratori come quello a cui è - e sarà - soggetta l’Europa nel prossimo futuro è difficile. Richiede innanzitutto una notevole e rara capacità politica ed istituzionale ad evitare derive populistiche estremamente dannose nel medio lungo periodo. Ma richiede anche interventi di politica economica e sociale delicati e complessi, come ad esempio un sostanziale ripensamento dei meccanismi di welfare e la creazione di condizioni che accelerino il processo di integrazione culturale. Difficile dire quanto sarà necessario limitare la generosità del welfare. Temo però sarà quasi inevitabile ridurne l’universalità di accesso, trasferendo l’offerta di beni oggi pubblici in parte al mercato privato, affrontando quindi tutti gli effetti redistributivi che questo processo necessariamente induce. Condizioni per una più rapida integrazione culturale consistono invece nel liberare gli ostacoli all’integrazione economica degli immigrati, ad esempio favorendone l’accesso mercato del lavoro, così come al credito bancario e al mercato immobiliare. Allo stesso tempo, forzare l’interazione fisica e geografica di immigrati e residenti può essere controproducente, generando reazioni negative e tensioni da entrambe le parti.